I Mondiali di calcio sono alle porte. Una delle manifestazioni sportive più attese e seguite, forse addirittura più delle stesse Olimpiadi, si svolgerà tra giugno e luglio in Brasile: si tratta di un appuntamento cui guarda non solo il mondo calcistico, ma il mondo tout court, per la gran massa di persone che in genere ne sono interessate, ed anche per l’impatto che produce attraverso i mass media.

C’è chi ha storto la bocca per la concomitante assegnazione delle Olimpiadi, che Rio de Janeiro si appresta ad ospitare nel 2016; e chi non solo in Brasile ha recriminato per un dispendio di energie che vista la situazione socioeconomica complessiva di quel Paese sarebbe stato forse meglio indirizzare su altri obiettivi. Ma c’è anche qualcuno, nello stesso Brasile – fatalismo e ricorsi non sono un’esclusiva italopartenopea – che teme che anche questa volta possa ripetersi la fatale circostanza che nel 1950 causò – come dire? - morti agli Achei, cioè quel vero e proprio lutto nazionale che fece seguito alla sconfitta patita ad opera degli uruguaiani nella partita conclusiva di quel campionato mondiale: al Brasile che organizzava, ricordiamo, sarebbe bastato un pareggio per vincere il titolo.

È anche con lo spirito di una sportivissima vendetta che il Brasile si appresta dunque ad ospitare la ventesima edizione della manifestazione calcistica più seguita e attesa e per la quale sono diventati cultori del football popoli e nazioni storicamente, culturalmente, fisiologicamente lontani anni luce da questa disciplina agonistica, dai sudafricani ai norvegesi, dai cinesi ai nordamericani, per dire.

Quel lontano Mundial tuttavia non andò storto ai soli brasiliani: l’Italia stessa, che era reduce dalle due vittorie ai mondiali del 1934 e 1938, a ben guardare, ne uscì con le ossa ancora più rotte, ancorché avesse un alibi abbastanza valido, l’anno precedente il calcio italiano avendo patito la tragedia di Superga, con la perdita, in un sol colpo, di quella perfetta macchina da gioco che era il Torino di Valentino Mazzola. Alla tragedia umana e sportiva si aggiunse poi la psicosi aerea, che convinse (o costrinse?) tutta la struttura – giocatori, tecnici, accompagnatori, cuochi, palloni, spaghetti, magliette e chi più ne ha più ne metta – ad una trasferta via mare lunga una quaresima. Vuoi per questo motivo, vuoi, principalmente, per l’altro, la trasferta si risolse in un fiasco tecnico-agonistico cui del resto la storia calcistica del nostro paese si è spesso ricordata di attingere, basti rammentare la Corea di Middlesbrough (Inghilterra 1966) e i pomodori di Fiumicino (Messico 1970) senza dimenticare la mancata qualificazione ai mondiali del 1958.

Altri tempi, naturalmente: dai e dai, il calcio italiano è cresciuto, si è assestato, è diventato grande dentro i campi da gioco e nelle stanze dei bottoni, ed ora è guardato con attenzione e messo nelle griglie delle favorite. Non sempre, tuttavia: per il mondiale brasiliano, infatti, la nazionale scelta, gestita e curata da Cesare Prandelli non è stata inserita tra le teste di serie. Questione di spiccioli, ma quei pochi centesimi di punto che dividono l’Italia dall’Olanda nel ranking Fifa non le hanno consentito l’inserimento tra le prime otto, tra le teste di serie appunto. Il Ct della Nazionale non ha comunque battuto ciglio: il fatto che l'Italia non sia testa di serie non lo preoccupa minimamente, perché «è soprattutto una questione di prestigio. Non mi spaventa – ha spiegato Prandelli - il rischio di trovare subito Brasile o Spagna, guardate come è andata all'Europeo. È quasi meglio così. Vogliamo sempre sognare in grande, preferisco partire con umiltà e concentrazione. Anche agli Europei non eravamo inseriti tra le teste di serie e siamo arrivati secondi: non ci dobbiamo far condizionare».

È il gioco quello che conta, fa capire Prandelli: e – aggiungiamo – più dello stesso gioco conta la capacità di realizzare, di convertire il gioco in reti, secondo una regola che non si deve mai dimenticare: da quando è stato inventato, nel football vince chi segna un goal più dell’avversario. Altro che estetica… Conta sì la bellezza del gioco, ma più ancora la capacità realizzativa, la possibilità della vittoria insomma. Il mondiale, del resto, è ricco di …mancate vittorie. Abbiamo ricordato la vittoria a sorpresa dell’Uruguay sul Brasile nel 1950: e come dimenticare la sorpresa della Germania (Ovest, allora) sui favoritissimi ungheresi di Puskas nel 1954? O la stessa Germania, ancora Ovest, ancora abbastanza a sorpresa contro i favoritissimi profeti del calcio totale predicato e attuato dall’Olanda di Crujiff-Neeskens?

Italia tra le 32, dunque, anche se non testa di serie: ma che Italia (calcistica) sarà in Brasile? Propositiva e sempre votata all’attacco, dice Prandelli, perché i presupposti per fare bene in Brasile ci sono tutti: «Dobbiamo mantenere l'idea della qualità di gioco a centrocampo – ha avvertito il Ct – questa Italia è nata per attaccare, se non lo facciamo siamo una squadra come tante altre. Per il Mondiale preferisco una squadra che rischi fino in fondo».

Quanto al mancato inserimento tra le teste di serie, Prandelli ha preferito glissare: «La stagione è stata più che positiva. Abbiamo visto un’ottima Confederations, ci siamo qualificati al Mondiale con due turni d’anticipo. Per essere soddisfatti al cento per cento avremmo dovuto vincere con l’Armenia: ma credo sia un po’ da rivedere questa classifica Fifa. E anche gli spareggi, per me vanno aboliti. Noi abbiamo giocato le partite di qualificazione agli Europei e ai Mondiali senza mai perdere una partita, eppure pesano i risultati delle amichevoli. Credo che i criteri per stilare quella classifica vadano rivisti. Gli spareggi invece sono da abolire, non dovrebbero esistere. Meglio fare più gironi: del blasone, della storia di una nazionale si deve tenere conto, è un controsenso che la Francia possa stare fuori. Nel girone stava con la Spagna: siamo sinceri, fossimo stati noi, probabilmente saremmo nella stessa condizione. Si devono fare più gironi, tenendo conto anche del blasone: poi se in un anno e mezzo non fai risultati all’altezza, paghi».

Non è che alla vigilia dei Mondiali il calcio italiano, sia pure il calcio italiano di club, abbia dato segni di grande vitalità: ultimo in ordine di tempo a resistere sulle scene continentali della Champions è stato il Milan, il glorioso ancorché raffazzonato Milan di quest’anno, poi spazzato via in maniera piuttosto spiccia dall’Atletico Madrid. La restante compagnia (ai nastri di partenza della Champions League, ricordiamo, le italiane si erano presentate in quattro) era out già da tempo: con rimpianti (e rimorsi?) invero tardivi soprattutto da parte di quella Juventus che ha rimandato per l’ennesima volta il tentativo di scalata alla coppa più prestigiosa (e nei confronti della quale sembra ergersi il muro del fato).

Molti dei cosiddetti addetti al lavori si sono adontati quando il cittì Prandelli ha fatto notare questo gap, che lo impensieriva pensando alla preparazione più prossima dei calciatori che a breve varcheranno l’Oceano per la fase finale del Mondiale brasiliano. L’amichevole con la Spagna e la débâcle dei club hanno molto, e a ragione, rabbuiato Prandelli: cui, per sua stessa ammissione, mai in precedenza «era capitato di vedere una tale differenza di condizione tra noi e gli avversari». «È una questione generale, di intensità: il nostro calcio – ha evidenziato il C.T. – non ha i ritmi alti degli altri campionati, non siamo abituati a pressare. E poi dobbiamo rivedere alcuni concetti dalle basi: noi parliamo di pressing e ancora pensiamo a difesa e attacco, gli altri invece fanno densità, squadra corta, corsa continua, intensità». Che fare?

«Se cambi i termini del discorso il risultato è lo stesso. Il calcio – ha detto Prandelli dopo l’amichevole con la Spagna mutuando concetti che affiorano spesso nella identificazione, frequente ancorché trita e ritrita, tra sport e società – è come il Paese: se non hai grandi mezzi per essere veloce, se non hai grandi nomi o grandi numeri, devi avere grandi idee. E come C.T. mi sento il primo responsabile nel trovare spunti su cui lavorare: contro la Spagna li ho visti nel carattere, nell’orgoglio, nella capacità di affrontare le difficoltà».

Il primo responsabile, diciamola tutta, a noi sembra non solo e non tanto l’attuale C.T. quanto piuttosto l’insieme del “prodotto calcio”, che offre una divaricazione macroscopica tra base e vertice, tra quantità e qualità, tra entrate e uscite (e queste non solo in termini monetari, economici). Ed anche, diciamolo, tra pubblico e regia: le tifoserie spesso preda di raptus, striscioni a parte, non sono forse la conseguenza di un rapporto tra “sport” e “spettacolo” che in Italia è stato impostato, e gestito, in maniera poco accorta?

Le classifiche della Fifa
Il meccanismo del ranking della Fifa nella sua complessità è abbastanza semplice: si tratta di tener conto dei risultati conseguiti negli ultimi quattro anni in gare ufficiali dalle squadre nazionali e di attribuirne un valore, compensato da coefficienti che tengono conto di varie situazioni, quali l’importanza della partita, la forza dell’avversario, l’importanza della confederazione di appartenenza e il periodo in esame, con maggiore incidenza dei risultati conseguiti nelle partite disputate più recentemente. I precedenti in estrema sintesi:

Anno, luogo, vincitore
1930, Uruguay, Uruguay
1934, Italia, Italia
1938, Francia, Italia
1950, Brasile, Uruguay
1954, Svizzera, Germania Ovest
1958, Svezia, Brasile
1962, Cile, Brasile
1966, Inghilterra, Inghilterra
1970, Messico, Brasile
1974, Germania, Germania Ovest
1978, Argentina, Argentina
1982, Spagna, Italia
1986, Messico, Argentina
1990, Italia, Germania
1994, Stati Uniti, Brasile
1998, Francia, Francia
2002, Corea-Giappone, Brasile
2006, Germania, Italia
2010, Sud Africa, Spagna
2014, Brasile, ?

Da notare che ad eccezione del Brasile 1958 e 2002 e della Spagna 2010, il Mondiale è stato sempre vinto da una nazione del Continente in cui si è svolta la fase finale.