La prima volta che lo vide, non lo colpì molto. L’aspetto anonimo, la figura grigia, incolore. Questo, in seguito, gli fece pensare che quella, forse, non dovesse essere necessariamente la prima volta dello sconosciuto sulla panchina scura, proprio di fronte alla sua abitazione. Non viveva di certo nel suo palazzo, e non era nemmeno del vicinato, perché altrimenti Franco l’avrebbe sicuramente riconosciuto. I tratti orientali potevano far pensare ad un immigrato, eppure, percorrendo lo stereotipo comune con ingenua naturalezza, gli asiatici non erano famosi per un’intensa laboriosità? I media parlavano di venti ore di lavoro al giorno e Franco si interrogava su quella figura, forse l’unico cinese disoccupato di cui era conoscenza. Perché di certo non aveva lavoro. Era stato lì seduto tutto il giorno, Franco l’aveva visto la mattina prima di andare in ufficio e la sera al suo ritorno. Sempre su quella panchina. Immobile, anonimo, quasi fosse anche lui arredo urbano, un cartello, un lampione muto.

Chi era? Franco si slacciò la cravatta e la gettò su una sedia, poi si levò anche la giacca e cominciò a sbottonarsi la camicia. Un’altra giornata in quel maledetto ufficio se ne era andata via, fuggita per sempre, con la costante lentezza di un treno che muore dietro l’orizzonte. Nel bagno si gettò acqua fresca sul viso, sugli occhi soprattutto, straripanti di fogli di calcolo elettronico, come un cesto d’immondizia troppo pieno. Chiuse il rubinetto lentamente e si guardò allo specchio, incerto, non voleva scoprire un altro capello bianco. Eppure una parte di lui voleva saperlo, quasi così potesse avere la percezione del tempo che scorre. Dedicò poco alla ricerca, non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di quell’uomo sulla panchina.

Ma perché? Poteva essere un vagabondo, un disperato che la società aveva brutalmente sbattuto alla porta. Poteva essere un uomo qualunque, senza particolari pregi né difetti, senza qualità da prima pagina, senza storie eccezionali, un uomo che si era semplicemente seduto su una panchina, forse stanco e annoiato, o forse addirittura senza alcun motivo. In fondo di cosa doveva giustificarsi? Una panchina libera, dall’altro lato della strada, solo casualmente di fronte all’abitazione di Franco. Ma allora perché ne era in qualche modo inquietato? Accese la tv della cucina, aprì il frigo e mangiò un pezzo di formaggio. Poi tornò in camera e non poté fare a meno di scostare la tenda e guardare fuori, verso quella panchina. L’uomo asiatico era ancora lì, le gambe incrociate e le braccia distese sul legno, una strana croce per una posa comune. Franco scosse il capo e tornò nell’altra stanza. Pensò che non doveva farsi condizionare dai media, non doveva avere sempre paura, timore, di qualunque estraneo fosse in qualche modo vicino a lui. Non voleva nemmeno produrre pensieri vagamente razzisti. Incolpò la stanchezza di quel lavoro soffocante e di quell’ufficio anche architettonicamente opprimente, cenò alla luce del televisore e andò a letto senza più pensare.

Il giorno successivo, al risveglio, Franco non si ricordava dell’uomo sulla panchina. Ma per un’ambigua associazione di idee, gli tornò in mente proprio mentre allo specchio si scoprì un nuovo capello bianco. Se lo strappò via con disappunto e per un istante si compiacque di vederlo annegare gorgogliando verso chissà quale fogna insieme all’acqua sporca del water dove l’aveva, quasi per vendetta, gettato. La luce dall’esterno era una ragnatela grigia che proiettava la stanca seta tra le fessure della tapparella. Franco le fissò, parevano tanti occhi a mandorla, sfacciatamente orientali e il sorriso di piccola vittoria che aveva ancora dopo aver confinato il capello bianco in un inferno di liquami organici, gli si eclissò sulle labbra. Franco non poté fare a meno di tornare in camera e scostare la tenda. L’uomo sulla panchina era ancora lì, immobile, nell’identica posizione del giorno precedente.

Possibile fosse rimasto lì tutta la notte? La figura grigia sembrava mimetizzarsi di proposito con il coperchio cupo di nuvole cineree che occultavano i raggi del sole. Franco sbuffò e cominciò a vestirsi. Con un tempo del genere, una mano pesante sulla testa a rallentare i movimenti, la giornata in ufficio gli pareva più insormontabile del solito. Rinchiudersi in quella stanza recondita, le cui due finestre davano su un altro ufficio. Panorama di gambe incrociate sotto scrivanie e cestini, fotocopie e spillatrici, puntine. Mentre scendeva le scale Franco si concentrò quasi con invidia sull’uomo sulla panchina, ne bramava quell’aria, seppur grigia, che lui stesso non avrebbe potuto quel giorno respirare. Fuori dal portone si fermò. Finse di cercare qualcosa in tasca per poterlo osservare meglio. Com’era calmo, fuori dal mondo, pareva insensibile a tutto, atarassico. Era quasi surreale e in qualche modo ipnotico; lo attirava. Se ne sarebbe stato lì tutto il giorno a fissare le macchine e i pedoni con beffarda indifferenza? Di certo non avrebbe riempito moduli su moduli, con cacofonica monotonia, di superflui formalismi autocelebrativi. Quasi stava cominciando ad odiarlo per quella sua presupposta libertà che l’uomo si girò verso di lui. Fu un attimo, solo un attimo, ma gli piantò con violenza le pupille addosso e Franco ebbe la sensazione che lui avesse intuito tutto. Si sentì così quasi sporco per quel fluire di pensieri incontrollato e fingendo indifferenza si diresse a passo svelto verso il lavoro.

In ufficio, davanti al pc, però non riusciva a concentrarsi. Quello sguardo fugace gli aveva lasciato addosso qualcosa. All’ora di pranzo non era riuscito a portare a termine una semplice compilazione e così fu costretto a subire una plateale ramanzina dal suo capo davanti ai colleghi che sorridevano compiacenti. Non aveva usato parole dirette ma sarcastiche, veniva rimproverato e deriso al tempo stesso dal capoufficio che era più giovane e meglio pagato di lui. Era stato un momento insopportabilmente lungo, il capo calcava le frasi e lo trattava come un nuovo arrivato, privo di esperienza, ancora all’incipit di una dura gavetta. Non era così, ma la realtà in quegli istanti non aveva importanza. E mentre il capoufficio lo riprendeva, lui non poteva fare a meno di pensare all’uomo sulla panchina. Era colpa sua se non si concentrava. Cosa faceva tutto il giorno di fronte a casa? Nell’istante in cui il capo gli concesse una fastidiosa ed esemplare pacca sulla spalla di perdono, Franco cominciò a valutare l’idea di chiamare la polizia; perché l’uomo sulla panchina poteva essere un palo che lo spiava a supporto di un furto nella sua abitazione. Quel pomeriggio, però, non chiamò nessuno. Si limitò a svolgere quello che avrebbe dovuto fare la mattina e quando uscì dalla porta dell’ufficio, il capo gli regalò un sorriso di tregua perché forse aveva intuito la giornata di stress in cui Franco versava. Sullo specchietto di una macchina parcheggiata fissò il suo volto. Si sentiva gli occhi appesantiti e gli pareva di avere una nuova ruga. Immancabilmente imprecò alla vista di un capello bianco. Non lo strappò, quasi per scaramanzia, e s’incamminò rabbuiato verso casa.

Alla vista dell’uomo sulla panchina, inesorabilmente presente anche in quel tardo pomeriggio, Franco ebbe un fremito di rancore irrazionale. Rallentò il passo, quasi lo puntò minaccioso, ma all’ultimo istante si diresse verso il portone del suo palazzo concedendo a quell’impulso vagamente animalesco che aveva percepito, solo un ghigno beffardo, perlopiù una smorfia indecifrabile, rivolta fulminea all’imperturbabile asiatico. Nel suo appartamento si liberò di giacca e cravatta quasi in un solo gesto, poi si tolse anche la camicia e a torso nudo vagò innervosito per le stanze. Con movimenti rapidi aveva spalancato e richiuso il frigo un paio di volte, era stato in bagno, aveva scritto qualcosa sull’agenda e acceso la tv. Ce l’aveva principalmente col suo capoufficio di cui, però, l’uomo sulla panchina pareva un’inconscia emanazione a superare il tempo e lo spazio del lavoro. E anche se i due non avevano rapporti Franco li associava.

Quell’uomo sulla panchina era una presenza. Qualcosa che all’improvviso si era materializzato nella vita di Franco e che, se ne rese conto dolorosamente in quei frenetici istanti, lo aveva privato del dono della solitudine. Una solitudine ricercata e riflessiva, riposante, che ora non poteva più permettersi dovendo sempre mantenere la guardia alta per non farsi cogliere impreparato da quella presenza opprimente. Era lì a controllarlo o semplicemente a mettergli pressione? Era evidente, non lo abbandonava mai. Ed era così serafico, tranquillo. Questo pensava Franco spiandolo ancora dalla finestra della camera, ma alla vista del suo stesso volto riflesso sul vetro tornò lentamente verso la logica. Richiuse le tende. Perché quello sconosciuto doveva essere lì proprio per lui? Peggio, che senso aveva che fosse a controllarlo, magari per conto del capoufficio? Franco si lasciò cadere sul letto e si massaggiò fronte e occhi con la mano destra. La conclusione era semplice, si stava facendo soprassedere dallo stress di quel lavoro monotono e logorante e gli stavano sostanzialmente cedendo i nervi, capello bianco dopo capello bianco. Perché era in quel modo che si accorgeva del tempo che sprecava quotidianamente in quell’ufficio. Quell’uomo sulla panchina non aveva di certo alcuna colpa, anzi, la sua casuale presenza era stato forse il necessario campanello d’allarme, il segno che Franco inconsciamente attendeva per cambiare per sempre una situazione che lo soffocava.

Decise di prendere tempo. Dopo più di mezzora di riflessione ad occhi chiusi, si mise a sedere sul letto, accorgendosi quasi con disgusto di essere ancora a torso nudo, col sudore gelato sulla pelle, come dopo un combattimento. S’infilò una t-shirt e chiamò il suo capo. Aveva deciso di starsene qualche giorno a casa, certo che la lontananza dal lavoro gli avrebbe schiarito le idee o quantomeno migliorato l’umore. Così finse di stare male e al telefono esagerò, forse eccessivamente, falsi colpi di tosse, provocatorio, quasi a sfidare l’intelligenza del capoufficio per una rivalsa d’orgoglio interiore fine solo a se stessa. Il capo non fece una piega e gli concesse una settimana di ferie. Con disappunto Franco riabbassò la cornetta; perché aveva capito che la sua assenza al lavoro non era poi così pesante. Il capoufficio non aveva neanche insistito, né fatto le domande che Franco si aspettava. Come se un’influenza così forte, con violenti colpi di tosse, alla sua età, fosse la cosa più naturale.

Franco cenò sentendosi vecchio, poi tornò con spontaneità alla tenda della camera e fissò la panchina. Altrettanto naturale e spontaneo, l’uomo era ancora lì. Clamorosamente imperturbabile. Franco si rese conto che in quella settimana costretto a casa avrebbe potuto lui stesso spiare ventiquattro su ventiquattro l’uomo sulla panchina, avrebbe potuto scoprire i suoi orari, perché anche lui di certo doveva dormire, mangiare e andare in bagno. Questo pensiero ebbe un effetto ambivalente; se da una parte gli infuse un’ambigua serenità, dall’altra lo inquietò vagamente. Sarebbe stato capace davvero di trascorrere ventiquattro ore acquattato dietro quella finestra? Scosso si mosse svelto dai vetri dove ancora sostava e si mise a letto. Prima di dormire pensò che in ogni caso la vista di quell’uomo alzarsi dalla panchina per un qualsiasi motivo, per lui sarebbe stata come un’importante vittoria. Non riusciva a darsi una spiegazione logica, ma prima di scivolare nel sonno, ebbe fortissima la sensazione che quella fosse la sola cosa che avesse importanza.

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