La mattina seguente, quasi per alleggerirsi da quel peso che da solo si era imposto e che ora, col sole, gli appariva irreale, non si precipitò subito alla finestra, come si era ripromesso sommariamente di fare. Si diresse invece al bagno, quasi spensierato. Ma la sua serenità fu scalfita ancora dallo specchio. Franco si lasciò sfuggire un grido. Questa volta non aveva avuto bisogno di cercare un solitario capello latteo giocare a nascondino sulla testa, perché un’intera ciocca, vasta come il pugno della sua mano, gli si era imbiancata all'improvviso in quella notte apparentemente tranquilla. Per tutta risposta, tornò alla finestra della camera e guardò fuori. Non si stupì più di tanto di trovare ancora l’uomo sulla panchina. Fissò questa volta l’attenzione sui capelli che coronavano quella figura incolore. Non erano totalmente bianchi, né neri. Non avevano una tonalità forte, erano anch'essi anonimi, grigi. Poi si concentrò a lungo sul volto, in cerca dei segni del tempo. Quanti anni poteva avere quell'uomo sulla panchina? Non riusciva a rispondersi, pareva fuori dal tempo. Lo scrutò lungamente, ne valutò gli abiti, sempre gli stessi, le smorfie, gli sguardi. Quando distolse infine l’attenzione era incredibilmente l’ora di pranzo. Lo stava davvero spiando, ipnotizzato, e non era per nulla stanco di quell'insolita attività. Corse così verso la cucina dove velocemente prese una bottiglia d’acqua e del pane indurito di chissà quale giorno precedente e che misericordioso si era palesato da un recondito angolo della dispensa. Quello fu il suo pranzo, che consumò dietro la finestra della camera da letto, faticando a macinare coi denti quel pane duro, quasi fosse una gara di resistenza, tra lui e l’uomo sulla panchina, che beffardamente non pareva avere preoccupazioni. Nel corso del pomeriggio tornò spesso a quel pensiero. Una gara. Una prova, quasi d’orgoglio. Si sentiva forte, vivo. Dopotutto lui era nella sua abitazione, con il bagno e la cucina a portata di mano, mentre il suo rivale si sarebbe di sicuro alzato prima della sera. E poi il tempo grigio prometteva pioggia e l’uomo sulla panchina non aveva evidentemente un tetto sulla testa. Si sarebbe alzato prima di sera, Franco ne era convinto. E sarebbe stato sconfitto. Per non perdersi quell'istante, Franco si dimenticò di cenare. Era calato il buio e nella penombra della sera, ritaglio di giornale nella luce del lampione, ora l’uomo sulla panchina pareva sorridere. Ma forse era solo una suggestione. In ogni caso, qualunque fosse la sua espressione, era ancora tenacemente lì, inchiodato su quella panchina. Perché? Franco si sgranchì il collo indolenzito, si alzò in piedi e poi si accucciò di nuovo, dietro le tende, con lo sguardo ossessivamente appiccicato al vetro, come una ventosa. Con rabbiosa ostinazione bevve un altro sorso d’acqua. Quasi conseguentemente, forse più per l’idea che per fisiologia, corse al bagno. Si impose di essere rapido anche in quello e tornò subito in camera, con la segreta speranza di scoprire finalmente quella panchina vuota. Niente, l’uomo era ancora lì. Ed ora certo sorrideva perché il riverbero di un’auto sulla strada aveva generato un riflesso sulla sua bocca. Il traffico si spense lentamente, e la strada fu deserta. In quel silenzio notturno, scheggiato appena dal ronzio soffuso di un lampione difettoso, Franco quasi si immobilizzò. Gli era sembrato di averlo sentito respirare quell'uomo sulla panchina, finalmente un segno di vita a contrastare quella situazione surreale. Un respiro, uno solo, poi più niente. Quasi l’uomo sulla panchina avesse intuito le mosse di Franco e rispondesse a quel gioco alla conquista del silenzio assoluto. Nessun rumore, solo il lieve ronzio. Trascorse in quel modo buona parte della notte e alle prime luci dell’alba, stremato, Franco cadde addormentato sul pavimento. L’uomo sulla panchina, irrealmente stoico, era ancora lì.

Franco si svegliò dopo l’ora di pranzo senza rendersi da principio conto appieno di dove si trovasse. Quando sentì le ossa indolenzite reclamare attenzione si accorse di essere disteso sul pavimento sotto la finestra. Si alzò di scatto e guardò fuori. Prima che un calo di pressione dovuto al celere movimento gli annebbiasse parzialmente la vista, si rese conto quasi con orrore che l’uomo sulla panchina era ancora lì. Si precipitò in bagno e si gettò acqua fresca sul viso e sul collo. Come in un incubo gli eventi parevano procedere fuori dal suo controllo. Un’altra assurda chiazza di capelli bianchi sulla sua testa. Franco si maledisse di essersi addormentato e fu certo che l’uomo sulla panchina avesse approfittato del suo calo di attenzione per alzarsi e andarsene. Era anche sicuro che fosse tornato da poco. Aprì il frigo e lo trovò immerso in una stanca penuria, portata in grembo come una gravidanza indesiderata. Si infilò sotto la doccia e con l’acqua amica che gli scorreva addosso ritornò pian piano alla ragione. Decise di uscire per fare colazione e la spesa per i giorni di ferie che gli mancavano. Doveva organizzarsi, essere logico, avere tutto il necessario a portata di mano sotto quella finestra per non doverla più abbandonare; e poi non doveva più addormentarsi. Al supermercato prese tutto ciò che poteva essergli utile, facendo incetta sopratutto di caffè. Mentre vagava errabondo tra gli scaffali come uno zombie aveva sulla bocca uno strano sorriso, come se tutta quella situazione e i pensieri conseguenti fossero solo uno scherzo della sua mente. Alla cassa pensò al suo capoufficio. Gli aveva detto che era malato e non poteva certo farsi scoprire fuori da qualcuno che conosceva. Così quasi insultò la cassiera che si era persa in chiacchiere di circostanza con la cliente prima di lui. Tornato di fretta a casa, solo dopo aver richiuso il portone dietro le spalle, ritornò al precedente stato di calma irreale, un sottofondo interiore che lo lasciava confuso. Organizzò con meticolosa lentezza un tavolo e una sedia sotto la finestra e si preparò per la cena e per la notte. Solo scostando la tenda si rese conto che entrando non aveva fatto caso all'uomo sulla panchina che si trovava ancora nella medesima posizione in cui l’aveva lasciato. Prima di cena decise di scendere, irrazionale, e di provocarlo. Uscì dal portone e fece un giro del palazzo a passo veloce per caricarsi. Non sapeva bene cosa fare e quando completò il giro, rallentando le sue gambe ormai quasi indipendenti, si rivolse verso l’uomo sulla panchina e lo salutò con un sorriso e un banale buonasera. La risposta che ottenne fu un saluto accennato, di circostanza. Aveva solo risposto al suo sorriso senza parlare, annuendo, con un lieve movimento del collo. Franco tornò in casa indispettito. Il suo saluto non aveva importanza, lui non aveva importanza, peso, per l’uomo sulla panchina. Gli venne voglia di scendere ancora, di picchiarlo, di scaraventarlo a terra a forza di calci per toglierlo finalmente da quella maledetta panchina. Non fece niente di tutto ciò e anzi cercò di calmare il suo respiro affannato dalle scale salite troppo in fretta. Cenò in silenzio, senza quasi guardare quello che stava mangiando, sperduto nel riflesso del vetro. Quella notte non dormì, osservava l’uomo sulla panchina costringendosi ad ingurgitare caffè. All'alba capì che non sarebbe stato in grado di mantenere quella vigilanza totale che si era imposto per i restanti giorni di ferie. Andò a letto senza guardare fuori e si concesse qualche ora di sonno. Fu svegliato dalla telefonata del suo capoufficio che si accertava della sua salute. Ancora una volta Franco esagerò con i colpi di tosse ma aveva la voce talmente impastata dal sonno, quasi fosse rimasto incagliato tra le gengive quel bisogno di riposo, che la sua recita fu indiscutibilmente credibile. Decise di dormire a piccole dosi, una ventina di minuti ogni tre ore circa, cosicché avrebbe evitato di crollare e avrebbe il più possibile mantenuto il controllo sulla panchina. Paradossalmente, durante quelle sue fasi organizzative, non guardava fuori, quasi ormai avesse la piena certezza di quella presenza; perché nessuno di quei suoi ragionamenti poteva essere vano.

Trascorse in quel modo stressante tutti i suoi giorni di ferie. Senza alcun risultato. Non aveva mai visto alzarsi lo sconosciuto dalla panchina, in compenso ogni sua visita allo specchio gli mostrava ingenerosa i capelli sempre più bianchi, quasi il processo dell’invecchiamento si fosse all’improvviso abbattuto su di lui, inesorabile. L’ultimo giorno decise di agire. Il suono della sveglia lo aveva riportato a quella surreale realtà per l’ennesima volta. Era stanchissimo. Aprì la finestra e quasi si sporse per metà verso l’uomo sulla panchina che se ne stava inesorabilmente al suo posto. La sveglia ancora suonava e così Franco la prese e la scagliò sul pavimento. Mangiò qualcosa, lentamente, e si infilò sotto la doccia. Si rase accuratamente la barba divenuta grigiastra e si osservò i capelli ormai bianchi con malinconica rassegnazione. Tornò in camera e scelse il suo vestito più elegante a cui abbinò la camicia e la cravatta più costose che possedeva. Il telefonò squillò all'improvviso, e quel suono gli ricordò cinico la sveglia. Non rispose e senza sapere con certezza che ora e che giorno della settimana fossero, uscì di casa. Fuori dal portone si accorse del cielo grigio, indifferente, come se niente in quel breve tempo fosse mutato. Si diresse deciso verso la panchina e attraversò la strada senza guardare. Per poco non fu investito da un’auto in movimento, Franco non si curò delle imprecazioni che il guidatore gli aveva lanciato dal finestrino aperto. Aveva gli occhi fissi sull'uomo sulla panchina e sulla bocca uno strano sorriso. Finalmente gli fu davanti. L’asiatico alzò per un istante il capo verso di lui e dopo aver accennato un breve e lievissimo sorriso tornò a guardare la strada. Franco si sentiva stranamente calmo vicino allo sconosciuto, come se essere lì fermo, immobile, al cospetto di quella presenza che aveva per giorni spiato, fosse la cosa più naturale. Essere arrivato fin lì aveva una sua logica. Franco percepì questa consapevolezza e lentamente si mise a sedere. In quel gesto mantenne inalterato l’ambiguo sorriso che aveva disegnato sulle labbra. Quando fu a contatto con il legno anche l’uomo dai tratti orientali lievemente, volto verso di lui, parve sorridere e annuire. Franco lo guardò per un istante, violentemente curioso e inebetito al tempo stesso. Lo guardò negli occhi per un attimo che gli parve incredibilmente lungo ma che gli fu inutile perché non colmò quelle sue curiosità. Fece in tempo a considerare che neanche così da vicino fosse in grado con esattezza di indovinare l’età dell’uomo coi tratti orientali. In realtà fu un istante breve, dopo aver ancora una volta vagamente sorriso a Franco, lo sconosciuto si alzò veloce e si incamminò via. Fu un attimo e l’uomo sulla panchina scomparve, portandosi via per sempre con sé tutte le risposte a quelle domande che Franco non era riuscito a rivolgergli.

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