Nella luce incerta del meriggio, Ugo di Troina camminava veloce per il sentiero semideserto che portava alle grotte, appena fuori dalla città. In una di queste, sorgeva una chiesetta dedicata a S. Maria La Grotta. Si diceva che l’edificio religioso fosse molto vecchio, il più antico della città. I Romani in epoca remota avevano conquistato l’urbe, proprio come gli antenati di Ugo, che provenivano dalla Francia. Ma era materia del passato e ormai i soli ricordi di quella terra, che Ugo non aveva mai visto, erano le parole lontane del padre: «… verdi pascoli a perdita d’occhio, dove un cavallo può correre a briglia sciolta per ore, senza mai incontrare un monte né una collina».

Mentre era distratto da questi pensieri si era alzato un vento freddo. L’inverno non voleva lasciare il passo alla primavera. Nonostante i giorni si allungassero e i primi fiori cominciassero a far bella mostra di sé sui rami dei peschi e dei mandorli, le giornate continuavano a essere fredde e piovose. Il giovane stringeva allora a sé il mantello, per ripararsi dal freddo che mordeva da ogni lato come una muta di cani affamata che si buttasse sul grifo. Tale era la polvere che lo copriva che, ai pochi passanti che incontrava, sembrava un viandante che giungesse da fuori città. Procedeva attraverso la campagna per raggiungere la chiesetta, quando il sentiero da dritto e largo, quanto bastava per procedere con due cavalli affiancati, diventò uno stretto budello con il fondo disastrato. Pieno di pietre e massi di origine lavica, in parte ammassati ai lati, rappresentava un vero pericolo per un cavallo, che facilmente poteva prendere una storta o ferirsi a un garretto. In quell’aspra terra irta di punte, più simile a una grattugia che a una pianura, non era infatti difficile inciampare.

Superata una curva del sentiero si ritrovò, d’un tratto, senza avere la possibilità di fare il benché minimo movimento. Due spade erano puntate alla sua gola! Due uomini coperti da un cappuccio calato sulla testa, senza fare il più piccolo rumore, erano riusciti a sorprenderlo. Con uno stentato francese, quello che sembrava essere il capo gli intimò di consegnargli tutti gli averi. Ugo rispose con un silenzio prolungato, come se non avesse capito. Nel frattempo guardava a destra e a sinistra, senza girare la testa, muovendo impercettibilmente gli occhi. Così, alla debole luce del crepuscolo, riuscì a notare un terzo e poi un quarto uomo che, da dietro un cespuglio, ai lati della strada, lo tenevano sotto tiro. Due frecce erano incoccate e puntate in direzione del suo petto. Era proprio caduto in un’imboscata!

Si trovava fuori dalle mura della città, per la qual cosa non avrebbe atteso alcun aiuto dalle guardie che pattugliavano l’abitato. La notte scendeva già come un mantello scuro a coprire tutte le cose, e difficilmente si sarebbe imbattuto in un passante. Ma se anche questo fosse avvenuto, cosa si sarebbe potuto aspettare? Il pellegrino, probabilmente, non avrebbe potuto o saputo come difendersi dai tagliagole che lo stavano attaccando. Non c’era altro verso che combattere! Non ce l’avrebbe fatta contro quattro briganti ma, pensò, di sicuro ne avrebbe lasciati a terra il maggior numero possibile. Così, mentre un omaccione si avvicinava urlando e gesticolando, facendogli segno di abbandonare a terra quanto era in suo possesso, Ugo, con un movimento fluido, si sciolse il mantello in modo da poter essere più libero nei movimenti. Nello stesso momento, il ladrone, credendo di essere assecondato, si volse verso il suo compare. In quell’attimo Ugo agì. Con una grazia e un’abilità sorprendenti, per quello che sembrava essere un vecchio, sfilò la spada dal fodero lanciandolo in aria e, afferrandola con entrambe le mani, la infisse quindi nel corpo dell’aggressore. Il ferro temprato affondò, senza incontrare resistenza, nel tessuto molle del basso ventre. Spinto da una muscolatura possente, lo trapassò da parte a parte, fuoriuscendo dalla schiena dello sventurato. Il ladro non ebbe nemmeno il tempo di raccomandarsi al suo creatore, ma sul suo volto si dipinse un’espressione di stupore, mista a delusione. Poi il viso fu inondato da un rivolo di sangue…

Ugo estrasse la spada dal corpo martoriato e fece appena in tempo a evitare che restasse intrappolata, durante la caduta dell’uomo. Si buttò, quindi, sulla sinistra per schivare due frecce che sibilarono accanto a lui. Si rese conto allora che non avrebbe potuto evitare la successiva scarica di frecce. In quegli istanti, ebbe la certezza che per lui fosse ormai finita. Questo non lo trattenne, e fattosi animo, si apprestò a rialzarsi, impugnando ancora la spada per un ultimo attacco. Se si fosse mosso abbastanza in fretta, pensò, avrebbe potuto infilzare un altro tordo! Si, forse ce l’avrebbe fatta prima che l’aereo fato comminasse la sua negra sentenza, e lui fosse portato al cospetto dei suoi dei. Ma diamine! Avrebbe camminato con onore. Non si sarebbe mai arreso a una banda di masnadieri.

Prima di rialzarsi da terra, rotolò in direzione dell’altro brigante che lo fronteggiava. Già l’aerea procella stava per investirlo, quando un urlo agghiacciante rimbombò nello stretto passaggio. Dal sentiero, dietro di lui, irruppe improvvisamente una massa scura che lo urtò a gran velocità e lo mandò, insieme al vile tagliagole che lo stava assalendo, a rotolare lontano dal punto in cui si trovava. Gli arcieri, sicuri di colpire il bersaglio, avevano già lasciato andare le frecce che ora si piantavano con un sibilo sul terreno, dove prima c’era il guerriero. Il nuovo venuto disse di chiamarsi Antonio e, ancora attorcigliato al proprio mantello e noncurante delle frecce che già scoccavano verso di lui, si dichiarò fortunato di averlo incontrato. Tutti e tre si rialzarono, non senza qualche ammaccatura, nella frescura della notte incipiente. Per un momento sembrò che la zuffa avesse una tregua e tutti ne approfittarono per rialzarsi e riconsiderare il nemico. Sembrò essersi creata una situazione di stallo quando, dal buio della notte, uscirono fuori altri tre briganti che fecero pendere la bilancia a favore dei tagliagole.

Con prontezza d’animo Antonio urlò ai banditi di arrendersi! Questi per tutta risposta si guardarono beffardi tra di loro e, vistisi in netta superiorità numerica, si gettarono addosso ai due. Chi aveva gli archi li abbandonò e si scagliò, coltelli alla mano, contro i viandanti. Ma gli uomini del nord, retaggio di antichi guerrieri, non si persero d’animo e accettarono l’impari scontro. Non temendo la morte la sfidarono, come solo può fare chi non conosce vergogna e si crede immortale. La spada di Antonio attraversò l’aria da una parte all’altra, senza conoscere riposo. Affrontò l’ira di un gigante, con il cranio rasato, protetto da una pesante armatura: questi non era un ladro ma un guerriero esperto. Contemporaneamente altri tre gli furono alle costole cercando di colpirlo con asce e con pugnali. Il ferro urtava contro il ferro, sprizzando scintille nell’aria che si riempiva di polvere. Come in una macabra danza la lama di Antonio sembrava volare, ora colpendo ora rintuzzando l’attacco nemico.

L’armatura del gigante era colpita in più punti. Come il falco che dall’alto del cielo intravede sul terreno un movimento e si tuffa in picchiata per ghermire la preda, così la punta della sua spada affondava ripetutamente nelle carni del bandito sollevando spruzzi di sangue. A dispetto della forza del suo nemico in pochi minuti ne ebbe ragione, nonostante il suo corpo fosse raggiunto da numerosi colpi di coltello che gli incisero profonde ferite. Quando i briganti videro crollare al suolo il loro capo morto, ristettero perplessi. Lasciate cadere le armi, per correre più velocemente, si buttarono a capofitto nell’oscurità. Antonio si accascio al suolo nell’attimo successivo. Ugo, che nel frattempo aveva combattuto anche lui con grande foga, riuscì facilmente ad avere ragione del suo avversario. Questi si gettò in un affondo con la spada che Ugo schivò prontamente e dopo averne bloccata l’elsa con il braccio, come solo un maestro può fare, infilò il ferro di punta decretandone la morte. Quando i banditi scapparono, Ugo ebbe un attimo di sbigottimento e pensò di raggiungerli per attaccarli alle terga, ma l’attimo dopo erano svaniti nel nulla e avendo visto lo straniero accasciarsi a terra rinunciò a inseguirli per aiutarlo.

«Ma sei sempre così spavaldo?», disse Ugo all’indirizzo dello straniero. «Quando gli hai chiesto di arrendersi ho pensato che fossi impazzito! Ah proposito mi chiamo Ugo e vengo da Troina».
«Piacere di conoscerti», disse Antonio. «Come ti ho già detto, ma capisco che possa esserti sfuggito, mi chiamo Antonio e vivo in questa bella città!».
«Un po’ pericolosa a dire il vero!».
«Si, in effetti gnnn… », cominciò Antonio. E mentre stava parlando ebbe un mancamento e ricadde al suolo da dove si era faticosamente rialzato.

Ugo non perse tempo e abbandonate le armi prese la borraccia del vino, che teneva nella borsa sulle spalle, e ne diede da bere al compagno rialzandogli la testa da terra. Antonio rinvenne quasi subito. Ugo, scrutando le ferite al fianco che perdevano sangue, si accorse che erano superficiali e adagiò la testa del suo compagno ferito sulla sacca. Con strisce di stoffa, che tagliò celermente dalla sua veste, si accinse poi a bendargli le ferite. Fatto questo gli circondò la vita con un braccio e lo aiutò a percorrere i pochi passi che ormai li separavano dalla chiesa di S. Maria, meta ultima del suo cammino…

L’angusta aula dedicata alle liturgie era umida e poco illuminata. Lo scalpiccio dei passi di Ugo e di padre Giovanni, reso pesante dal fardello che portavano, risuonava nel silenzio profondo. L’odore acre dell’olio, che bruciava in una piccola lampada, lasciava una scia che si perdeva nell’oscurità. Il gruppetto attraversò la piccola chiesa e si diresse verso l’alloggio del parroco. Misero a letto Antonio e, liberatolo dei vestiti, presero a lavargli le ferite con acqua mista ad aceto. Leggeri quanto improvvisi lamenti dimostravano come Antonio fosse cosciente, di quello che gli stavano facendo. Dopo che l’ebbe lavato e bendato come meglio poteva, l’anziano sacerdote gli diede da bere un infuso che, nel frattempo, aveva preparato.

«Di cosa si tratta», disse Ugo rompendo il silenzio.
«Solo una tisana per farlo dormire un po’».
Dopo non molto tempo, complice la stanchezza e le ferite sofferte, Antonio cominciò infatti a russare senza ritegno.

Ugo gli raccontò come Antonio gli avesse salvato la vita e di come gliene sarebbe stato grato per sempre. Sfilatosi dal dito un anello con una pietra, pregò il sacerdote di consegnarlo ad Antonio quando si fosse svegliato. Lui purtroppo non si poteva trattenere oltre, affari urgenti lo richiamavano in città. Chiese al parroco di riferire al malato che Ugo di Troina sarebbe stato per sempre suo amico. Lo avrebbe accolto nella sua città come un fratello, qualora Antonio si fosse deciso a fargli visita. Fino ad allora lo ringraziava e lo benediceva. Così, presa una scarsella dalla vita la porse al parroco chiedendogli di ospitarlo fino alla completa guarigione. Don Giovanni dopo aver rifiutato una volta, dicendo che avrebbe soccorso un fratello in difficoltà senza compenso alcuno, non osò farlo una seconda volta e intascò il gruzzoletto pensando che aveva appena trovato il denaro che gli occorreva per riparare il tetto della chiesa.

Passarono alcuni giorni fra febbri e infezioni. La notte del sesto giorno la febbre calò improvvisamente e Antonio si svegliò. Fortuna aveva voluto che don Giovanni avesse vissuto per i primi anni della sua vocazione, in un convento alle pendici di Mongibello. Lì aveva imparato dal frate erborista alcuni segreti per la raccolta e la preparazione delle erbe medicinali. Questi in definitiva erano riusciti preziosi per la vita del ragazzo. Antonio dal canto suo ringraziò più di una volta il sacerdote che lo aveva curato così bene e rinnovò le offerte di amicizia. Appena poté reggersi di nuovo in piedi, fece quello che avrebbe voluto fare il pomeriggio di tanti giorni prima.

Chiesto il permesso al parroco di poter pregare la Madonna, lo seguì senza proferire parola. Il sacerdote, presa una lampada da un anfratto nella parete, in prossimità dell’ingresso del tempio e, aperta una piccola cancellata, prese a scendere i ripidi gradini illuminandoli con la lucerna. Nel raccomandare ad Antonio massima prudenza lo guidò senza indugi nei recessi della terra. Dopo molti minuti, arrivarono nell’antica aula che si diceva avesse accolto per prima i resti mortali di Agata. Il piccolo ambiente comprendeva alcune sedie, un arcosolio con l’effigie della Vergine Maria e un vecchio pozzo. Antonio cadde in ginocchio e si mise a pregare in silenzio, ringraziando la Madonna per la vita che gli aveva voluto donare un’altra volta.

Continua il 13 Aprile...