Era uno di quei giorni tanto afosi che dare la mano a qualcuno significava rischiare di cadere nell’oblio del nervosismo. Da lontano, un tizio che conosci solo-perché-lo-vedi-sempre ti scruta con fare curioso e cerca il tuo sguardo dormiente a più riprese. Fa caldo, i prati brillano e tutti sono al sole ad accogliere quella tipica abbronzatura primaverile che va tanto di moda ma che sa di finto. Neanche a dirlo, viene a prenderti subito con quella mano molle, dalla stretta fiacca e la pelle tanto sudaticcia da inumidirti la tua, per dare il buongiorno a te che ai buongiorno hai smesso di crederci proprio in quell’istante.
Seguono poi i convenevoli, le pacche sulle spalle, le solite domande di circostanza che a te scivolano addosso.
"Che fai?" – chiede esaltato. "Io niente, tu?"
"Mah, faccio un giro".
"Allora che dici, come stai?" – chiede fremendo.
"Scusa ma oggi non voglio rispondere a questa domanda".
La pace la trovi nella biblioteca di facoltà, la solita e simbolica biblioteca di facoltà. Leggi Gli uomini vuoti di Eliot ripetutamente e quasi in maniera ipnotica, sospeso, facendoti ammaliare a ogni verso. Quella biblioteca poco attraente era simbolica perché, proprio da lì, tempo fa, eri uscito malato di un amore che, successivamente, si sarebbe rivelato molto più che una semplice malattia. Dell’ultima volta che vi siete visti ricordi tutto per filo e per segno, in particolare i suoi occhi imploranti mentre minaccia di chiamare i carabinieri per fartene andare.

È successo qualcosa di molto strano e di tanto infattibile nel tuo corpo che ha voluto che nelle ultime sere prendessi sonno prima del consueto. A parte l’ipocondria e l’ipotesi che qualche malanno non troppo recente fosse riaffiorato senza avvertire, a parte questo non hai trovato alcuna spiegazione. E forse è stato proprio quel maledetto caffè, con cui hai ecceduto e a cui non sei abituato più di tanto, che in quel momento ti stava convincendo che tu avevi bisogno di lui e ti faceva comportare come se tu dovessi dire sì a ripetizione. Capita, forse. Detesti i dottori privati e la casta che rappresentano; quindi prima di pagare centocinquanta euro per una visita che durerebbe meno di cinquanta secondi, dovresti avere un dolore tanto lancinante da paralizzarti il fianco. Perché, parliamoci chiaro, è di uno bravo che hai bisogno tu.

Una cicciona ti è davanti mentre fate la fila alla macchinetta del cibo. Sono le dieci del mattino e lei trema, ha fame. Per lei camminare vuol dire fatica, trascinare quel corpo rotondo ha il sapore sempre dell’impresa. Ansima, ha fame, nella sua mente c’è un solo pensiero. Lo si vede da come gigioneggia con quegli spicci credendoli noccioline. La cosa da osservare è che pare abbia un’armatura, una corazza di grasso che la veste intimamente assieme alla peluria nerissima delle braccia e di quella barbetta che porta tutta al femminile. Se ne va col respiro mozzato, strusciando i piedi per terra e dondolandosi per andare avanti, con due bustine di patatine fritte in mano. Una seconda colazione da principesse, alla fine, anche se mai quanto l’aspetto. Essere brutti è la vita, stanne certa, ma fare schifo è una scelta.

Sei in uno di quei tram ultima generazione che quando vedi arrivare ti fa vivere mezzo secondo di speranza. In realtà la progettista che l’ha partorito non è altro che una madre inadatta. Quanti figli che crescono, d’altronde, crescono come non dovrebbero per colpa di padri e madri che non sono padri e madri. Uno di quei tram coi finestrini quadrati giganteschi che non si possono aprire perché siliconati da tutti i lati e perché-tanto-c’è-l’aria-condizionata. Ora immagina un tardo pomeriggio di fine maggio in questo tram dove l’aria condizionata è rotta e lo spazio vitale di un individuo è praticamente un miraggio. E pensa al motivo per il quale in questa città ma soprattutto in generale la parola progresso sia sposata con qualcosa che si avvicina molto alla parola regresso. Non avrai alcuna verità.

Hai appena offerto una sigaretta a un barbone che gira scalzo per la stazione. Lui comincia a giocarci e a tirarla in aria per farsela ricadere in bocca. Vuole il suo momento di gloria, la gioia quotidiana di chi col mondo comunica poco e nulla. Non è figlio di un sistema, lui, non ha un linguaggio da rispettare né delle ambizioni quasi prestabilite. I suoi diritti e doveri nemmeno li conosce. Gira scalzo con quei piedi gonfi e callosi e quello è il suo biglietto da visita. Ha non più di sei denti in bocca, tutti in posizioni diverse e quindi ancora un po’ utili nell’insieme. Sembra la trasposizione cinematografica di se stesso per quanto è perfetto e dettagliato nella sua presenza grottesca e singolare. A volte pare che sorrida, altre che non capisca cosa gli stia succedendo intorno. E quando ti giri e sbirci quel sorriso primitivo fargli la faccia e pure l’esistenza, ti dici che, dopotutto, è meglio essere infelici a modo suo.