Padre Thomas non faceva altro che pregare. Non poteva risolversi ad accettare il fato che l’imperatore aveva riservato alla città. I catanesi si erano ribellati all’imperatore, seguendo l’esempio di Messina, e lui appena aveva potuto li aveva ridotti al silenzio. Ora la città e suoi abitanti ne avrebbero pagato il fio.

La storia era nota a tutti, anche agli uomini senza lettere. Quello che forse non tutti sapevano era l’origine di quelle leggi che avevano scatenato l’esasperazione e provocato la ribellione degli abitanti delle città siciliane. Federico II di Hohenstaufen, per grazia di Dio re della Sicilia e Imperatore del Sacro Romano Impero, era un sovrano molto potente. Uomo politico di grande valenza, aveva però numerose pecche. Non si era mai deciso a disfarsi degli adoratori del falso dio. Non solo, alla sua corte essi occupavano alte cariche e lui non si peritava di mostrarsi come uno dei loro capi. In breve era sempre in bilico tra la retta via e l’eresia. Per longa pezza aveva procrastinato il disegno divino che gli imponeva di conquistare Gerusalemme: per questo Onorio l’aveva giustamente scomunicato. Finalmente si era deciso a partire e cosa aveva fatto? Mah! Meglio non pensarci…

Non poteva più permettersi di perdere tempo, doveva escogitare un mezzo per salvare i Catanesi. Dopo la promulgazione del Liber Augustalis da parte di Pier delle Vigne, conosciuto a Palermo, la situazione era precipitata. La fame di denaro di Federico era andata sempre più aumentando. Le città avrebbero perso la loro autonomia e antichi privilegi avrebbero cessato di essere: in breve l’imperatore avrebbe preteso ancora più tasse. Questo non era stato visto, com’era naturale che fosse, di buon occhio da nessuno in città e soprattutto dalla classe mercantile, appoggiata dalle principali casate nobiliari. L’imperatore era arrivato a Messina e l’aveva messa a ferro e fuoco uccidendone i capi, come se fossero degli eretici. Li aveva bruciati vivi… Adesso, a Catania, aveva promesso di incendiare la città e di ucciderne gli abitanti. Grazie alle preghiere dei maggiorenti della città e in particolare di sua eccellenza il Vescovo Gualtiero, aveva promesso agli abitanti un’ultima messa. E adesso erano quasi tutti qui. All’inizio sembrava come se tutto fosse normale, come se si fosse nel giorno della nostra patrona Agata. Si poteva udire un mormorio quasi indistinguibile, come quando, spostandosi da un luogo lontano, ci si avvicina a un fiume. Il rumore delle acque all’inizio appare quasi impercettibile e poi, a mano a mano che ci si avvicina, il fragore delle acque riempie l’aria tanto che non si riesce neanche a parlare.

Allo stesso modo i catanesi che si stavano radunando ai piedi della cattedrale sembravano adesso come un fiume in piena. Rumoreggiavano alquanto, e i loro discorsi dilagavano per il piano. Solo alcune frasi giungevano mozze in su l’andito della chiesa. In quel mentre entrò nella sacrestia monsignor Mazza, che doveva officiare la messa. Vestito di bianco splendente aveva deciso che sarebbe stato con gioia che avrebbe officiato la sua ultima messa. Il volto era impassibile, non tradiva nessuna emozione. Solo gli occhi, di un azzurro profondo, erano sereni e il guizzo fulmineo che si intravedeva diedero a padre Thomas un barlume di speranza. L’alto prelato non disse nulla ma si limitò a un cenno con il capo: la messa doveva cominciare e con essa, forse, l’ultima ora di vita della città…

I canti d’ingresso cominciavano già a levarsi alti fra le mura della chiesa, quando il corteo per la celebrazione della messa si dispose a entrare nelle navate. In prima fila un crocifisso portato da un ragazzo apriva la processione. Poi due giovani che reggevano un lume acceso, simboleggiante la luce della speranza. Dopo di loro sacerdoti, giovani e meno giovani seguivano la croce e infine io, vicario del vescovo e custode della sua chiesa. Per ultimo veniva sua Eccellenza. La processione si mosse e, come un lungo serpente che muove la testa e par che la coda sia immota, allo stesso modo per molto tempo parve che io fossi fermo. Alla fine toccò anche a me di muovermi e, prima di farlo, inspirai ancora una volta riempiendo i polmoni di quel dolce e aspro odor che negli uffizi religiosi si spande in gran copia. L’incenso mi dette un qualche beneficio giacché mi avviai verso la navata principale senza indugio.

All’entrata del vasto ambiente, dove si sarebbe di lì a poco celebrata la messa, mi accorsi che c’erano tutti. I senatori, i rappresentanti di tutte le maggiori famiglie della città, li nobili, gli ufficiali di alto rango e, naturalmente lui, Federico. Attorniato dalla guardia che lo circondava in ogni momento, il suo mantello scarlatto e la sua alta figura lo distinguevano da tutti. Per non parlare del fatto che attorno a lui c’era uno spazio vuoto che saltava agli occhi nell’aula sovraffollata. All’esterno della chiesa, come mi aveva riferito il sacrestano, era riunito tutto il popolo e pregava perché gli si risparmiasse la vita. Avevano voluto seguire anche loro la messa, che poteva rivelarsi l’ultima per tutti. Per questo due giovani sacerdoti erano sulla soglia della porta e si occupavano di ripetere quanto diceva il celebrante all’interno della chiesa. Nel frattempo la messa era iniziata e io e il monsignore eravamo seduti alla destra dell’officiante, sugli scranni laterali. Quando iniziò il canto a preludio del Vangelo ci alzammo e segui il Vescovo presso l’altare centrale. Alle nostre spalle il silenzio era assoluto, nessuno osava fiatare. Nel momento in cui monsignor Mazza prese in mano il libro con il racconto della vita di nostro Signore si sentì un'imprecazione in fondo alla sala.

«Der teufel!» [1], urlò il sovrano. Non di rado capitava che un ufficiale o anche un piccolo nobile se ne uscisse con un’imprecazione, anche durante la celebrazione della messa. Mai era capitato che a farlo fosse stato un sovrano. Dal canto suo Federico era un uomo che non si scomponeva facilmente. Uso a combattere mille battaglie anche in inferiorità numerica, non era certo un uomo che si potesse spaventare facilmente. Questa volta però il terrore, anche se per un attimo, si dipinse nei suoi occhi. Me lo disse Antonio, da lungo lontano dalla nostra città, che era diventato un soldato della guardia dell’imperatore. Uomo assai valente nel corpo e nella mente non faceva che tessere le lodi dell’imperatore ma, chiaro di pensiero, ne riconosceva anche i numerosi difetti. Questa volta però non fu capace di raccontare, senza un filo di timore anche a distanza di anni, la vicenda. Sul messale dell’Imperatore era comparsa, mentre costui si preparava a seguire la lettura del Vangelo, una parola… ma scritta con il sangue! La parola, il cui significato fu svelato solo dopo, era stillante un sangue denso che non si raggrumava, ma scorreva dal libro al pavimento della chiesa e non accennava a smettere. A chiare lettere apparve una scritta di oscuro significato: NOPAQUIE.

Riavutosi dalla sorpresa iniziale l’Imperatore chiamò con un gesto a sé tutti i suoi dotti, interrompendo la celebrazione e fece vedere a sacerdoti e saggi il motivo del suo disappunto. Molti saggi disquisirono sull’argomento ma solo un oscuro frate benedettino di nome Lindemio seppe sciogliere la questione. La parola fu interpretata come se fossero le iniziali della frase: Noli offendere patriam Agathae quia ultrix inuriarum est [2] . Il fatto fece molto scalpore e nessuno seppe affermare con certezza se l’interpretazione fosse quella giusta, fatto sta che Federico II non distrusse la città, così come aveva annunziato, ma la risparmiò limitandosi a far abbattere alcuni edifici. Stessa sorte non ebbe la vicina Centuripe, che ribellatasi anch’essa all’autorità del Re, venne rasa al suolo e i suoi abitanti deportati nella colonia di Augusta che Federico creò per loro.

Note:
«Al diavolo!»
“Non danneggiare la patria di Agata perché è vendicatrice delle offese”.