Un pomeriggio mia sorella mi portò a casa di una sua compagna di classe. Io avevo dieci anni, lei quindici, quasi sedici. Ricordo la mia età perché ricordo la sua. La sua compagna era molto bella, con un nome insolito e gli occhiali tondi "come Irene Fargo" (che, diciamolo, era più famosa per quegli occhiali che per il suo canto, anche se io La donna di Ibsen la cantavo a scuola con le mie compagne, e chi non avrebbe voluto essere quella donna che si abbandonava su quel cespuglio di rose).

La cucina era una di quelle stanze costrette alla penombra anche in pieno mezzogiorno. Con le finestre che davano dentro giardini finti o su altre stanze, una specie di cubo che prendeva la luce solo di riflesso. Io ricordo un unico raggio, come La vocazione di San Matteo di Caravaggio, che finiva dritto dritto tra i capelli ricci e rossi dell'amica di mia sorella con quel nome strano. L'amica di mia sorella aveva un quaderno, di quelli spessi a quadretti piccoli piccoli, con la copertina rigida. Su quella copertina c'era disegnato il viso di una ragazza che somigliava a lei. Un po' a lei e un po' a Ornella Muti, che all'epoca era il mio termine di paragone della bellezza.

Glielo dissi: “Somiglia a te, quella del quaderno”.
“Magari!”, disse lei, sorridendo.
A me lei sembrava più bella, ma questo non glielo dissi.
Mi ero portata parte dei miei compiti, quelli di italiano, per fare qualcosa mentre loro studiavano. Ma non sapevo scrivere finché ero lì, che guardavo.
“Vado in bagno”, dissi. E andai. L'avevo visto entrando e lei non mi indicò dov'era, né sollevò lo sguardo.

Era un bagno piccolo con una tenda per la doccia troppo colorata, con visibili pieghe quadrate e quell'odore delle cose nuove, aperte da poco, che a me sempre ha ricordato il mare. Sul portasciugamani una maglietta rossa, di un rosso molto scuro, arrotolata lì nell'angolo, come un organo. La presi in mano, così com'era, senza aprirla. Le mie dita toccarono la consistenza e nello stesso istante il mio cuore prese a battere più forte. Come quando si ruba qualcosa. Tutti almeno una volta abbiamo rubato qualcosa. Io non stavo rubando. O meglio: non stavo rubando la maglietta. Ma conoscevo le mie intenzioni, e le temevo.

Me la avvicinai al viso, senza respirare. Poi di colpo, come riemergendo dall'acqua, presi tutta l'aria che potevo, col naso e con la bocca. Ricordo quel profumo perfettamente. Un mix di mela verde, di gomma per cancellare e di ammorbidente, ma in fondo, più in fondo, come in una piccola sfera sensoriale che si apre solo con l'immaginazione, c'era il suo odore, che riconoscevo come si riconosce l'odore delle rose nel cespuglio della canzone, e che mi faceva venire in mente un altro piccolo cespuglio che nascondeva la piccola rosa del suo essere femmina, e questa immagine mi faceva ridere perché "che ne sapevo io", "come mi poteva venire in mente", "ma ero diventata scema?", eppure mi tremava tra le gambe come un terremoto, ferendo il pavimento della mia ingenuità, della mia infanzia.

Rimisi la maglietta, stretta come un organo, sull'angolo del portasciugamani. Mi guardai allo specchio punzecchiato di ruggine. Il mio nugolo di capelli, il viso pallido, le occhiaie marcate. Come sempre ero. Nessuna traccia del sangue che mi spezzava le vene, nessuna traccia dell'affanno, dell'accelerare, della migrazione.
Ero lì, intatta, nel mio corpo da bambina. Mi rassettai i vestiti, come se avessi corso. Il raggio mi accolse, sulla porta della cucina. Tutto nei miei occhi era di un altro colore.

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