Ho cominciato a stendere il primo progetto di una macchina per viaggiare nel tempo tre settimane dopo la scomparsa di Aurora. Aurora era mia moglie. L’amavo. Era lei a tenere insieme il mio mondo. Ed ero così disperato, quando la perdetti, che mi misi in testa che forse sarebbe stato possibile costruire un marchingegno, tornare indietro nel tempo e impedire che quel camioncino del latte la stritolasse contro un muro in un vicolo troppo stretto. Perché così sono andate le cose, per quanto assurdo.

Io, ho solo una laurea in Lettere. Non sono un genio della matematica. Anzi, non sono un genio di niente. Non lavoro da anni. Da anni cerco lavoro senza trovarlo. Vivo con qualche risparmio. Sto per lo più a casa. Ho un sacco di tempo libero. Lo passo soprattutto a leggere. Romanzi, saggi. Un giorno ho trovato tra gli scaffali di una libreria un libretto che si intitola La relatività a fumetti. Sarà stato sette, otto anni fa. E’ così che ho preso ad appassionarmi di Fisica. Poi dai fumetti sono passato ai documentari. Morgan Freeman. Brian Greene. Dopodiché ho ripreso in mano i libri di Fisica, Chimica e Biologia del Liceo integrandoli con prontuari come Fisica. Corso di sopravvivenza e Matematica. Corso di sopravvivenza. Infine, giovandomi di una buona conoscenza dell’inglese, mi sono messo a seguire su Youtube le lezioni tenute alla Stanford University dal Professor Leonard Susskind e quelle del Professor Michiu Kaku presso la New York State College. Quando Aurora è morta, le cose che avevo fino a quel momento appreso in maniera del tutto amatoriale mi si sono radunate nella testa e come ho già scritto dopo solo tre settimane mi ci sono messo sul serio a far progetti per costruire una macchina del tempo.

L’ho costruita sei anni più tardi. E’ simile alla cabina di una doccia. Alta due metri. Fatta di pareti scure, di alabastro e bachelite. Viene attivata mediante pannelli di controllo che stanno all’esterno. La macchina del tempo si trova nel box auto in dotazione del condominio nel quale abito. Il carburante della macchina del tempo, per così dire, è costituito di oggetti. Sì, semplificando al massimo, la faccenda funziona così. I cunicoli spaziotemporali sono dimensioni senza materia, tempo, spazio. Dentro non c’è nulla. Gli atomi una volta dentro a un cunicolo spaziotemporale tendono a selezionare quale varco temporale aprirsi e almeno da quanto ho osservato scelgono di dirigersi nel tempo dal quale originariamente provengono. Facendo esperimenti ho notato che se fossi da solo tornerei al tempo presente ossia il tempo al quale i miei atomi appartengono. Se indossassi un paio di scarpe acquistate nel 2011 si aprirebbe davanti a me un varco che immetterebbe nel 2011. Ma essendo un oggetto solo, il varco risulterebbe piccolo, appena visibile.

Perciò portandomi all’interno del cunicolo spaziotemporale, atomi di quasi un migliaio di oggetti risalenti all’anno nel quale desidero recarmi, il varco è immediatamente visibile e attraversabile. Il varco mostra continuamente luoghi dove poter uscire. La bocca di un vulcano. La superficie di un lago. Le sabbie di un deserto. Una strada di campagna. Un’autostrada. Un prato. Una strada di città. A volte ci vuole del tempo per trovare il luogo meno pericoloso e più conveniente nel quale poter uscire dal cunicolo. Ma con un po’ di pazienza lo si trova. Come ho detto, tutto questo io l’ho solo verificato in via sperimentale. Mi manca la matematica per esprimere quel che accade. Come Michael Faraday anch’io attendo il mio James Clerck Maxwell.

Per tornare indietro nel tempo in cui è avvenuto l’incidente di Aurora, ossia il 14 luglio 1996, ho dovuto acquistare oggetti risalenti a quell’anno. Anzi, per essere sicuro di non sbagliarmi ho voluto acquistare oggetti risalenti a un anno prima. E il modo più rapido e sicuro che mi è venuto in mente è stato acquistare album musicali risalenti al 1995 e opere letterarie risalenti allo stesso anno. Ho acquistato almeno trecento album. Tutto quello che sono riuscito a trovare. Su Internet, nei negozi di dischi e nelle biblioteche. Naturalmente curandomi di verificare che fossero tutte prime edizioni e non ristampe messe in circolo negli anni successivi. Call Down The Moon dei Man. See you on the other side dei Mercury Rev. Wave of Popular Feeling dei Groundswell. Zuccherofilatonero di Mauro Repetto. Titoli così. E lo stesso per i romanzi. Cinquecento titoli. Tutti stampati e messi in commercio nel 1995. Raptor Red di Robert T. Bakker. Il gioco della mosca di Andrea Camilleri. The Ghost Road di Pat Baker. La leggenda di Bagger Vance di Steven Pressfield. Parasite Eve di Hideaki Sena.

Sei anni dopo la scomparsa di Aurora, sono tornato nel 1995. Ho attraversato il varco spaziotemporale creato dalla mia macchina del tempo finendo in una strada laterale di Caltanissetta. Niente pioggia. Sole. Due del pomeriggio. Per prima cosa ho cercato una banca e ho cambiato in lire i dollari che mi sono portato dietro. Nel 1995 infatti non c’erano ancora gli euro. Così prima di partire ho pensato di cambiare gli euro in dollari e una volta nel 1995 di cambiare i dollari in lire. Posso dire di aver dato fondo agli ultimi risparmi per questo viaggio. Da Caltanissetta ho preso un treno e mi sono trasferito ad Alessandria. Novembre 1995. Ho alloggiato per un po’ in un ostello in Via Mazzini. Tenevo d’occhio l’altro me stesso, cercando di non farmi vedere dalle persone che ad Alessandria mi conoscevano. Resistevo anche all’idea di poter rivedere facilmente mia moglie. Il mio obiettivo prima di tutto era far fuori il me stesso di allora. Infatti sapevo fin da principio che salvare la vita di Aurora avrebbe avuto ricadute sul mio presente. Facendo fuori il me stesso del 1995 e sostituendomi a lui avrei tuttavia evitato paradossi e distorsioni.

Come ho ucciso l’altro me stesso? Niente di più facile. Sapevo che il me stesso di allora amava fare lunghe passeggiate solitarie in collina – poi sostituite a partire dal 2004 con un tapis-roulant nel box auto. Non ho fatto altro che attenderlo e pugnalarlo in una serata dicembrina. Poi ho caricato il cadavere su un’automobile presa a nolo. Mi sono sbarazzato del cadavere sfigurandolo totalmente. Ho scavato una fossa molto profonda e l’ho ricoperta per bene. Detto così suona orribile. Ma in fondo me la stavo solo prendendo con me stesso. Questo credo cambi moltissime cose. E poi se ero riuscito a costruire una macchina del tempo sorretto dalla disperazione per aver perso mia moglie, avrei potuto benissimo avere la forza di compiere efferatezze pur di ricongiungermi a lei. Conciato così come lo avevo conciato nessuno avrebbe potuto riconoscere il cadavere. E anche se fosse accaduto chiunque avrebbe potuto verificare che abitavo come sempre nel mio appartamento di allora, in Via Ghilini, ad Alessandria. Le impronte digitali erano le stesse, avevo gli stessi documenti avendoli sottratti al mio alter-ego al momento dell’uccisione. Avevo solamente l’aria più invecchiata. Ho commesso l’omicidio il 10 dicembre 1995. E la sera stessa ho rivisto Aurora. L’ho abbracciata. Baciata. La notte abbiamo fatto l’amore. E’ stato bellissimo. Il 14 luglio 1996 ho salvato mia moglie dal camioncino del latte e dalla sua morte ingiusta e assurda. Qualche volta proprio lei, tra l’altro, mi ha detto che avevo l’aria invecchiata. Così, tutto di colpo. Una decina d’anni almeno. Io le rispondevo che purtroppo a volte capita. Però a letto andavo ancora bene.

Ho così trascorso il tempo con mia moglie. Ho continuato a fare quello che facevo senza dover affrontare il lutto. Niente funerale. Tutto quel periodo nero, abissale. Invece ho ripreso a fare la vita che facevo nel 1996 nella realtà del 1996. All’epoca ancora lavoravo e ovviamente un mucchio di scelte che allora non sapevo si sarebbero rivelate sbagliate non le ho fatte. Come fare alpinismo, cosa che nel 2002 mi avrebbe portato a rompermi una gamba – per quanto la mancanza che sentivo di Aurora in quell’occasione fu determinante. Sono rimasto con Aurora per anni, ricoprendola di attenzione e affetto, amore. Qualche volta mi scopriva al buio a piangere. “Perché piangi?” mi chiedeva. “Ma niente. Niente – le dicevo io – E’ che sono felice. Felice. Di stare con te. Di averti”.

Poi nel 2012 Aurora ha cominciato a tossire. Nel 2014 è morta. Io ho tirato fuori dei vecchi blocchi di appunti e ho ricostruito la macchina del tempo nel box auto. Aurora è deceduta tre settimane fa, sotto i miei occhi increduli, che maledicevano il destino. Oggi, dopo tre settimane, la macchina del tempo è di nuovo messa a punto. In tutti questi anni non ci avevo più nemmeno pensato, di viaggiare nel tempo. Quello che volevo era solo stare con Aurora. Aurora era tutto e non c’era macchina del tempo o viaggio su Marte o nel Pianeta di un’altra Galassia fatta d’oro che mi avrebbe attratto più dell’idea di passeggiare con lei per Corso Roma tenendole la mano o prendere un gelato da Cercenà o andare a cena al Pepe Nero. Niente.

Così ora sono qui che mi chiedo se posso fare qualcosa per salvarla di nuovo. Che cosa può avere causato la sua malattia. E come fare per tenerla distante da ciò che l’ha fatta ammalare. Ho comprato album e opere letterarie risalenti all’anno 2003. Kissing to be clever dei Culture Club. Quixotic di Martina Topley-Bird. Ya Nochnoy Huligan di Dima Bilan. La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo di Audrey Niffenegger. Treno 8017 di Alessandro Perissinotto. Utopia Park di Lincoln Child. Nome in codice Dark Winter di Andy McNab. Un migliaio di titoli circa. E mi sono rimesso in viaggio. Per tornare da Aurora.

(Tratto dall’antologia Prendi la Delorean e scappa a cura di Andrea Malabaila, Las Vegas Edizioni)