Con l’imparzialità di chi è, per modo di dire, divertito da certe inconsistenze politiche, nonché da quei paradossi sociali che ne rappresentano le conseguenze più stratificate, e con la ferma volontà di non entrare troppo in approfondimenti sterili che porterebbero l’argomento in questione ad annullarsi nel solito sguardo fra opposizioni di mestiere, scegliendo quindi la provocazione tout court e preferendola alla già nota e superflua pappa mediatica, ci apprestiamo a commentare i contorni di un fenomeno che è diventato normale amministrazione anche lì dove, costituzione alla mano, sarebbe considerato una sottospecie di reato nel reato: lo spaccio di stupefacenti all’Università La Sapienza.

Lungi ovviamente dal voler suscitare indignazione, in quanto indignarsi significherebbe risvegliare una coscienza critica che dovrebbe trasparire più all’ordine del giorno e meno appresso alla massa confusa e occasionale, bensì col chiaro intento di sottolineare una realtà senza filtri e in grado di far riflettere in merito alle concatenazioni sociali che intercorrono fra l’effetto della “falsa giustizia” e l’azione unilaterale del Potere, volta unicamente alle cose proprie e alla sottovalutazione ipermorale del problema/soluzione con le note politiche dell’anti-peccato. Dopotutto, nel territorio dove l’organizzazione delle droghe vede quanto mai rafforzare la sua struttura feudale/piramidale dalle reticenze istituzionali e, soprattutto, dai legami che stringe quotidianamente con le mafie/micro-mafie meridionali, non lo si scopre di certo oggi che Roma sta avendo e avrà a che fare con uno dei tanti matrimoni con la propria morte.

La cultura dello spaccio all’interno del territorio sapientino è qualcosa di molto conosciuto per lo studente che è un consumatore abituale, dal momento che negli anni ha assunto una certa esperienza del posto e sa dove cercare e spesso anche da chi, che si tratti di marijuana o altro (non solo droghe leggere, quindi, ma se si è fortunati, per così dire, si può trovare anche l’aggancio per quelle pesanti). Si parla di “cultura” proprio per la continuità indisturbata con cui avvengono le azioni della vendita/consumo nel circondario limitrofo a muretti e giardino, fino ad arrivare di conseguenza al termine di “controcultura” – secondo l’ipocrita sistema di legislazione che potenzia ciò che esso stesso condanna –.

Quando non sono studenti-spacciatori si tratta di veri e propri esterni che hanno deciso di svolgere la propria mansione dentro un giro ai loro occhi conveniente sia per l’assenza generale di controlli in un ambiente circoscritto che per il numero di consumatori (studenti e non) che ne incrementano il mercato. Questo significa che, data la tranquillità, oltre ad attirare e convincere tutti gli studenti-spacciatori che tendenzialmente non spacciano al di fuori del proprio quartiere, può anche indurre uno studente che non ha mai venduto droga a diventare uno spacciatore. Se ci camuffassimo da consumatori “in cerca” per alcuni giorni, infatti, noteremmo anche le diverse “provenienze” e psicologie di ogni venditore, dal meno esperto al più spensierato, dalla matricola in preda al panico al veterano sfrontato che svolge il suo (secondo?) lavoro facendo finta di consegnare volantini, fino ad arrivare ai “grupponi” organizzati che sembrano farsi la guardia fra loro.

Se invece ci improvvisassimo dei venditori allora il guadagno sarà assicurato e se volessimo continuare ci potremmo anche fare una clientela di fiducia al di fuori dell’orario universitario. Dimostrazione, quindi, che la Sapienza non solo funge da punto di riferimento per la micro-criminalità che giunge da fuori senza disturbo, ma anche come trampolino di lancio per il piccolo-medio spaccio rappresentato da singoli o da studenti.

Ad oggi, dunque, trovare droghe all’interno della Città Universitaria è molto più facile che rimanere senza. Poco distante dalla Sapienza i noti quartieri di San Lorenzo, dove marmaglie di arabi e albanesi gestiscono – agli occhi di tutti – il traffico di stupefacenti più scadente e a basso costo di tutta la Capitale, e del Pigneto – punta di diamante di quel “giardino zoologico” qual è la periferia romana – dove avvengono i movimenti più grandi e comprare eroina, ketamina, ecc., è un gioco da ragazzi. Non c’è da sorprendersi se ci troviamo nel complicatissimo entroterra romano, ormai paragonabile a una spugna buona solamente ad assorbire “le acque sporche” e incapace di strizzarsi. Difatti l’unica certezza che ci rimane ha un peso indefinito e porta in grembo una boutade che genera sempre la stessa domanda: in Italia la legge è scritta per qualche motivo oppure non serve a niente?