Un'ora, mi dico. Una delle tante che ogni giorno spreco, che ogni volta impiego facendo qualcosa d'importante per me. Ho pensato che se avessi un'ora a disposizione di cose ne farei moltissime, le farei in successione, vivrei ogni minuto come se potesse scomporsi mille e mille volte ancora, come se, con le mie sole forze, potessi scavare, andare a ritroso, recuperare tempo, riprendere me. Ricostruirmi attimo dopo attimo. Ma non ho mai pensato a cosa accadrebbe se questo tempo mi venisse sottratto.

Non ci avevo mai pensato prima, in verità. Prima che valicassi quel confine di filo spinato, di mura alte che sfiorano il cielo ma non l'accarezzano. Prima che attraversassi quei corridoi stretti come l'anima che soffoca passo dopo passo, tra le sue ombre, oppressa, travolta dall'imponenza di quei luoghi. In quello dove sono finita io riesco a stento ad intravedere la luce da un piccola finestra all'angolo, nella mia umida dimora. Un luogo angusto. Ma è quello che mi merito, dicono. Mi hanno vestita di bianco e spinta lì, in quel covo buio che chiamano stanza numero 033.

Qui ognuno di noi ha un numero, prima del nome. Lo fanno per la nostra sicurezza perché così sanno dove venirci a cercare quando i fantasmi della mente vengono a cercare noi. Sullo sgabello vicino al mio letto c'è un plico di carta in cui annoto il mio comportamento. Sono scarabocchi che nessuno riesce a decifrare ma testimonianza importante dello squilibrio che mi ha incatenata su questo pavimento. Dicono, i tizi in divisa che mi hanno aperto il cancello, che man mano diventeranno parole e che io potrò servirmene per raccontare cosa non va quando verranno a prendermi. Chi? Domando.

Credevo lo sapessero. Credevo sapessero cosa succede a quelli come me, qual è il decorso della mia malattia. Il mio vicino di appartamento è un tipo rumoroso, strilla continuamente e invoca nomi di persone che non ho mai visto ma sono sicura che abbiano un volto. Il mio vicino di appartamento, quando siamo in cortile assieme, mi invita sempre a prendere un caffè. Lui crede che questi momenti siano sacri e che se siamo chiusi tutti qui dentro un motivo ci sarà.

Da quando sono in questo palazzo le mie giornate si somigliano tutte e di ore ne ho davvero quante ne voglio. Tante che l'unica cosa che riesco a fare è scrivere. C'è una stanza, in fondo al braccio della morte, dove ognuno di noi a turno entra e incide la rabbia sulle pareti. Alcuni confessano omicidi, altri denunciano abusi, i più deboli scrivono canzoni che hanno come contenuto la puzza d'urina che pervade le nostre narici dalla mattina alla sera. Buffo, no? Resti tutto il giorno chiuso in buco circondato da un muro e quando ne hai uno enorme davanti parli della pipì. Il tuo bisogno di libertà diventa fisiologico.

Dicono che siamo noi a puzzare. Che se obbedissimo, l'aria sarebbe pulita. Che l'igiene personale è una buona premessa per quella mentale. Che noi non abbiamo dignità. Sto ancora cercando il significato di questa parola., l'ho inserita nei vocaboli da memorizzare in vista dell'incontro di Venerdì. In questo luogo di stanze rovesciate dove se alzi gli occhi scorgi il grigio del gelido pavimento e il cielo è nascosto sotto i piedi, le cose funzionano a rovescio. La realtà è quella che disegni, scritta sul muro, lo stesso che ti protegge mentre un avvoltoio in camice cerca di divorare la tua carne.

Da quando ho messo piede qui, mi hanno sempre detto qualcosa, attraverso sinonimi. Hanno provato a cancellare i miei scarabocchi l'altro giorno, riducendo in piccoli pezzi quel plico. Hanno provocato in me la morte. E adesso che mi resta ancora un'ora, hanno tolto tutta l'aria dalla stanza 033.