"Tre, forse quattro giorni; questo è il tempo che suo figlio... "
" ... ci ha messo per morire", conclude la madre di guerra in un bisbiglio.

La donna, giovane fino alla notizia del ritrovamento del cadavere, si sveglia presto ogni mattina e, in quella condizione d'improvvisa senilità, di costante pre-morte, scivola via dal letto. Lascia che il marito si riposi per qualche ora dopo che, come lei, ha pianto, a lungo e in silenzio, e infine è crollato nel solito incubo: tre, forse quattro giorni, il corpo, il cadavere.

Cadavere e figlio: ecco due parole che non dovrebbero mai andare insieme, un abbinamento blasfemo, da bandire dal vocabolario delle mamme, pensa la donna mentre inizia un'altra giornata incomprensibile, interminabile. Va in cucina e mette su il caffè, un gesto che faceva anche quando suo figlio era in casa con lei e, da quel momento, come un timer atroce, la sua testa inizia a contare le ore, tutte le ore che ci vogliono per comporre quei tre, forse quattro giorni di torture. La tortura, una cosa sconosciuta, la tortura; un articolo che fa ribrezzo, un'inchiesta in seconda serata, un filmaccio, una cosa lontana, eppure è quel mondo, alieno, che si è preso suo figlio.

La mente della donna si addentra nei cunicoli neri di un edificio visto in fotografia, ma arriva fino al limite di quella stanza; per fortuna, qualcosa, una barriera di mamme tutte a braccetto, una censura di sopravvivenza genetica, le impedisce di immaginare quello che succede dietro quella porta e di udire le urla, i rumori, le implorazioni.

E così, ferma davanti a quel muro, lo stesso fotogramma giorno e notte, la madre di guerra si perde in un'immobilità insonorizzata (batte ancora il cuore?) e procede nei suoi piccoli gesti di gatto abitudinario, muovendosi in quella cucina che ogni giorno diventa più vasta, vuota e fredda. Si chiede perché quel tempo elastico e maledetto, quel tempo lungo fino a morirne, tutto ferite e ossa rotte, non sia stato affidato a lei, a lei che è una mamma e sa portare tutti i pesi, e reggere il mondo schifoso.

Per pranzo, ha cucinato la pasta che piaceva a suo figlio, lei e suo marito siedono vicino e, senza più rendersene conto, guardano spesso l'orologio: l'una, tredici ore. Ne mancano ancora undici per arrivare alla fine di un giorno, il primo di quei tre, forse quattro in cui una banda di diavoli impazziti ha iniziato a distruggere quella carne amata.

La madre di guerra si chiede spesso se chi ha flagellato a comando ha lui stesso una famiglia, dei figli, se ha uno stomaco, occhi e orecchi, un cuore, memoria. Se la notte di quei giorni ha dormito, se, tra un turno di botte e l'altro, ha avuto appetito e ha mangiato. Guarda suo marito senza parlare, con la solita domanda a deturpare il viso bello: dimmi, chi sono quelli? Poi scuote la testa e muta urla a se stessa che quelli non sono uomini, non sono animali, non sono terrestri, non sono.

Quelli non esistono, sono solo ombre che emergono dal pavimento con la loro valigia di orrori e lì ritornano a lavoro finito. Forse hanno un nome e un volto, ma sono fantasmi che non possono avere una storia, un amore, un futuro, sono morti da sempre, per sempre, morti prima delle loro vittime, dannati, eternamente torturati, loro, da ciò che hanno visto in quella stanza e in tante altre. Muovono la forchetta qua e là, i genitori sanguinanti, poi rinunciano. Si abbracciano in silenzio, senza lacrime.
Fa ancora più male senza lacrime.

Questo piccolo racconto è dedicato, con tutto il cuore, alla signora Paola Deffendi, mamma di Giulio Regeni. A lei e alla sua battaglia vanno i quotidiani pensieri e iniziative di www.giuliosiamonoi.wordpress.com