Erano dieci in tutto. Li contava ogni volta quei gradini che dall’altare conducevano alla sagrestia. Ogni giorno, dopo la messa, scendeva la gradinata con il passo solenne che quell’abito imponeva. Si muoveva lentamente nella chiesa ormai vuota, sfiorando il corrimano e l’eco degli osanna dei fedeli. Dieci passi per salire a celebrare la verità sull’altare; dieci passi per scendere e sfilarsi quell’abito. Tornare alla realtà. L’operazione di svestizione era per lui un momento quasi più solenne della cerimonia stessa. Quei minuti di passaggio dalla stola alla camicia, erano i più difficili.

Quella sera cominciò sfilandosi per prima la croce: oro e legno all’altezza del cuore, a ricordargli una promessa. Sciolse poi il cingolo che gli pendeva su un fianco, concentrando su quel nodo la stessa attenzione che riservava ai testi più difficili del vangelo. Quasi come se, sciogliendo quel cordone, stesse sciogliendo anche altri mille nodi che aveva nel cuore. Carezzò, allora, la stola lucida per tutta la sua lunghezza e nel sollevarla dalle spalle ne avvertì tutto il peso. Come in un flashback, gli capitava spesso, mentre si liberava dai paramenti di rivedere i volti dei fedeli alla messa. Si concentrò sull’espressione dell’uomo seduto in prima fila durante la cerimonia: quel giudice elegante che non mancava mai. Arrivava puntuale, ogni domenica. Guardava ipnotizzato la litania dei gesti, e pretendeva risposte con quel suo sguardo accigliato. I mille “perché” di un bambino, negli occhi. E il prete, in quell’abito, accarezzava l’idea di averle tutte, quelle risposte. Forse perché quegli occhi, nell’enormità della sala, erano seduti alla giusta distanza di sicurezza, di cui le parole del sacerdote, per farsi parole oneste, avevano bisogno.

Infine fu il momento della casula ornata e del lungo camice bianco. Uscì dagli abiti evitando ogni superficie riflettente, eccetto quella di due occhi su una croce di legno in fondo alla stanza. Quando fu libero dai suoi paramenti, superstite solo l’amitto, infilò in fretta i suoi vestiti. In un attimo fu dentro a quei jeans slavati, dentro quel vecchio maglione arancione che gli ricordava l’estate dell’82. Doveva avere diciott’anni o giù di lì. Una danza di sguardi, un bacio. Forse un’estate che non era mai esistita. Avvertì improvvisamente il freddo di dicembre, nella stanza non riscaldata. Si sentì nudo. E solo. Senza più addosso quel segno di fede tangibile, la cosa più logica da fare gli sembrò andare a mangiare. E smetterla di pensare.

Nello stesso momento, un uomo, in jeans e camicia, entrava nello sfarzoso camerino del teatro Argentina di Roma, uscendone un’ora dopo nelle vesti di Riccardo III. Nel foyer del teatro i flash di mille paparazzi mitragliarono impietosi il viso dell’attore, che faceva il suo ingresso trionfale lanciando saluti a tutti senza curarsi di nessuno in particolare. Sfoderò quel suo sorriso malinconico che lo aveva reso l’idolo delle diciassettenni in tv e il sogno erotico di molte signore d’alto borgo, nei teatri di Roma. Come una lampadina scarica, il volto si spense appena fu dentro quella stanzetta con il suo nome infisso sulla porta. Forse la sua vera casa.

Entrò con sguardo assente, lanciando con sciatteria un pensante borsone di pelle al lato della stanza. Si buttò su una poltrona e si accese nervosamente una sigaretta. Due avide boccate erano l’ossigeno sufficiente, di cui aveva bisogno per calmarsi. Un inutile cartello sulla porta gli ricordava che era proibito fumare. Il telefono cominciò a squillare: una, due, tre volte. L’uomo chiuse gli occhi, ignorando quel richiamo fastidioso. Gettò il collo all’indietro, indirizzando il fumo sul soffitto. Viveva in uno stato di confusione perenne, tra palcoscenico e marciapiede, ed era questo che più di tutto gli rendeva difficile camminare tra la gente. Il disordine della sua vita era, in fondo, una licenza poetica. Qualcosa che, tutto sommato, faceva parte del personaggio. Senza quel suo costume di scena, diventava un uomo insicuro, proprio come il suo Riccardo III dell’ultimo atto.

L’ultimo tiro di sigaretta fu l’ultima boccata di ossigeno. Prima di entrare in quell’apnea magica e dimenticare il proprio nome. Sfilò i jeans e indugiò per qualche istante, in calzoni e camicia, davanti alla grossa cornice dello specchio. Si sentiva bello. A bagno nelle luci del palcoscenico. Cominciò la vestizione indossando sulla camicia il pensante ed elegante farsetto e aggiustò le ampie maniche a prosciutto. Con la massima attenzione infilò le calze di seta, sistemando l’imbottitura sulle calze e sui polpacci, e su queste i calzoni corti e sbuffati. Gorgiera, spada, mantello e baffi. Si guardò un’ultima volta allo specchio. Lui non recitava Riccardo III, lui era Riccardo III. L’applauso del pubblico scrosciò come una pioggia sulla musica d’inizio. “Ormai l'inverno del nostro rovello s'è tramutato in fulgida estate sotto questo sole di York”. Le luci di scena si accesero su quella battuta. Il sipario si aprì come una porta sul mondo. Solo quattro passi scalzi. E il cuore cessò di battere e prese a parlare.

L’aula del dibattimento era la prima a sinistra. Il processo era appena terminato. Un uomo elegante continuava a guardare l’aula vuota con la toga ancora sulle spalle. Forse, per una volta, aveva sbagliato: quell’uomo era colpevole, e lo sapeva. Ma non c’erano prove. E la sua vita ruotava intorno alle prove. La prova dei fatti, la prova del suo matrimonio che non aveva superato la prova dei vent’anni. Giusto o sbagliato. Camminando nei corridoi del tribunale, perfettamente in bilico su questo e quel discorso di circostanza, si faceva scudo sotto quel mantello nero. Senza quella toga, fuori da quelle aule di giustizia, la vita lo confondeva con i suoi troppi colori. Il mondo gli cambiava di continuo sotto gli occhi e lui non riusciva a stare al passo. Quando tornava a casa, la sera, quando sfilava la toga e infilava la vestaglia, si sentiva piccolo.

Indugiava nel pigiama rifugiandosi allora nelle letture ordinate di Hume e Spinoza. Una breve parentesi di pace dentro all’inferno domestico. Sua moglie, in cucina, votava da anni il suo stesso partito: il silenzio. Quel venerdì sera il giudice uscì dal tribunale e si preparò a raggiungere la moglie che lo aspettava, con un avvocato divorzista, in uno studio dall’altra parte dell città. Prima di andare però sarebbe passato dalla lavanderia, a ritirare la sua nuova toga. Avrebbe raggiunto la moglie con la sua toga. Quell’abito non lo aveva mai tradito. Uscì in strada sotto un cielo che era un quadro di Van Gogh.

Erano le diciannove di un freddo venerdì di dicembre, a Roma. Il sole aveva da poco abbandonato Piazza Navona, le campane della chiesa avevano immerso la piazza in un suono subacqueo. Il ticchettio dei passi sui sanpietrini bagnati raccontava il rientro a casa da lavoro di uomini e donne. Il cielo prometteva nuova pioggia.
Un uomo elegante arrivò trafelato con la sua ventiquattrore nella stradina che costeggiava la piazza bloccandosi davanti a una saracinesca abbassata. L’uomo sgranò gli occhi, respirando sempre più faticosamente. Controllò l’indirizzo:18 C. Rilesse con calma il cartello sulla saracinesca: “la lavanderia è chiusa per lutto”. Proprio così, lutto. L’uomo allora impulsivamente compose un numero sul cellulare, guardando ripetutamente prima il civico, poi il cartello. Un secondo dopo gettò sconsolato il telefono per strada. Dopo aver sferrato un sonoro calcio alla saracinesca, si girò. Solo allora si accorse di due uomini in jeans, accanto a lui, che lo guardavano in silenzio. Immobili. Uno dei due stringeva tra le braccia una borsa in nylon che sembrava contenere paramenti liturgici, l’altro aveva con sé una busta bianca, troppo piccola, da cui fuoriusciva un abito da Re. Avevano entrambi il suo stesso sguardo smarrito.

L’eco dei passi sui sampietrini aumentava sempre di più. I tassisti stanchi fremevano nel traffico. Solo il cielo stava fermo, e sotto il cielo, loro. Nei loro occhi lo stesso pensiero. Quel lutto inatteso e lontano: forse un segno del destino. I loro occhi avevano gli stessi toni spenti di quel venerdì sera. Taciturni e vagamente piovosi. L’uomo elegante esplose in una risata più nervosa che divertita. La compostezza del suo viso sembrò disintegrarsi sotto l’effetto di una qualche forza urgente e invisibile. Come se un fiume sotterraneo lo avesse attraversato mettendone a soqquadro i connotati. Gli altri due guardarono il cielo. Pioveva.