Lo vedevo una volta ogni due, tre mesi, a volte anche meno, quando la nebbia della sua latitanza lo portava da me.
In quei giorni mia madre migrava altrove.
Dalla finestra della mia camera, al piano di sopra, guardavo la mappa del cielo.
Chiedevo di lui alle stelle e leggevo nei loro disegni la risposta: era a sconfiggere i cattivi, con la sua maschera nera e il mantello invisibile. È per questo che era impossibile prenderlo.
Lo vedevo soltanto io, quando scivolava nella mia stanza, in segreto.
A scuola parlavo di lui, scrivevo di lui.
Raccontavo di quella battaglia contro i pirati. Avevamo quasi rischiato di incendiare il tappetino del bagno. O della volta che ci eravamo arrampicati sulla luna, nel punto più alto della groviera di luce.
Rotolando sul quel tappeto facevamo tutti i viaggi possibili perché quel tempo non gocciolasse via come un’emorragia di felicità insulsa, come uno di quegli acquazzoni che hanno più fretta di certi uomini d’affari.
Che il nostro forte è sempre stato raccontarci la fantasia, senza necessariamente costruirla.
Girare tutto il mondo, ma farlo in sogno.
"Non dire a nessuno che sono qui, piccolo mio".
"No papà. Stiamo giocando a nascondino?"
Il mondo non ci avrebbe trovati, e se il mondo non vede allora non è mai accaduto, come quando da bambino chiudi gli occhi.
E allora sei al sicuro, e allora una qualche forma di giustizia superiore ti perdonerà papà , oppure no. Ci nascondevano dentro i nostri giochi, dentro le nostre storie impossibili.
Mettevamo al sicuro, nel nostro mondo fantastico, il tempo rubato ai tuoi inseguitori; perché quel tempo non ingiallisse, come una foto abbandonata in un cassetto. Lo facevamo perché non si può scappare dal mondo.
Ma tu puoi, papà.
Lo facevamo perché i cattivi non potevano entrare.
Quando non eri con me eri a sconfiggere quegli uomini in divisa, vero papà?
Quella volta al mare, che stava per finire l'inverno, e hai corso cento metri solo per dirmi che.
Poi sei scappato, dovevi affrontare un drago. Quella volta, però, non ti ho creduto.
Nel mio cassetto il tuo ritratto al carboncino; la geometria del tuo viso nel disegno di un bambino, che da quando hai lasciato qui la maschera ha smesso di ritrarti. Quando l’ho indossata io, invece, è stato lo specchio che ha smesso di ritrarmi.
Anche quella sera, avrei voluto intrecciare il tuo paracadute con il mio, planare dentro le nostre storie.
Le nostre storie. Sai papà, mi piacevano più delle favole che mi leggevi. Le favole sono crudeli.
Ci bastava raccontarci un sogno intrecciando parole a caso per sentirlo già sotto i piedi.
Avrebbero ingannato anche i cattivi quelle parole che mi sussurravi di notte con la cadenza di una filastrocca, ma che non erano una filastrocca.
"Va tutto bene, va tutto bene".
E quando quel mattino la luce è entrata nella stanza, attraverso le tende arancio, avevi dimenticato il mantello magico.
Tutta la vita così, papà, fino all’ultimo giorno che ti ho visto, tra l’arancione della tenda e quello del tramonto riflesso sulle copertine dei libri di scuola.
Tutta la vita nel nostro mondo incantato, fragile come porcellana. Mi piaceva saperti altrove, studiare con te vicino assorto in chissà quale piano da supereroe.
Mi piaceva mettere vicine le nostre mani, la tua enorme e la mia piccina. La mia macchiata di colori, la tua di pensieri.
Mi piaceva quando ci stringevamo fino allo sfinimento e sembrava che i nostri abbracci dovessero curare qualcosa oppure solo estromettere il mondo. Nel momento in cui qualcuno ti abbraccia così sai che non c’è niente che possa farti del male. Magari appena smette di abbracciarti e torna a combattere con i cattivi sì, ma in quel momento lì nemmeno per sogno.
In segreto conoscevo il rischio del nostro sogno a orologeria che sarebbe potuto esplodere da un momento all’altro. "Qui siamo al sicuro" mi dicevi, mi soffiavi un bacio sulla guancia e spegnevi la luce.
Quando quel giorno vidi tutte quelle macchine sotto casa, sentii l’urlo della sirena e l’esplosione di uno sparo non pensai nemmeno per un secondo che sarebbero riusciti a prenderlo.
Qui siamo al sicuro. Guardai le stelle. Ce n'era una nuova, più luminosa delle altre.