Nel settembre scorso abbiamo realizzato il primo incontro dell’associazione “Dis/ordine dei Cavalieri della malta e di tutti i colori”, nel terrazzo del mio studio. In quel pomeriggio sono accaduti due eventi che hanno segnato e arricchito il mio tempo. Questo luogo è stato spesso il protagonista dei miei racconti. È all’ultimo piano proprio quello oltre il quale non si può più salire perché più in alto c’è solo il cielo, sotto stormi di tetti e all’orizzonte colline e Appennini. Per questa ragione, alzando lo sguardo, Renzo ha visto e ha richiamato la nostra attenzione verso il fenomeno di un raggio blu sempre più intenso che attraversava il cielo da un orizzonte all’altro.

Meraviglia, foto, riprese. Sempre quel pomeriggio è arrivata insieme alle altre e agli altri amici, Marina. Io ero un po’ stanca e per un attimo l’ho confusa con mia figlia Marcella. A volte antiche parentele prendono forma, così, all’improvviso. Di tutte le persone presenti ho avvertito nei suoi confronti il desiderio di ri-conoscerla. Con i miei tempi – lunghi – la relazione ha iniziato il suo percorso. L’interesse è stato reciproco: Marina Mannucci e il suo compagno, Alberto Giorgio Cassani, mi sono venuti incontro con autentico interesse e curiosità. È nato così un bellissimo articolo pubblicato nella rivista Casa Premium.

18 gennaio 2017
Oggi pomeriggio è venuta a trovarmi in studio Marina. In questo periodo ho pensato spesso a lei. Quando ci siamo incontrate abbiamo parlato di me, del mio lavoro e della storia delle donne. Ho notato che Marina è portata all’ascolto ma a me interessa conoscere la sua vita.

Così oggi è lei che racconta e io prendo qualche appunto utile a sviluppare un’idea che ho già in mente. Mi racconta una vita dalle mille vite sempre contro corrente. È tranquilla, serena, sicura. E non inizia partendo dall’infanzia – l’età della verità cieca – no, mi annuncia subito la sua passione: “Compiuti i diciotto anni, appena diplomata, mi assunsero subito in banca; la sera studiavo, perché ero iscritta alla Facoltà di Filosofia. In quel periodo, siamo nel 1976, abitavo a Bologna e, di fianco alla storica paninoteca Wolf di via Massarenti, quasi di fronte al Sant’Orsola, c’era un terrain vague sul quale carovane di rom o sinti di passaggio sostavano con le loro case mobili. Per alcuni mesi, il pomeriggio, finito di lavorare, iniziai a insegnare italiano all’interno di una roulotte adibita ad aula, a una decina di bimbe/i, ragazze/i per coprire un vuoto istituzionale che non permetteva loro di usufruire del diritto allo studio. In segno di riconoscenza loro mi insegnavano la loro lingua, il romanì”.

E il mio pensiero con il suo racconto, prende corpo: “Trascorsa una decina di anni, mi licenziai per seguire la mia passione: l’educazione di giovani vite”. Continua: “Dopo essermi trasferita a Ravenna, con la mia amica-sorella Claudia Tramonti abbiamo partecipato a un bando del Piano giovani del Comune presentando un progetto di Doposcuola, lo abbiamo vinto e il Comune ci assegnò un edificio di sua proprietà in via Paolo Costa. Con cinque milioni di lire ricevuti dall’Ente pubblico e l’aiuto di amiche e amici abbiamo ‛restaurato’ lo stabile e adattato gli spazi alle azioni educative che desideravamo sperimentare: teatro con palco e scenografie, musica, atti creativi in libertà, semplicemente. Con il coraggio trasgressivo dell’essere giovani, creammo un luogo educativo che prima non esisteva, dove custodire giovani vite. Credo che l’emancipazione della persona sia la dimensione peculiare dell’educazione. Per fare questo lavoro, oltre alla professionalità e all’esperienza, è fondamentale avere un’idea di un futuro che può migliorare, ma anche idee ben chiare in fatto di problemi sociali e politici. Dopo tre anni però, il Comune aveva bisogno di soldi e vendette i locali. Non mi arresi. Maria Grazia Carbognin, proprietaria dell’asilo Il girotondo, mi chiese di entrare in società con lei e per dieci anni l’affiancai nella direzione della storica scuola materna e doposcuola ravennate. Fu un’ottima esperienza: oltre alla didattica e a una costante relazione con bambine/i e genitori, con Maria Grazia ci occupavamo anche dell’organizzazione aziendale. Un lavoro che mi premise d’intrecciare rapporti e progetti con insegnanti. Il mio interesse cominciò a soffermarsi soprattutto su studentesse e studenti che vivevano la scuola con fatica e molto malessere e iniziai a creare nuovi linguaggi per comunicare con loro. Una grammatica inclusiva del vivere che si basava su piccoli gesti creativi supportati spesso dalla didattica dell’arte. Una serie di eventi, infine, mi indusse a deviare ancora una volta il mio percorso professionale”.

Solo apparentemente, penso io. Marina procede nel suo racconto e io, ora che scrivo, posso fermarmi. La guardo e penso che potrebbe essere la reincarnazione di Augusta Rasponi. Se Augusta, “Gugù”, fosse vissuta in questo tempo e non tra il 1800 e la prima metà del 1900, farebbe ciò che sta facendo lei. In primo luogo gli studi che non seguono in nessun modo la realtà dei loro desideri e della loro passione. Qui di fronte a me c’è una donna diplomata in ragioneria che costruisce rapporti e progetti pedagogici con insegnanti, crea azioni artistiche in piena libertà imparando e insegnando a bambine e bambini, con un’attenzione particolare per quelli più fragili, come Augusta, appunto. Inoltre realizza tutto questo muovendosi in piena autonomia fuori dalle istituzioni delegate. È una viandante; non arretra e si assume la responsabilità del proprio agire. Il suo è lo sguardo mobile di colei che sa riconoscere altre vite e in queste si riconosce e si ritrova. Sia Augusta che Marina hanno attraversato i territori fertili dell’infanzia e ne hanno visto e ascoltato l’azione potente.

Ma ritorno ad ascoltare Marina. L’ho lasciata in una deviazione del suo percorso: “Ha inizio così un’altra fase. Mi sono iscritta a un corso per l’abilitazione a Tecnico della conservazione dei Beni Culturali organizzato dall’Università. In due anni ho dato quaranta esami, sono stata in Messenia in Grecia a fare rilievi al Castello di Methoni, ho realizzato una tesi sul complesso della ex raffineria Zolfi Almagià e un’indagine storico-artistica su una bottega nella Ravenna del XVIII secolo, attraverso la lettura della perizia di Domenico Barbiani sullo stato della vecchia cappella del Santissimo Crocifisso e del progetto della Fabbrica della Nuova Cappella della Chiesa di San Domenico in Ravenna. Contemporaneamente ho realizzato progetti in diversi Istituti scolastici e per alcuni anni ho insegnato in un Centro di formazione professionale. Mi segue sempre un senso di stupore per la fortuna che ho spesso avuto di poter fare le cose che mi piacevano e per le quali non sempre mi sembrava di avere gli strumenti ‛socialmente’ richiesti. Ho scritto favole e da anni collaboro con la rivista d’architettura Casa Premium con la mia rubrica Città e società. Nel 2011, con l’avvento dell’emergenza Nord Africa, insieme a Emanuela, Paola, Patrizia, Enzo, Rosa e altre amiche e amici fondiamo a Ravenna il Comitato ‛Rompere il silenzio’. Successivamente apriamo l’Associazione Avvocato di strada onlus che ha lo scopo di fornire assistenza legale e patrocinio alle persone senza dimora. Esperienze che ho sempre vissuto come una chiamata con al centro i rapporti umani e una vicinanza fisica alle persone. Non potevo e non posso fare diversamente. Un impegno civile che col tempo mi ha permesso di acquisire la giusta distanza per mettere a fuoco le situazioni e per essere, non solo empatici, ma sviluppare azioni che siano il più possibile realmente efficaci e commettere meno errori”.

Ed ecco, alla fine, l’origine della “chiamata”: “Mio padre era Generale dei Carabinieri. Col suo lavoro, sempre rivolto soprattutto a garantire dignità ai più umili, ha attraversato una parte della storia d’Italia mantenendo sempre uno sguardo fermo sui principi inviolabili della Costituzione. Il racconto semplice della nostra famiglia è una storia di nomadismo che ci ha visto spostare da Messina a Sciacca, da Bolzano a Pordenone, da Catania a Ravenna fino a Bologna e a tanti altri posti ancora, sempre a stretto contatto con le persone e con i loro problemi. Da giovane, mio padre aveva la passione della bicicletta”.

Ecco la risposta a questa moltitudine di atti creativi, a questi infiniti nomadismi: “Ci sono dei fatti – nostri contemporanei. Ce ne sono altri – nostri predecessori, i fatti prima di noi... Tali sono tutta l’infanzia e l’adolescenza. Antenati, predecessori, precursori... La storia delle mie verità – ecco l’infanzia” (Marina Cvetaeva).

In effetti sono così vaste le regioni che la mia amica nomade ha attraversato e sta attraversando che la racconterò a puntate, non possiamo liquidare in due parole, come in un curriculum, l’appartenenza ad associazioni come “Rompere il silenzio”, “Avvocato di strada” e soprattutto “Femminile, Maschile, Plurale”. Marina conclude il nostro incontro con queste parole: “Mantengo impegni d’insegnamento con progetti extracurricolari e seguo le studentesse e gli studenti con modalità di accompagnamento allo studio legate al vivere sereno e libero”.

Mi sono dimenticata tante cose ed è normale, però due credo valga la pena ricordarle. La prima riguarda la pubblicazione di Abitare le culture, la seconda l’incarico ricevuto nel 2005 dalla clinica “Domus Nova” di seguire i lavori sia progettuali che pedagogici dell’Asilo aziendale “Domus bimbi”. Riguardo a veli, muri, recinti, ponti, paure, distanze, il confronto è sempre aperto.

E il confronto ci sarà.