Mi è capitato davvero. Al centro del gate numero cinque, nell’aeroporto di Roma, un pianoforte. È uno Stern a coda, di ebano nero, sinuoso, elegante, una femme fatale. Un fiume di vite gli scorre intorno, indifferente; piedi che si muovono come automi, piedi che hanno fretta di partire e di tornare. Con il suo mantello lucido, nero, con la sua fila di tasti bianchi, aspetta solo di prender vita. L’aeroporto è il palcoscenico, i passeggeri un’improbabile platea.

Si avvicina allo sgabello del pianoforte una montagna di muscoli, una via di mezzo tra Cassius Clay e Michael Jordan. Il suo viso ha tratti infantili, anche se infantile non rende bene l’idea. La pienezza diversa delle labbra sfocia in un broncio involontario, un po’ moribondo, un po’ bambino. Gli occhi raccontano due vite, le spalle larghe il coraggio di affrontarle. Se incroci il suo sguardo puoi quasi vederlo, in un angolo, quel piccolo villaggio del Sahara.

Si avvicina al pianoforte col passo felpato di una pantera. Getta il borsone sulla destra e costringe i suoi due metri d’Africa sul piccolo sgabello in pelle. I suoi occhi bianchi scompaiono sotto il sipario scuro delle palpebre. Quelle mani d’ebano sfiorarono il bianco dei tasti e sembra che un volo di corvi abbia offuscato di colpo il bianco del cielo. Così, senza un pubblico e senza uno spartito, quella montagna di muscoli comincia a suonare. Racconta un’altra vita seguendo le note di un ricordo scolpito nel cuore. Prima è nebbia sottile, quella musica che viene da lontano. Poi pioggia, sempre più fitta, sempre più urgente, sempre più nera. Infine è un’alba gialla in un deserto, lo sbadiglio di una nuova vita. Un blues caldo come quel sole che la pantera ha marchiato sulla pelle. Il fiume umano del gate numero cinque si ferma. Un capanno di gente assiste muta. Piedi in ascolto battono il tempo di un ritmo sconosciuto, un eco che viene dall’altra parte dell’oceano. La pantera suona come se non ci fosse nessuno, in attesa, al gate numero cinque.

Poco distante, intanto, il ragazzo che sembra un corvo aspetta in coda il suo turno al gate. Nella fila ordinata di corpi, il suo si muove irrequieto. Racconta inquietudine in ogni angolo del corpo. Pelle chiara, tesa su un corpo lungo e spigoloso, da volatile. Gambe sottili, perse nei jeans. Un teschio al centro del petto a rendere meno anonima quella t-shirt nera troppo larga. Ha mani da pianista, un orecchino da pirata, per la barba è ancora presto. Nel suo sguardo una minaccia che nessuno prende troppo sul serio; negli occhi la pericolosità di un cane di piccola taglia. Si potrebbe raccontarlo come una di quelle giornate che minacciano temporale fino alla fine, ma poi ti lasciano senza. In quegli occhi, però, c’è un’urgenza impellente e profonda. La fretta di una partenza, forse. Inganna il tempo giocando con un sigaro spento, probabilmente rubato a suo padre. Lo tiene tra i denti con l’aria di chi una volta l’ha visto fare in un film. Tra quei sedili carichi di attesa, la sua, di attesa, è la più insopportabile.

Quel blues lontano lo costringe a una inversione. Abbandona la fila, quando ormai è il suo turno, trascinandosi dietro quel bagaglio troppo grande. Il corvo guarda il pianista con aria di sfida. Si apre con prepotenza un varco nel capannello di gente. Il suo sguardo è un invito a liberare il campo. Vuole suonare lui, adesso. L’uomo pantera si alza divertito, lo sovrasta di quasi un metro. Poi il corvo, con un balzo, conquista lo sgabello e inizia a martellare la tastiera.

Un jazz violento è la sua presentazione. Le sue mani percuotono i tasti senza rispettare i tempi di una musica che tempi non ne ha. Quella musica è un urlo scomposto, racconta quell’urgenza che ha nel petto. Racconta di quei diciotto anni insopportabili, di una scuola che ha odiato, dei tanti no che ha marchiati sulla pelle, della prigionia della sua vita, e della sua vera vita in prigione, per quei maledetti venti grammi di hashish. Racconta una rabbia violenta, feroce, scura. L’odio verso quel mondo che impedisce la sua migrazione, i suoi piani da uccello. Quella musica dice che lui non ha paura di nessuno, nemmeno dell’enorme zampa della pantera che adesso è sulla sua spalla. Ma il ragazzo-corvo continua a picchiare sulla tastiera. La sua musica è una sfida, un urlo di rabbia. Poi fa qualcosa che non avrebbe dovuto fare: guarda il colosso e alza il dito medio con aria di sfida. Si sente sollevare dallo sgabello, e in un attimo si ritrova per terra, in un attimo la pantera è sopra di lui.

Nel silenzio di un venerdì pomeriggio, nel ring del gate numero cinque dell’aeroporto di Roma, il fiume dei passeggeri non segue più la musica. Quell’ammasso di corpi per terra ha preso il posto del jazz. Un corvo e una pantera, nella giungla dell’aeroporto, rubano la scena al pianoforte. Si contendono quello sgabello nero.

Nel valzer dei pulviscoli di un raggio di sole di passaggio, al centro gate numero cinque, ti vedo avvicinarti a piccoli passi al pianoforte. Vedo il tuo ciuffo biondo sugli occhi, che ti nasconde un po’ il viso. Il tuo metro e cinquanta, affogato in quella camicia blu troppo larga, le mani piccine chiuse in due pugnetti, i tuoi otto anni in ogni angolo del viso. Sento il tuo nome ripetuto, tua madre imbeccarti d’amore, “vai, suona, se vuoi”. La voce elettronica che annuncia un volo in partenza per Amsterdam.

Seguo ogni tuo passo. Lasci la mano di tuo padre, percorri quei lunghissimi quattro metri guardando il pavimento e cercando di non toccare le righe tra le mattonelle. Ti siedi sullo sgabello. Il tuo ciuffo biondo vola via con un movimento della testa, i tuoi otto anni abbandonano il gate numero cinque. Vedo i tuoi occhi concentrarsi, il tuo corpo sommerso dall’onda dei passeggeri in partenza. Le tue mani sospese sui tasti. E proprio quando l’onda diventa marea, chiudi gli occhi e cominci a suonare. Nel caos del gate numero cinque, riesci a domare quell’onda, a cancellare la fretta, a raccontare l’attesa.

Tutti lì, quei piedi, ora fermi ad ascoltare. Quella musica lenta, profonda, maestosa. Quella musica via via più incalzante. Come una poggia che aumenta di intensità prima di diventare temporale. Quella musica che come un piccolo miracolo nasce dalle tue dita, illumina d’orgoglio gli occhi di tua madre e scioglie il gelo della sala d’attesa. La folla ammutolisce. Anche la pantera si ferma. Il corvo, per il momento, è salvo. Mi è capitato davvero: lo spettacolo di un bambino che suona Mozart, al gate numero cinque, dell’aeroporto di Roma.