Era cresciuta a pane e favole. Aveva sei anni e non riusciva ad addormentarsi se non ascoltava almeno una favola al giorno, ma doveva essere suo padre a leggerla. Tutte le sere lo stesso rito: suo padre tornava dal lavoro, e la bambina gli concedeva appena il tempo di togliersi le scarpe e di sfilarsi la giacca, prima di sventolargli sotto il naso quel vecchio librone di favole dalla copertina blu ormai semidistrutta. E lui non saltava mai un turno: nemmeno quel giorno che era rientrato molto tardi dal lavoro, nemmeno quella volta che c’erano ospiti importanti a cena o quella volta che aveva quaranta di febbre e riusciva a tenere a stento gli occhi aperti.

Era un volume antico e consumato, una vecchia ristampa di fiabe popolari. Ogni tanto la bambina gli chiedeva di leggere una storia in particolare, fingendo di non ricordare il finale. Conosceva a memoria ogni parola di quel libro, pur non avendolo mai letto. Conosceva le pause e le accelerazioni della narrazione, l’incalzare dei colpi di scena e l’apnea dei finali. Ma soprattutto, conosceva quel “felici e contenti” che arrivava puntuale, attraverso la voce del padre, alla fine di ogni storia.

Tutte le sere, per trecentosessantacinque giorni all’anno, quel teatrino si ripeteva sempre uguale: il padre la prendeva sulle spalle e insieme iniziavano a planare per tutto il salone, sul finale di quelle storie. Era bello sapere che il vecchio falegname non era morto di fame, che il re era riuscito ad allontanare quella strega dal regno, che bastavano due sogni in croce a far rivivere le cose.

La prima volta che la bambina aveva aperto quel libro era un mercoledì di novembre e suo padre era in ritardo. Non sapeva esattamente cosa l’avesse spinta a violare il loro rito, eppure ne aveva sentito un’urgenza impellente e profonda. Così la bambina si era trovata con il peso di quel librone aperto sulle sue ginocchia piccine. Si era sentita pronunciare con voce incerta quel “c’era una volta”, mentre con l’indice segnava lo scorrere delle parole.

La prima volta che la bambina aveva aperto gli occhi sulla vita erano le undici di sera, suo padre non arrivava, e lei aveva appena scoperto che non c’era nessun felici e contenti a pagina dieci. Che il falegname in realtà moriva di stenti, che la sirenetta, rimasta per sempre ammutolita da un sortilegio, non riusciva a rivelare al principe il suo amore ed era relegata a vivere, per il resto dei suoi giorni, negli abissi marini. Che i sogni, a volte, non bastano. Si accorse che, per trecentosessantacinque giorni all’anno, suo padre aveva riscritto i finali delle storie.

Quella sera il padre tornò molto tardi. Lei era già nel letto quando, armato di libro, entrò nella sua stanza, si sedette sulla solita sedia e cominciò a raccontare quelle sue storie in cui “c’era una volta” faceva sempre rima con “felici e contenti”. Quando arrivò a pagina dieci la bambina lo guardò mascherare la stanchezza e concentrarsi mentre leggeva quelle righe non scritte.

Ascoltò suo padre raccontarle che in realtà la sirenetta, dopo essere tornata per sempre negli abissi marini, vi aveva trovato il principe, che aveva assunto le sembianze di un pesce e con lei avrebbe vissuto fino alla fine dei suoi giorni. Gli sentì raccontare che la piccola fiammiferaia non era morta assiderata, ma era solo caduta in un sonno profondo, da cui l’avrebbe destata il tepore di un fuoco, che sprigionava dal camino di un castello, in cui un bellissimo principe l’aveva condotta. La bambina sorrise soddisfatta e si addormentò. Fu quella sera che imparò ad amare le bugie. Quelle che ti fanno sopravvivere.

Il padre anni dopo ebbe un tumore. Toccò alla bambina, che non era più una bambina, raccontargli una bella favola.