C’era qualcosa di strano in quel posto, il mio istinto me lo aveva detto, ma io lo avevo zittito in preda a un appetito che già da qualche ora mi stava divorando. Appena entrato nel locale ero stato investito da una sensazione di pesantezza, forse più di tutto era stato quell’odore di chiuso a colpirmi o forse l’atmosfera di desolazione così inconsueta per un locale del centro e per di più nel fine settimana.

Era da poco passata la mezza e c’era solo un altro cliente. L'uomo, seduto poco distante da me, mi dava la schiena: di lui vedevo solo la chierica di capelli unticcia e la corporatura molto robusta tanto che avevo guardato con apprensione alla stabilità della sedia. Un cameriere, dalla figura elegante ma dall’abbigliamento trasandato, apparve in quell’istante sorridendo e, indicandomi un piccolo tavolo sulla sinistra, mi disse con forte accento toscano: “Buongiorno signore, ecco la carta dei vini, abbiamo in cantina un ottimo Morellino di Scansano del 2010 che oggi consigliamo ai clienti perché si abbina ottimamente ai nostri primi, le porto nel frattempo del pane e dell’acqua, come la vuole liscia? frizzante? Dia pure un’occhiata al menu e tra un minuto sono da lei!”.

Mi accomodai e, presa in mano la lista, non riuscii a trattenere un risolino compiaciuto... “Ah, ma qui c’è la Toscana intera, complimenti! - e poi, in un crescendo di eccitazione - pappa col pomodoro, minestra di cavoli neri, crostoni coi fegatini… ah, anche pici al sugo di cinghiale...Mamma mia , quante tentazioni!”. E rivolgendomi al cameriere in arrivo : “Lei mi prende per la gola, come farò?” “Con una giornata così fredda - ribatté il cameriere - viene voglia di mangiare robusto! Per esempio, queste pappardelle ai funghi, come si fa a lasciarle tutte sole?”. “Aspetti, aspetti, non precipitiamo – dissi io - mi porti la bottiglia di Morellino, sono certo che dopo un paio di bicchieri mi sarà più facile decidere!”. “Bene, signore - e così dicendo indietreggiò per ricomparire dopo pochi minuti tenendo salda tra le mani una bottiglia scura dalla sobria etichetta. Mi versò il vino nel calice, mi sorrise aspettando un cenno di approvazione e subito dopo, procedette verso il tavolo vicino, quello del tipo grassoccio. Osservai in controluce il vino e, con gli occhi socchiusi, lasciai affiorare con calma le immagini di una memorabile estate in Maremma.

La conversazione del tavolo accanto mi riportò alla realtà e scoprii cose che non sapevo: il cameriere non era il cameriere, o meglio, non era solo cameriere. “Qui facciamo tutto io e mamma - sentii dire – è trent’anni che siamo aperti, lei è una santa donna, un vero fenomeno! Le consiglio le nostre pappardelle ai funghi porcini. La pasta la fa mamma con le sue mani e il sugo è una ricetta antica, della sua famiglia. Da bere, se lo gradisce, oggi abbiamo del Morellino di Scansano del 2010 che si sposa perfettamente con le pappardelle”. Presa l’ordinazione il cameriere tornò da me con passo svelto e come un satiro tentatore : “Eccomi da lei! Ha trovato qualcosa di suo gradimento? Cosa le possiamo fare? Vogliamo iniziare con dei crostoni di fegatini? Tutta roba genuina, mamma li faceva sempre a babbo, vedrà, c’è da leccarsi i baffi ! E di primo? Che le faccio preparare? Pici col cinghiale? Molto bene, vedrà, non si pentirà! Le porto altro pane - guardò il cestino vuoto - vedo che il pane toscano le piace...”.

Detto questo si diresse in cucina per ritornare dopo pochi minuti con le pietanze ordinate - e che pietanze! Un tripudio di succulenza e profumi di macchia come non ricordavo di aver mai provato in vita mia. Colsi la voce dell’energumeno accanto a me mentre ordinava dei tagliolini con sugo di lepre all’etrusca e come preso da un raptus bulimico intercettai il cameriere e ordinai la stessa cosa. Lui scarabocchiò qualcosa nel suo blocchetto e si allontanò.

Improvvisamente dalla cucina uscì il suono di una vocetta stridula che singhiozzava nervosamente, poi un gran fracasso di piatti smossi con violenza e posate cadute sul pavimento. Il cameriere ritornò in sala precipitosamente stringendo tra le mani un cestino del pane vuoto che appoggiò sul mio tavolo. Lanciai uno sguardo al mio vicino che, a dispetto di tutto, continuò a mangiare senza alzare la testa dal piatto, con una ingordigia spaventosa e producendo rumori animaleschi.

Ormai ero al termine del mio pranzo per cui chiesi il conto. Il cameriere, apparentemente ricomposto, mi offrì un calice di Vin Santo e dei fragranti cantucci (li avrà fatti mamma anche quelli?). Al momento di pagare chiesi: “Posso salutare la sua bravissima mamma? Ci terrei molto”. “Mi dispiace ma non è possibile - mi rispose secco - oggi è stata una giornata veramente dura per lei, è dall’alba che lavora... la pasta, il pane, pure i cantuccini, mamma ci tiene che ogni cosa sia fatta bene ma poi arriva il pomeriggio che non ce la fa più... Facciamo che gliela saluto io e poi lei la conoscerà la prossima volta che ci viene a trovare, va bene?”. Annuii pacificamente ma in realtà restai un po' contraddetto.

Quello strano rifiuto non mi piacque, per cui, dopo averlo salutato ed essermi accertato di non essere visto, mi diressi deciso verso la cucina, spinsi la porta ed entrai. Con mia grande sorpresa la trovai vuota. Due grosse pentole fumavano sul fuoco e tutti i ripiani erano pieni di piatti sporchi e tegami accatastati. Da una porta che dava sul retro apparve all’improvviso un giovane uomo dalla pelle scura, pareva un indiano. Mi guardò con evidente preoccupazione e mentre mi veniva incontro si rivolse a me con un filo di voce ripetendo “meglio uscire signore, meglio uscire subito, prego, uscire...” “La signora non c’è? - chiesi io sempre più curioso - ho mangiato così bene e mi piacerebbe tanto ringraziarla…”. “Signora non c’è più, signora morta dieci anni fa, padrone lui non cattivo, ma prego andare via subito, prego signore, qui non può stare, andare via subito, prego...”.

Un brivido mi corse lungo la schiena… Uscii frettolosamente dal ristorante ma dopo pochi metri mi bloccai. Mi sentivo come quando ci si sveglia da un incubo e non si capisce bene dove sia la realtà. Continuavo a domandarmi: ma chi ha cucinato tutto quel ben di Dio? Possibile che abbia fatto tutto l’indiano? E poi a che scopo creare quella messinscena, raccontare tutte quelle storie? In quel momento mi accorsi di aver dimenticato il telefono. Con una sensazione di disagio, tornai sui miei passi. Quello che vidi è difficile da dimenticare.

In fondo al locale c’erano due figure che in principio non distinsi bene perché girate, poi una la riconobbi per la stazza e per il colore della giacca: era il cliente di prima, sì, quello con le mani grassocce e con i capelli radi che però, a guardare bene ora apparivano diversi, tutt’altro che radi, anzi, direi foltissimi e scuri e gli ricadevano sulle spalle. In quel medesimo istante, probabilmente accortosi della mia presenza come istintivamente fanno gli animali selvatici, si voltò di scatto e mi guardò: il suo volto era mostruoso, un muso di cinghiale con due zanne giallastre che sbucavano dal vello irsuto e gli occhi rossi che mi fissavano minacciosi. Dalla sua bocca, semiaperta, colava una bava gelatinosa. Accanto a lui il cameriere: con dei dentoni sporgenti e due lunghe orecchie pelose e grigiastre che solo allora notai. Anche lui si voltò, mi vide e ragliò una risata. Mi girava la testa e mi cedevano le gambe, mi aggrappai alla maniglia della porta e uscii dal locale, tuffandomi nella folla, senza mai voltarmi indietro.

Mamma me lo diceva sempre, quando si va a mangiare fuori, è meglio non esagerare.