Fare il buttafuori nei locali rock non era male. Mi piaceva molto di più la clientela. E la musica. Quella era musica vera. C’era stato qualcuno che l’aveva suonata, con un vero strumento. E l’aveva incisa su un disco. Nella maggior parte dei locali commerciali non c’è neanche la musica. C’è una schifezza impastata di robaccia prodotta dai computer. Una merda. Ogni tanto può anche esserci una voce. Ma non canta quasi mai. È una voce in sintonia con lo stile orrendo prodotto dal computer. E di solito emette dei versi incomprensibili.

Un’altra cosa che mi dava un fastidio che non potevo sopportare, era sentir dire che il dj è uno che suona. Ma cosa cazzo suona? Suona il citofono di casa quando rientra sbronzo fatto alle sei del mattino perché ha perso le chiavi. E fa incazzare suo padre. Al massimo è il padre che suona quel coglione di dj. E le ragazze: come sono belle. Hanno personalità, le ragazze di un locale rock. Le amo. Si vestono tutte diverse. A guardarle, non ti annoi mai. Non hanno paura. Non si giudicano. Nei locali commerciali sembra escano tutte dalla stessa porta. Come se ci fosse una macchina che le veste in serie. E vestiti a parte, nei locali rock ognuna balla come vuole. Sono così belle, da guardare.

Era un sabato di luglio. Faceva un caldo maledetto. Ero al Villarock. Il Villarock è un locale davvero ben fatto. Ci sono quattro piste, quattro generi musicali differenti. Ci sono due bar per i cocktail, una paninoteca e un gazebo che prepara solo birre alla spina. È un locale enorme, sulla cima di una collina. Di solito tira sempre un po’ di vento. Quella sera, no. Quella sera non si tirava fiato. C’era un sacco di gente. Eravamo tutti sudati fradici. Sembrava di stare in un gigantesco bagno turco. Fumavo una sigaretta dietro l’altra, e il sudore delle labbra bagnava il filtro. A sorvegliare la pista più grande eravamo in due. Io e Deppia. Deppia aveva solo diciannove anni, ma era un colosso. Un gigantesco armadio di due metri per due. Vestito sempre di nero e con lo sguardo sempre incazzato. Soffriva il caldo molto più di me. Ogni quaranta minuti circa andava nel bagno delle donne e ficcava la testa sotto al lavandino. Lui poteva farlo, era pelato. E siccome avevamo il dovere di controllare anche dentro i cessi, preferiva andare in quello delle donne. Deppia lavorava da meno tempo di me. Aveva il dovere di usare la radio per riferirmi prima di agire.

Intorno alle due e mezza l’ho sentito mugugnare alla radio. Non ho capito un accidente, solo “bagno delle donne”.
Ho aperto il canale della radio e ho urlato: “Il caldo ti ha forse scollato i denti dalle gengive? Parli come mia nonna. Cazzo, Deppia, ripeti. E parla chiaro”.
“È meglio se vieni qui e basta”. Ha risposto.
Davanti all’ingresso c’erano una decina di ragazze in fila. Deppia aveva sgomberato il bagno. Mi ha aperto la porta, tenendo fuori le ragazze.
“Ultimo cesso in fondo”, ha detto.

L’ho visto subito, appena entrato. Da sotto la porta dell’ultimo cesso, sbucava un braccio. Mi sono precipitato. Il tanfo era insopportabile. Un fetore rancido di carne decomposta. Mi sono tirato la maglietta bagnata fino sopra il naso. Sembrava fosse esplosa la fogna di uno zoo. Nessuna persona sana di mente avrebbe tollerato quell’odore per più di un secondo. Ho dato due calci alla porta. Ben assestati, belli forte. “Apri questa cazzo di porta”! Ho urlato. Niente. Sono uscito, ho respirato e mi sono acceso una sigaretta. Sono rientrato. Ho dato altri due calci. Niente. Dio benedica la sigaretta, ho pensato. Sono entrato nel bagno di fianco e mi sono arrampicato per vedere dall’altra parte. Una scena raccapricciante. Quel tipo stava sdraiato a pancia sotto. Aveva i pantaloni abbassati, e la faccia che gli affondava in una poltiglia verde\marrone che ricopriva tutto il pavimento. Sono uscito e ho detto a Deppia di chiamare l’ambulanza.

Sono corso nel magazzino e ho stappato una bottiglia di vodka liscia. Mi sono fatto un paio di sorsate, belle piene, e sono tornato al bagno delle donne.
“Adesso tu scavalchi e apri la porta dall’altra parte”. Ho detto a Deppia.
“Cazzo, perché io”?
“Perché lo dico io. E muoviti. Poi vai in magazzino, c’è una bottiglia di vodka aperta, ti fai un goccio”.
Deppia è saltato dall’altra parte. Ho sentito i suoi anfibi colpire la fanghiglia. Ha aperto la porta ed è filato via, diretto al magazzino. Ho dato un’occhiata rapida a quel tipo steso a terra. Respirava. Il proprietario del locale è arrivato con un vecchio telo cerato. E una Polaroid. Ha fatto una foto a quella scena. Gli ho chiesto perché, lui ha sorriso. Ho tirato fuori il tizio trascinandolo per il braccio, e ha emesso un lamento. Un altro segnale positivo. L’abbiamo issato sul telo usando lo scopettone del bagno. L’ambulanza aspettava all’ingresso del locale. Abbiamo adagiato il tizio sulla barella, ancora avvolto nel telo. Il proprietario del locale ha scritto la data e l’ora dietro la foto. Poi l’ha delicatamente infilata nella tasca posteriore dei pantaloni del tipo. Ha sghignazzato, ed è rientrato.