Ci sono emozioni che, a volerle accogliere ci invitano ad entrare nella stanza segreta in cui i ricordi sono sempre in ascolto, pronti a carpire un desiderio fuggevole, un fremito di nostalgia, uno sguardo assorto, un battito di ciglia malinconico, insomma qualcosa che dia loro l’opportunità di tornare sul palcoscenico della vita.

Dicembre è un bel mese per accettare questo invito, per lasciarsi coinvolgere in quel fluidofiume di parole e immagini che ci attraversa il cuore quando apriamo le valige ricolme del nostro passato, quando andiamo oltre il timore di perderci nei luoghi che per troppo amore abbiamo cercato di dimenticare, oltre la paura di non riconoscere e riconoscersi, di non farcela a contenere il ritorno di quella pienezza di gioia che, nel tempo bambino, abbiamo creduto nostra per sempre.

I ricordi vivono nell’attesa e questo è il mese che a lei è dedicato. È l’adventus dei Latini, l’attesa che inizia con il solstizio d’inverno quando il Sole neonato comincia a crescere: a lui, al giorno natale del Sole invitto era stato dedicato dall’imperatore Aureliano il 25 di dicembre. Era questo il tempo in cui nella Roma precristiana si preparava la venuta della divinità nel suo tempio e la si celebrava con feste e giochi.

Quella dei ricordi è una stanza colma di fotografie, di bottiglie di profumo che ancora odorano di mughetto o gelsomino; in una bella scatola ricoperta con un velluto verde arricchito da una bordatura dorata sono deposti dei guanti di raso e un piccolo binocolo appeso ad una catenella di raffinata fattura.

In una busta azzurrina di carta elegante c’è una lettera che apro con emozione e cura per non violarne il segreto e la delicata presenza. Leggo in silenzio. C’è scritto così: Per non dimenticare quella sera a teatro: era l’8 di dicembre e Adelaide Ristori in una mirabile interpretazione della Mirra di Alfieri ci toccò il cuore. Ero così innamorata e tuo nonno era bellissimo nel suo abito scuro.

Quella che scrive con una morbida e arrotondata calligrafia è la mia bisnonna Teodolinda, un nome altisonante come quelli di altre donne della mia famiglia: Rosmunda, Camilla, Euterpe, Elodia.

In una bella foto è ritratta a Venezia, irrinunciabile approdo di un romantico viaggio di nozze. Ha in testa un cappello di organza, a tesa larga, con un fiore in evidenza. Il bianco e nero impedisce di saperne il colore, ma si possono intuire chiare tonalità pastello.

Dicembre è un mese ricco di riti, di occasioni sacre nelle quali si intrecciano molteplici tradizioni religiose, tutte connesse al solstizio invernale ma è anche un’occasione di raccoglimento, di un silenzio nel quale tornano a danzare le voci antenate e sento forte il desiderio di adagiare le mie parole accanto alle loro con antica cura, per incontrarle, per riascoltarle e intrecciare il nostro sentire.

È una festa antichissima quella che all’8 del mese celebrava Maria senza macchia, “amata da Dio” secondo l’etimologia del suo nome derivato dall’egizio mry(t) ‘amato’.

Era sincera la devozione che risuonava nelle litanie che mia nonna non dimenticava di dedicarle nel suo latino sinceramente incurante della filologia e ora posso udirne la voce che mi accarezza l’anima mentre sale in alto come sillaba sacra a toccare le regioni dell’anima che sanno restituirci immagini di antiche liturgie ammantate di immutabile intensità.

La neve scende nella sfera di vetro che custodisce un paesaggio di piccole case attorno ad un albero sul quale sta salendo uno scoiattolo. È un abete, l’albero natalizio in tutta Europa, simbolo dell’albero cosmico.

Molte piante dell’inverno sono simboli legati al Natale come il vischio che i sacerdoti dei Celti coglievano come augurio di rigenerazione e immortalità. Nella Sicilia dell’Ottocento erano di buon auspicio anche la mortella, l’oleastro e la sparaghella. I Greci e i Romani bruciavano legno di ginepro come incenso così che le loro preghiere salissero al cielo sotto forma di fumo odoroso.

Narra la leggenda che durante la fuga in Egitto i soldati di Erode stavano per raggiungere la sacra famiglia e allora Maria pensò di chiedere aiuto alle piante perché con le loro foglie facessero da protezione: soltanto il ginepro rispose alla sua richiesta facendo da riparo con i suoi rami ed è forse per questo che nella notte di Natale se ne appendeva qualche ramo sulle porte per impedire alle streghe di entrare in casa.

Aveva un volto antico mia nonna, con una speciale sacralità. Neppure a Natale abbandonava i suoi abiti scuri, quasi a lutto. Aveva perduto tre figli e vissuto due guerre. Una donna di immensa forza che possedeva una mirabile arte della parola. In lei c’erano la saggezza e la pazienza di chi conosce e accetta la vita senza riuscire ad amarla. E forse proprio questo rendeva così forti la sua umanità e la comprensione che aveva per gli altri.

Questo è il suo libro di preghiere; tra le pagine sono conservati i bellissimi “santini” con i bordi frastagliati a formare delicati pizzi che li rendevano intoccabili per noi bambini.

Mi piace riaprirlo e poter finalmente sfiorare quelle carte preziose che mantengono l’odore del tempo. Vi ho trovato anche un quadrifoglio custodito tra due foglietti di carta velina: che delizioso connubio di libera sacralità!

In un cassetto foderato con una leggiadra carta a fiorellini blu su fondo rosa confetto sono raccolti i calendari dell’avvento con le loro finestrelle richiuse a fatica come a cercare di fermare i giorni colmi di sorpresa che ogni anno hanno scandito il rito dell’attesa.

Ritrovo il mio preferito: in una grande cucina con il camino acceso, dei deliziosi angioletti, riconoscibili per le ali che spuntano dai loro abiti variopinti, stanno impacchettando con cura i doni da recapitare al momento opportuno. Un angelo depone invece sul tavolo una magnifica torta che si presume appena tolta dal forno. L’allegria è scoppiettante.

È in questo passaggio tra l’autunno e l’inverno, la “quinta stagione” dell’antica filosofia cinese, a mezzo tra fine e inizio, un preludio di mutamento, un sentore di trasformazione, che mi piace stare lì ad ascoltare, mentre la parola diventa filastrocca

Dorme il bimbo nel lettino/tutto tace tutto è quieto/grazie al magico folletto/che ha versato sulla terra/la sua polvere di stella/che ogni cosa rende bella/e regala un dolce sonno/al più grande e al più piccino/che felice e riposato/si risveglierà al mattino/Sol le lucciole son deste/e rischiarano il cammino/a una schiera di viandanti/che son giunti di lontano/Sono i sogni che pian piano/vanno a spasso nelle menti/e conducono i dormienti/nel teatro delle fiabe.

L’immaginazione del cuore crea i paesaggi interiori che, in una sorta di mappa, ci restituiscono luoghi che abbiamo incontrato: isole, fiumi, terre abitate da creature d’ogni genere.

C’è un giocattolo meccanico che, a girare la chiavetta, mette in moto un orso che suona il tamburo e vicino a lui nell’armadio profumato di lavanda un gatto di latta sta pronto a rincorrere un gomitolo, ignaro del fatto che si è rotta la leva capace di metterlo in azione cosicché dovrà restare per sempre in attesa.

Ricordo quando entrambi sono arrivati: era la sera di Santa Lucia tra il 12 e il 13 di dicembre. È in questa notte che la Santa viaggia sul suo asinello per portare i doni ai bambini. Bisogna aiutarla “a fare le consegne” accendendo un lumino sul davanzale della finestra e, per alleviare la fatica del lungo viaggio, si aggiungono dei piccoli biscotti per Lei e un po’ di fieno o una carota per la sua cavalcatura. È un rito di cui conservo tutta la dolcezza anche se, con il passare del tempo, ne ho compreso anche il valore simbolico.

Dicembre è un mese colmo di leggende e di simboli e quelli legati alla luce sono tra i più importanti.

Lucia porta nel suo nome la lux dei Latini ed è nella luce che avviene la nascita di Gesù nel Protovangelo di Giacomo: “ ... E subito la nuvola si dissipò dalla grotta e apparve una grande luce, tanto che i nostri occhi non la potevano sopportare”.

Ancora nel Vangelo arabo-siriaco dell’infanzia la grotta è descritta “piena di luci, più belle che il fulgore di lucerne e di torce e più splendenti del chiarore solare”. Per nove mesi i Re Magi appartenenti ad un’antica casta sacerdotale iranica seguirono la luce di una stella rispondendo alla chiamata divina.

La grotta nel simbolismo precristiano raffigurava il cosmo, l’imago mundi: era un luogo di iniziazione e di culto.

Persino il gioco della tombola che sempre accompagnava i giorni natalizi è ricordo ormai sbiadito dell’arcaico gioco divinatorio con il quale anticamente si cercava di capire la collocazione di ogni persona nel cosmo all’inizio del nuovo anno.

Dicembre è mese di odori evocativi come quello dei mandarini mangiati “con parsimonia” mentre si ascoltava raccontare una favola prima di andare a dormire. E c’era l’odore della legna bruciata in una grande stufa di terracotta che, nel ricordo, si mischia alla voce di mia nonna.

Sulla grande scatola di cartone molto segnata dagli anni si legge a grandi lettere la parola PRESEPE scritta nella perfetta grafia di mio padre. Aprirla è come accettare di perdersi nello sconfinato e fantastico universo dell’infanzia.

I primi a presentarsi sono i pastori e le tante pecore grandi e piccole. Erano quelle ferite dal tempo ad essere collocate per prime in posizione di rilievo: “sono le più vecchie – diceva mia mamma - e vanno rispettate e trattate con cura”.

Quante volte nella vita ci ritroviamo ad aver appreso le cose più importanti senza essercene accorti! Incontrare di nuovo queste creature, “le statuine” come si chiamavano un tempo, è un’emozione piena di meraviglia: sono portatrici d’acqua, angeli, falegnami, venditori di agrumi, carretti, case di sughero, ponti e ponticelli, improbabili cascate, lo specchietto sul quale far nuotare le anatre come su un lago lucente, qualcuno sta mescolando la polenta. Tutti sono pronti a tornare al proprio posto, a disporsi sul fondale di carta stellata per ridare vita alla sacra rappresentazione.

È un viaggio nel tempo che non ha durata, nello spazio che non ha confini fra oggetti, personaggi, luoghi che sfuggono ad ogni legge della quotidianità, dove una zebra può stare accanto ad una enorme gallina che cova le uova nel suo cesto, là dove ogni cosa è per sempre come nella più antica delle favole.

Ci sono diversi esemplari di bue e asino e tutti sembrano consapevoli della propria importanza. E come non esserlo dal momento che l’asino nelle antiche tradizioni indoeuropee era simbolo di regalità e sapienza mentre il bue, paziente e robusto, era animale sacro, benefica vittima sacrificale.

Sul fondo dello scatolone stanno i Re Magi con il loro principesco corredo nel quale non manca il cammello. La loro attesa è più lunga; dovranno aspettare fino all’Epifania per riapparire in tutto il loro fulgore portando oro, incenso e mirra. Chi fossero allora davvero non lo sapevamo ma era certo che venivano da un luogo misterioso e la parola Oriente faceva la sua comparsa a dire di una terra lontana dove le persone si spostavano con i cammelli e portavano abiti ricoperti d’oro.

Nella notte in cui gli animali parlano nelle stalle e nei boschi erano loro a portare regali ai bimbi, in ricordo dei tre doni offerti al Bambino per eccellenza. Del resto Mago deriva da mag che letteralmente significa ‘dono’.

È stato solo in tempi più recenti che la Befana, frutto della trasformazione del latino Epiphania, si è assunta tale compito, e, come dice Alfredo Cattabiani nel suo “Calendario”, mi piace pensarla come un tentativo riuscito di mischiare la festa cristiana con la sopravvivenza di una figura femminile arcaica simbolo di Madre Natura che, giunta alla fine dell’anno, ormai vecchia, distribuisce dolci e regali che rappresentano simbolicamente i “semi” grazie ai quali risorgerà a primavera come giovane Madre Natura.

Non ci resta che rimanere in attesa.

A cura di Save the Words®