Se la curiosità del lettore è di tipo storico o scientifico sono purtroppo costretto a rimandarlo ad altre letture e lidi. Potrei in effetti cimentarmi nella preparazione d’un frullato di aneddoti annebbiati e ipotetiche ricostruzioni, sulla base di pagine di storia trangugiate a fatica. Non ha molto senso indottrinarsi di storiografia, se la consapevolezza ti dice che sempre saranno i vincitori a pubblicarla, a eleggere quali siano i fatti da imprimere nelle coscienze degli studenti per forgiare il bagaglio formativo del servo mansueto. Posso consigliare una buona lettura a chi volesse affrontare il tema con cipiglio serioso d’erudito, non è difficile.

Al tempo in cui mi appassionai al tema tentai d’effettuare una ricerca bibliografica e fu lo sforzo più lieve della mia carriera di filosofo: esiste a quanto pare un solo testo: Il Suicidio. Studio di sociologia, di Émile Durkheim. Trattasi di pedante accademico che dedicò la propria vita all’intento di conferire carattere scientifico e accademico alla sociologia e di conseguenza di testo meramente ridotto a compitino pieno di tabelle come le tesi di laurea di uno studente pigro, che consegna alla storia poco altro che la raccolta di dati statistici. Se un povero diavolo sperasse di risolvere la propria diatriba interna fra l’istinto di sopravvivenza e la stanchezza studiando le pagine di quest’autore resterebbe senza dubbio deluso… Anche volendo prescindere dall’imbarazzo che necessariamente comporta recarsi in libreria a ordinarlo.

In effetti ci fu un tempo in cui ero solito documentarmi su qualsiasi argomento che ritenessi degno di nota e sul quale i casi della vita mi portavano a riflettere. Sentivo il bisogno d’approfondire e reperire strumenti concettuali e intellettuali che eventualmente potessero venirmi in aiuto nel tentativo di formarmi un’opinione, o più semplicemente suffragarne una già plasmata. Fu intorno al duemiladieci che iniziai a frequentare una donna la cui madre si era tolta la vita lasciando a tutti quelli che restarono un bagaglio inaudito di dolore e prostrazione e sensi di colpa.

In seguito a un concatenarsi di dinamiche che non hanno alcuna rilevanza ai fini della trattazione odierna mi ritrovai in libreria per acquistare uno dei più famosi tentativi di Durkheim di conferire dignità alla sociologia. Per pura coincidenza era una di quelle mattine in cui la pellicola trasparente del torpore notturno non intendeva abbandonarmi e il cielo plumbeo di Genova non contribuiva a portare il mio umore oltre la soglia di una smania di tornare a letto a leggere il mio nuovo acquisto.

La mia indolenza fu scambiata dalla libraia che mi consegnò il libro per una profonda, invincibile tristezza. Mi chiese se avessi bisogno di parlare, se desiderassi che lei chiamasse qualcuno, se potesse insomma adoperarsi affinché io evitassi di compiere ciò che ai di lei occhi appariva inevitabile che avrei compiuto da li a poco: l’insano gesto. Ebbi la prontezza di riflessi di assecondare la sua paranoia, non feci nulla per rompere l’incanto di un essere umano attento e solidale alle dieci del mattino di un giorno infrasettimanale in una città che tradisce quotidianamente la sua vocazione alla solidarietà e alla coscienza di classe, lasciando nella completa indifferenza e non degnando di uno sguardo i meno fortunati.

Biascicai poche parole meste di flebile rassicurazione a proposito del fatto che il mio fosse solo interesse scientifico, interpretai la maschera del dolore insanabile nel pronunciare la mia battuta di disperato e come fosse una scusa le dissi la verità: mi interesso all’argomento perché si è uccisa la madre di una persona cara. Se la morte è argomento imperscrutabile per eccellenza, ottimo strumento d’affabulazione e privilegiato oggetto di riflessione per la creazione artistica, ma di fatto fenomeno ammantato da spessa coltre di mistero, il suicidio resta appeso a quel gradino di difficoltà intellettuale con le gambine che pendono un po’ sotto, dove ancora possiamo arrivare a ragionare e arrovellarci per poter sperare di comprenderne se non l’essenza, qualche qualità.

Ciò che rende il suicidio un degno argomento di studio è la totale assenza di accidentalità, la componente di umana volontà. Potremmo porci molte interessanti domande a proposito delle cause che spingono un essere umano a privarsi della vita e altrettante domande sulla qualità degli attimi che precedono immediatamente il passaggio dalla condizione di essere biologicamente attivo a non. Abbondanti studi cercano di classificare a quali tipologie umane, dividendo per genere e censo, appartengano più comunemente la scelta di tale soluzione piuttosto che un’altra.

In buona sostanza il suicidio si presta piuttosto generosamente alla speculazione di quanti non ne possano più di vivere. Non mi ritengo uno studioso o un intellettuale di livello, sono un furioso autodidatta allergico alla cultura di regime. La consapevolezza che sia vero o utile meno di un terzo di quello che insegna la scuola mi porta a profondermi in fatiche inaudite nel tentativo di dipanare il velo che ammanta la vera natura delle cose, con l’ausilio di un buon spirito critico e di letture ben ponderate. Quindi in ordine sparso ho da proporre qualche considerazione sull’argomento che sono il frutto esclusivo e il parto del mio pensare.

Premetto di aver sempre condotto un’esistenza all’insegna dell’abbattimento del tabù e della provocazione, ho seguito l’istinto sicuro che si trattasse dell’unico strumento in grado di concedermi il lusso di condurre un’esistenza da essere umano, piuttosto che da scimmia ammaestrata. Ho sempre assecondato il gusto e la volontà, consapevole di quanto gravoso potesse essere il peso di un rimpianto o di un rimorso. In questa cornice ho però a mia volta inserito dei paletti, dei tabù personalizzati. Poca roba: non mi sparerò mai in vena dell’eroina perché so che mi ucciderebbe, col tempo.

Appunto. Forse l’unico argomento di conversazione sul quale assumo una posizione conservatrice è proprio questo: la mia condizione di vivente. La situazione è questa e non desidero in alcun modo che se ne venga a creare una differente.

Sarebbe d’uopo al tempo della crisi menzionare l’ondata di suicidi imputabili alla pressione della miseria, sono morti da rispettare e rilevare, su cui bisognerebbe riflettere a partire dalla presa di coscienza che molti esseri umani al nostro tempo preferiscano porre fine alla propria esistenza piuttosto che affrontarne una in condizioni di miseria e stenti. Se toccasse a me mettere in atto questa riflessione mi concentrerei sul corto circuito di valori posto in atto dalla proposta di un modello comportamentale e di stile di vita che ha sicuramente esagerato nel tentativo di spremere come limoni gli oppressi, attraverso messaggi sempre più espliciti volti a convincere che possesso ed essere coincidano. Invece mi limiterò a offrire il mio punto di vista di ex potenziale suicida e a tentare di spiegare quanto semplice sia sopravvivere.

Intanto per uccidersi bisogna sconfiggere una paura fottuta, gravida della consapevolezza del bagaglio di dolore che lasci in eredità a quanti si sono spesi per il tuo benessere magari per tutto l’arco della propria vita. E poi perché suicidarsi? Ho sofferto di una forma grave di depressione per molti mesi, incapace di provare interesse o piacere, incapace di uscire di casa, abbandonare il letto, appassionarmi a niente. Dopo alcuni mesi l’unico pensiero che mi potesse consolare era farla finita. Mimavo nel letto, su un fianco, l’atto di iniettarmi con ipodermica la dose letale di morfina che avevo eletto quale dolce e misericordioso boia. Si trattava dell’unico modo in cui potessi provare un minimo di sollievo. Ho resistito anche in virtù dell’aiuto di chi mi vuole bene e dell’intervento sapiente di alcuni professionisti. Sono sopravvissuto perché ho trovato il coraggio di portare all’esterno il buio che mi portavo dentro, ho parlato della mia ossessione, ho chiesto aiuto. Nel mio anelito al suicidio non era assente una certa componente di escatologica curiosità. Chissà cosa succede?

Una curiosità simile a quella che spinge il bambino ad aprire, rompendolo, il giocattolo. Nel caso specifico del giocattolo in oggetto non ho davvero idea di cosa succederebbe, non ho certezze. Ciò che so è che il bambino che rompe il giocattolo si ritrova con la carcassa del giocattolo e senza più il giocattolo. In realtà so però che il merito principale del mio salvataggio va riconosciuto a un assioma fondamentale che posi anni prima, nel momento della formazione, quando abbattevo i comuni tabù, limiti e paletti per porne di personali.

Ragionai del suicidio nei seguenti termini: “per quanto schifo possa fare un periodo della mia vita, per quanto profonda e terribile possa apparire una crisi, il principio di Natura è infallibile e inconfutabile, seguiranno prima o dopo altri momenti luminosi e felici che vale la pena di attendere. Per quanto curioso possa essere conoscere l’eventuale natura della morte, per quanta smania possa avere di rispondere ai quesiti escatologici, il sempre infallibile principio di Natura mi insegna che si tratta solo di attendere il naturale corso degli eventi”.

La mia riflessione implica la connotazione dell’atto di suicidarsi come uno fra rari e quasi introvabili fenomeni che si possano legittimamente definire “contro Natura”.