Un irriverente motteggiatore di cui non ricordo il nome, sosteneva che la filosofia nasce da una cattiva digestione e recentemente mi è toccato di constatare come questa originale teoria non sia del tutto priva di fondamento. Qualche sera fa dovevo aver cenato piuttosto pesante perché quella notte feci un sogno spaventoso, di un realismo schiacciante ricco di particolari e di coerenze fisiche e sensoriali assolutamente degne del mondo reale.

Ero in montagna, probabilmente ripescavo tra i miei ricordi dolomitici e stavo camminando lungo un sentiero poco impegnativo in una splendida giornata di inizio estate, tra i rododendri in fiore e i fischi delle marmotte, nessuna minaccia se non la terribile parete alla mia destra che sembrava perdersi in un'infinita altezza di canaloni e nevai ghiacciati. Avevo preso le mie informazioni meteo e tutte le possibili precauzioni quindi mi sentivo sicuro, quando improvvisamente un boato, uno schianto ed esattamente sopra la mia testa un immenso fronte di neve, ghiaccio e rocce si stacca dalle parete e precipita verso di me. Mi resi conto immediatamente di non avere scampo, anche se mi fossi accucciato dietro quel masso o fossi riuscito a raggiungere quella grotticella sarei rimasto sepolto vivo sotto milioni di metri cubi di detriti perché le dimensioni della rovina erano così grandi da non lasciare scampo. Poi, il tempo iniziò a rallentare e la terribile slavina sembrò frenare la sua caduta ma, come spesso avviene nei sogni più spaventosi, anche i miei movimenti erano rallentati, precludendomi ogni via di fuga, solo il pensiero aveva la sua consueta veloce frenesia.

Ricordo perfettamente come più che il panico e l'angoscia, a sconvolgermi fosse l'assurdità di ciò che mi toccava subire perché, ne ero certo, io non meritavo quello che mi stava accadendo. Ero un buon uomo, magari non un filantropo, però avevo affetti, compiti, responsabilità inoltre altri uomini innocenti dipendevano da me... insomma una solenne ingiustizia di cui ero vittima e non avevo scampo: la mia esistenza, il mio divenire doveva essere distrutto, tornare al nulla da cui era venuto perché così era necessario come se io e quella montagna, rovinando l'una sull'altro, dovessimo espiare una colpa tremenda secondo il decreto del tempo.

Un attimo prima di venire investito da un gigantesco larice che la slavina trascinava con sé, ebbi appena il tempo di pensare a quel "decreto del tempo"... dove lo avevo già sentito? ... poi mi sono svegliato, non con l'orrore addosso ma con l'ansia di trovare nella memoria quel "decreto del tempo". Dopo essermi ripreso dallo spavento la mia mente si fece lucida e ricordai di avere sognato quel frammento di sapienza che ci è giunto dall'apice della filosofia greca: avevo vissuto in sogno il frammento di Anassimandro, il filosofo di Mileto studiato al liceo tanti anni prima. Probabilmente, allora, senza comprenderlo pienamente, incamerai nella memoria che quel concetto, così astratto e così terribile, si era acquattato in qualche anfratto della mente e balzava fuori ogni qualvolta gli passava davanti qualche grossolana ingiustizia e soprattutto quando si trovava di fronte allo scandalo della sofferenza degli innocenti.

Perché la ragione non può affrontare una tale assurdità, si eclissa e lascia il campo a quella che mi è sempre parsa l'unica, terribile risposta alla domanda insopprimibile: da dove viene il male, l'ingiustizia assoluta? E soprattutto perché? Forse che, come dice Calderon de la Barca, "il delitto più grande dell'uomo è l’essere nato"? Naturalmente non riuscivo più a riprendere sonno e come faceva più di venticinque secoli fa quel filosofo nelle lunghe notti stellate dell'Anatolia, pensai.

La filosofia, fin dalle sue origini, ha volato in spirali sempre più strette attorno al problema del male, fino a bruciarsi le ali e anche la Fede, come ben sa Dostojevskj, corre questo rischio. Ma arriva, dalle gelide altezze della sapienza greca, Anassimandro, e nel suo unico frammento giunto fino a noi, ci dà la sua tremenda risposta: "Le cose di fuori da cui è il nascimento alle cose che sono, peraltro, sono quelle verso cui si sviluppa anche la loro rovina, secondo ciò che deve essere: le cose che sono, infatti, subiscono l'una dall'altra punizione e vendetta per la loro colpa, secondo il decreto del Tempo". Terribile.

Ci rendiamo pienamente conto del livello di questo pensiero? Da un lato il logos, per la prima volta, tenta di rappresentare l'irrappresentabile, ha la tracotanza di pronunciare l'indicibile dall'altro, sempre per la prima volta, l'essere come categoria suprema del pensiero, che definisce le cose che sono in quanto esistenti, entra nel discorso di un sapiente a indicare l'illusorio, l'empio.

Da qui l'idea tutta greca del male come inevitabile, consustanziale correlato all'esistenza di tutte le cose in quanto intrinseca punizione del loro peccato originale, quello di esistere. Allora, paradossalmente, questo pensiero mi acquieta e soffoca quell'inutile conato di rabbia, di ribellione che mi coglie sempre di fronte all'ingiustizia perché una tale prospettiva giustifica la distruzione e il dolore che gli enti infliggono ciecamente gli uni agli altri come necessario, affinché essi possano espiare la colpa di esistere separati, come sostiene Anassimandro, da quelle indefinite "cose di fuori" da cui però hanno origine e che qui per la prima volta vengono contrapposte a ciò che, con colpa, esiste.

Come non intravedere una simile sentenza del fato nell'assurdo susseguirsi di gratuite atrocità di cui è costellata non solo la storia ma anche il nostro vivere quotidiano? Quel mio sogno così reale potrebbe un giorno avverarsi per me, anzi, a pensarci bene si avvererà di sicuro e quella immensa frana, come tale o sotto forma di un altro incidente o di una qualsiasi malattia mi travolgerà e io, come ora, penserò anche ad Anassimandro e alla sua terribile sentenza. Anche, ma non solo. Perché nel sogno, su quelle montagne, prima di venire travolto dalla frana, vivevo un'esperienza di gioia immensa, appagante, immerso come ero nella bellezza, nella luce, e traboccavo di gratitudine per essere stato invitato a quel banchetto di delizie e quella stessa gioia ho provato nella vita reale ogni qualvolta ho amato, ho desiderato e conquistato un attimo in cui il cuore spumeggia vasto nella pienezza.

E su questa soglia fatale arriva un altro titano, vissuto non nella luce abbagliante dell'Egeo ma sotto i cieli nebbiosi d'Europa, a raccogliere la sfida del filosofo di Mileto, quel Friedrich Nietzsche che, nel grande Meriggio della sua vita, ha esclamato di fronte a quella terribile sentenza: "SÌ". In nome di quei momenti di gioia mille volte "SÌ".

Anche io, che nella mia semplicità vivo e penso a distanze siderali da quei sapienti, ricordo bene come in quei rari attimi di esaltazione abbia gridato "SÌ", per un momento come questo vale la pena di vivere tutta la vita vissuta e sofferta fino ad ora e abbia quasi desiderato morire in quell'istante per fissare nell'eternità tale gioia.

Poi la solida saggezza del corpo ha preso il timone sulle burrasche della mente e mi ha condotto al sicuro attraverso il golfo placido di un sonno profondo fino agli approdi del mattino.