Discendo da donne che sempre hanno coltivato la devozione come parte imprescindibile del vivere e, pur non avendo io condiviso questa visione del mondo, la custodisco come un tesoro inestimabile e sono loro molto grata perché il ricordo di quella devozione che ho respirato e che si mescola con la stupita felicità dell’infanzia mi ha permesso di conservare un’anima bambina e mi dà conforto, direi anche gioia, ritrovare nella memoria quella sicura serenità che veniva alle mie donne dalla certezza della fede. Mi sento molto arricchita dal poter ammantare gli eventi di sacralità, dal poter scandire il tempo secondo un andamento rituale poiché il rito è prezioso per conservare la nostra identità umana e culturale.

Prima doveva passare la quaresima, perché, si sa “non c’è rosa senza spine”. Era così che veniva spiegato in modo essenziale, senza alcuna possibilità di replica, il significato del tempo penitenziale. Aveva inizio il mercoledì delle ceneri e per le donne di casa mia assumeva un valore ed una sacralità particolarmente sentiti. Era come sottolineare che in quel giorno si doveva iniziare a prendersi cura dello spirito più che del corpo.

Il periodo delle grandi manovre nella cucina del carnevale era per ora terminato, era d’obbligo una pausa di raccoglimento. Un pasto frugale preludeva all’uscita per andare in chiesa dove si celebrava la prima funzione quaresimale: il capo dei fedeli veniva cosparso di cenere mentre risuonavano misteriose parole latine. Noi bambini non ne sapevamo certo il significato e forse nemmeno molti degli adulti, ma proprio per questo la cerimonia assumeva i caratteri di un gioco in cui il prete con i suoi preziosi paramenti ci rendeva partecipi di una magia. Abbassavamo la testa con un misto di timore ed eccitazione come se la potente mano di uno stregone stesse per far cadere sul nostro capo chissà quale polvere miracolosa. Sapevamo che bisognava mantenere un atteggiamento serio, rispettoso e contrito; guardavamo gli adulti e “giocavamo” ad assumere le stesse espressioni. Ma non potevamo esimerci dall’immaginare che quelle ceneri fossero un miscuglio di ali di pipistrello, code di rospo e sangue di drago.

Il tempo della quaresima era anche segnato da un particolare menù, un connubio tra cibi di magro e digiuno. In esso avevano un posto di rilievo le cosiddette “minestre vedove”. Non c’era una ricetta unica per prepararle, ma ne facevano parte quei primi piatti che si caratterizzavano per una certa povertà di ingredienti come pure per il tempo breve di preparazione, cosa piuttosto rara nella cucina d’un tempo.

Si intensificava il consumo di pesce acquistato direttamente dal pescivendolo che girava per le strade con la cassetta della mercanzia issata sulla bicicletta e seguito da gatti in cerca di avanzi.

I dolci venivano drasticamente ridotti: erano permesse, anche se con parsimonia, le pastarelle di magro, un’altra specialità che vedeva la luce solo una volta all’anno. Impastate con zucchero, farina, vino bianco e semini di anice, senza uovo e senza burro avevano la forma di piccoli rombi, di consistenza molto dura e spolverate di zucchero.

Mi consideravo molto fortunata perché in alcune famiglie il divieto riguardava tutti i quaranta giorni prima della Pasqua, senza eccezione alcuna. Ricordo benissimo di aver soccorso amiche e compagne di scuola con forniture clandestine di biscotti in cambio di figurine della Bella addormentata.

Nei venerdì di quaresima si pranzava presto e in modo essenziale perché il primissimo pomeriggio era dedicato ad una passeggiata fuori porta. Si andava a piedi o in bicicletta al Cristo di San Luca, nel quartiere che portava lo stesso nome. In realtà era ben più di una passeggiata. Ci si preparava come per un pellegrinaggio a Santiago de Compostela, ma questo faceva parte di quella ritualità così preziosa, e oggi purtroppo perduta, che fissava gli eventi nella memoria e nel cuore.

La preparazione della Pasqua era lunga, laboriosa e coinvolgeva l’intera famiglia. Aveva inizio la domenica precedente, la “domenica delle palme”, ed erano mobilitati anche gli uomini di casa che guidavano l’auto per andare dai parenti in campagna. Solo lì avremmo trovato le uova fresche e con il guscio bianco per la benedizione del sabato santo.

Ogni volta la zia Veronica, che aveva selezionato con cura le più belle, ne faceva notare la perfezione, la levigatezza, ci indicava pesino le singole galline autrici di cotanta meraviglia, e non mancava mai di sottolineare la qualità e i meriti del cibo che lei preparava per loro.

Tutte le donne partecipavano poi all’incartatura nelle pagine dei giornali vecchi ed alla deposizione nel grande cesto che ogni anno portavamo con noi, sempre lo stesso perché il rituale si ripetesse senza innovazione alcuna.

Era poi la volta della sistemazione del prezioso carico sull’automobile. In genere a fare da autista era mio padre che assecondava con infinita pazienza le varie prove per trovare la collocazione più sicura, ma ricordo anche qualche viaggio sulla Balilla guidata dal nonno Enrico assai meno paziente e quindi sollevato dall’incarico, con sua grande gioia, per drastica ed unanime decisione del gineceo riunito.

In una scatola a parte, una vecchia scatola da scarpe, venivano sistemate le uova che servivano per fare la sfoglia. Quelle erano le più importanti, almeno per mia nonna, che se ne occupava con cura particolare. Una sorta di misterioso passaggio di consegne, accompagnato da parole pronunciate a bassa voce e sguardi d’intesa, avveniva tra le due matriarche: dalle mani della zia Veronica a quelle della nonna Santuzza, quasi che tra loro ci fosse un segreto codice, una reliquia scambiata tra due ministre del rito che sanciva una santa alleanza.

Entrambe sapevano che la sfoglia per la tavola pasquale doveva essere color dell’oro, come il sole di primavera: non era consentito errore. Il tuorlo di quelle uova doveva essere rosso e sodo. Solo così la sacralità del rituale di passaggio a nuova vita sarebbe stata assicurata.

Credo che le parole scambiate dalle due donne fossero una sorta di gioco scaramantico che esorcizzava la catastrofica eventualità che le uova non fossero del colore giusto.

Il pomeriggio del giovedì santo era dedicato interamente alla cottura delle uova che, una volta sode, venivano dipinte. Rosso, blu, verde e giallo erano i colori che si davano ai gusci prima di arricchirli con le decalcomanie di pulcini e coniglietti o, in qualche raro caso, di dipingerle a mano. I colori venivano acquistati nella vecchia drogheria del centro e ricordo benissimo le bustine di carta contenenti i “colori per dolci” che venivano rinnovati annualmente perché aderissero meglio e fossero di tonalità più intensa.

C’era sempre una grande attesa per vedere se le uova “prendevano” cioè se il colore risultava omogeneo e deciso oppure sbiadito e poco uniforme, ma questo era problema degli adulti: per me bambina la cosa veramente importante era poter essere ammessa alla cucina delle donne e partecipare ad un rito che era di gran lunga più coinvolgente di qualunque funzione religiosa.

Una volta completata la decorazione le uova venivano messe nel cesto con il manico lungo sul quale si annodavano nastri bianchi o gialli: nessun altro colore era ammesso. Sul fondo del cesto un grande tovagliolo candido, fresco di bucato, con il quale le uova venivano anche coperte per percorrere la strada fino alla basilica di Santa Maria in Vado dove venivano benedette nel pomeriggio del sabato santo. Allora le uova sarebbero diventate veramente il simbolo della rinascita, una sorta di uovo originario mangiando il quale si ritrovava una nuova vita come le piante a primavera.

Questo era il senso profondo della tradizione, così mi era stato spiegato, ma ciò che a me bambina stava davvero a cuore era che l’acqua benedetta aspersa sulle mie bellissime uova non facesse stingere i colori ottenuti con tanto lavoro. E ogni anno tutto si ripeteva, compresa la mia trepidazione ad ogni movimento dell’aspersorio brandito dall’ignaro ministro di Dio.

Le uova venivano in parte distribuite ad amici e parenti in segno di augurio; allora l’uovo di cioccolato era cosa non comune. Quelle restanti venivano sistemate in un cestino di pizzo inamidato, anzi indurito con acqua e zucchero, pronto per essere posto sulla tavola che veniva in anticipo apparecchiata per la prima colazione della mattina di Pasqua.

La deposizione delle uova benedette sulla mensa poteva compiersi soltanto dopo la mezzanotte quando le campane tornavano a suonare e tutti dovevamo bagnarci gli occhi con acqua pura: un gesto che solo da grande ho compreso in tutta la sua importanza simbolica di passaggio dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita.

La tavola di Pasqua era rigorosamente apparecchiata di bianco. Erano ammesse due note di colore: i fiori di lillà raccolti dall’albero nel giardino, se la data della Pasqua era tale da garantirne la fioritura o gli iris gialli cresciuti nell’orto di un’amica di mia nonna che coltivava i fiori da vendere sulla via Coperta. Sempre però venivano messi in un vaso di vetro trasparente per non alterare il candore diffuso.

Per la prima colazione era previsto un menù immutabile ed anche la sequenza degli alimenti era rigidamente rispettata: uova benedette, acqua, ciambella e caffè di cioccolata. Sulla tovaglia candida veniva disposto il servizio bianco con la riga d’oro che solo in quella occasione usciva dalla cristalliera del tinello. Ne faceva parte il grande bricco dal quale il caffè di cioccolata fumante veniva versato nelle larghe tazze. E c’era una curiosa zuccheriera di forma vagamente ottagonale che sottolineava lo stile un po’ da “chinoiserie”: per questo, credo, lo si chiamava “servizio di bambù”.

Merletti finissimi estratti dall’armadio “verde” (cosiddetto perché in stile veneziano) della biancheria e perfettamente inamidati erano posti sotto le stoviglie a sottolineare l’eccezionalità dell’avvenimento. La saliera di cristallo era pronta: il piccolissimo cucchiaio d’argento affondato nel suo bianco contenuto sarebbe servito a mettere il sale sulle uova benedette già sistemate al centro del tavolo. Bisognava mangiarle a digiuno e salarle: un gesto quasi battesimale a ricordare il passaggio a nuova vita. E non a caso subito dopo bisognava bere l’acqua pura e purificatrice contenuta nella caraffa “di vetro sottile” anch’essa in tavola sul piatto d’argento. Questa era la parte d’obbligo, non particolarmente gradita dal punto di vista alimentare ma certo misteriosa e magica nel suo aspetto rituale.

Il guscio delle uova mangiate veniva ridotto a piccoli pezzi e bruciato in un piatto di metallo insieme alle foglie d’ulivo dell’anno precedente. I residui e la cenere venivano dati alla terra del giardino perché ne fosse benedetta e resa feconda.

La parte più attesa e divertente era sicuramente quella che seguiva: caffè di cioccolata e ciambella, il dolce di Pasqua prima dell’avvento della colomba che gradualmente l’ha sostituita anche nei menù di tradizione ferrarese. Il nome dialettale “brazadela” sembra rimandare al fatto che la sua forma ad anello permetteva di infilarne più d’uno nel braccio (braz) per distribuirlo a convitati numerosi durante feste o banchetti.

Quella del caffè di cioccolata era una ricetta antica che rimandava al tempo in cui caffè e cacao erano “cibo degli dei”: una bevanda che, a differenza della più comune cioccolata in tazza preparata con il latte, aveva colore, aroma e consistenza tali da suscitare sensazioni inebrianti specie quando veniva arricchita con polvere di spezie. Ecco la ricetta per preparare il caffè di cioccolata.

Ingredienti:
cacao amaro in polvere
fecola di patate
zucchero bianco e caffè
Preparazione:
Preparare in anticipo il caffè nero; diluirlo con acqua e metterlo poi a scaldare “al momento”. Sciogliere in una tazza cacao e zucchero versandovi caffè nero caldo evitando la formazione di grumi. In una tazzina sciogliere la fecola (un cucchiaio circa) con acqua fredda. Versare cacao e zucchero nel caffè diluito con acqua già posto a scaldare sul fuoco. Quando il tutto alza il bollore aggiungere la fecola ed eventualmente un po’ di caffè nero. Aggiustare se necessario la consistenza e la quantità di zucchero. Servire bollente dall’apposito bricco. È il cuore che si riscalda sorseggiando questa leccornia!

A cura di Save the Words®