Che Filomena e Pompeo avrebbero finito per sposarsi, se lo aspettavano tutti in paese. Non che fosse un grande amore, anzi, soprattutto da parte di lei forse di amore vero non ce n’era mai stato. Ma erano nati e cresciuti nello stesso palazzo in due famiglie legate da vincoli di stretta amicizia, e Pompeo aveva cominciato a sbirciare Filomena dalla finestra dirimpetto sin da quando lei, ragazzina, si lavava nella tinozza in cucina. E fin da ragazzini, per lui era diventato un moto naturale quello di prenderle le mani o addirittura di abbracciarla, come si fa con una sorella. Ma, appunto, da parte di Pompeo tali abbracci non erano mai stati troppo fraterni - contenevano fin dall’inizio una forte carica di padronanza e di desiderio.

Si racconta in paese che a Filomena la cosa non piacesse troppo, anche perché, a causa di quella familiarità di Pompeo, lei non veniva presa in considerazione dagli altri ragazzi. Fin dall’età di tredici anni, quando i suoi seni cominciavano appena a sbocciare, e lui cominciava ad allungare più che mai le mani, lei aveva cominciato a gridargli quella sua frase: “Tu sei la mia croce!” - una frase che doveva poi accompagnarli per tutta la vita, attraverso le più svariate vicissitudini.

E in effetti era proprio come una croce. Il destino le aveva messo Pompeo quasi in casa fin dalla nascita, e non c’era modo di scrollarselo di dosso. E poi se almeno Pompeo fosse stato un tipo a posto! Invece, fin dalla sua prima giovinezza, cominciarono a palesarsi quelle che sarebbero state poi le sue caratteristiche più salienti: poca voglia di lavorare e nessuna disciplina, il tutto accompagnato da un fisico gracile e da un carattere estroso, romantico, sognatore. A proposito di sogni: come unica dote Pompeo possedeva quella di avere dei sogni lunghi, fantastici, un po’ magici - con i quali, diceva lui, poteva prevedere i numeri del lotto e l’immediato futuro. Al lotto però lui non vinse mai, e quei pochi soldi che si ritrovava in tasca se li perdeva tutti al gioco: il gioco, - ahimè! - era la sua passione, e se almeno avesse vinto una sola volta! E che un tipo così lo dovesse sposare proprio Filomena, lei che con quel carattere indipendente teneva testa al vecchio padre e a tutti i fratelli… ! Questo accoppiamento era davvero uno strano gioco del destino. Insomma, da una parte erano predestinati a sposarsi, e dall’altra erano due tipi completamente diversi. I litigi tra i due sposi erano frequenti - litigi lunghi e feroci, in cui si sentiva soprattutto la voce della Filomena fendere l’aria in frasi rapide e piene d’improperi - alternate a quel grido famoso: “tu sei la mia croce!”. “Ma insomma, lei un po’ di bene gliene deve pur vole’!” - dicevano le comari che non riuscivano a capacitarsi bene della situazione - “altrimenti non l’avrebbe sposato... E litigano, litigano, lei lo cuce da diritto e da rovescio, ma se lo tiene in casa... Insomma, un po’ di bene lei gliene deve pur vole’, no?”

Filomena era quella che manteneva la famiglia. Lavorava dai fratelli, che erano pecorai da molte generazioni. Come gli altri pecorai di San Piero e Sant’Ilario, loro portavano le pecore a pascolare nelle colline d’attorno, e verso monte Perone. Vendevano poi stagionalmente alcune bestie, la lana, il latte, e con questo tiravano avanti. Filomena imparò fin da piccola a fare materassi di lana e divenne la materassaia più brava del paese. Lavorava tanto, e come gli altri in famiglia si alzava alle prime luci dell’alba per cominciare il suo lavoro. Era quella che rifaceva i materassi a tutti quanti in paese: allora si vedeva sull’uscio di casa, a gambe incrociate tra due montagne di lana, una di qua e una di là, che batteva con bastonate rapide e violente un po’ di lana presa dalla montagnola di lana vecchia e dura per spostarla poi verso quella più leggera e ariosa della lana già rifatta. Filomena era diventata famosa anche per le sue ricottine: aveva una mano speciale per farle, le riuscivano sempre così fresche e appetitose da diventare proverbiali. Da quella ragazzina agile e snella che era, si era trasformata in una donna forte e robusta. Anche il suo viso si era indurito, ma non aveva perso in bellezza, e gli occhi brillavano come lame, soprattutto quando rideva o quando era in collera. Lui, Pompeo, raccontava di lavorare nell’orto, e forse qualche volta ci lavorava davvero. Ma lavorare, come abbiamo detto, non era davvero il suo lato più forte. Era però bravo a farle fare figli, e in quei primi tre anni di matrimonio la Filomena gli diede tre femmine. “Insomma, un po’ di bene lei gliene deve pur vole’!” - ripetevano le comari del paese - “altrimenti non gli farebbe fa’ così tanti figlioli, a quello lì!”.

Ci fu un problema a proposito dei nomi da dare alle figlie. Pompeo aveva avuto un sogno proprio prima che Filomena partorisse la prima volta: nel sogno le sue tre figlie si chiamavano Cozia, Pozia e Trimeddio. Proprio così, i nomi gli erano stati dati ben chiari nel sogno, e naturalmente, diceva Pompeo, le sue figlie dovevano chiamarsi così: Cozia, Pozia e Trimeddio. E non ci furono versi. Le strilla di Filomena non servirono a nulla. Intervenne il prete di persona, dicendo che insomma quelli lì non erano nomi cristiani, e che non si potevano dare per battesimo... Belle parole, ma Pompeo fu irremovibile. Così aveva sognato, e così aveva da essere. E la prima figlia si chiamò Cozia, la seconda Pozia, e la terza Trimeddio. Filomena però – furba com’era - fu pronta a correre ai ripari: Cozia aveva subito cominciato a chiamarla Cosina, poi Cosetta, e dopo un po’ di tempo tutti la chiamavano Cosetta e del nome Cozia non si ricordò più nessuno. Pozia divenne Poziella, e da Poziella venne fuori il nome definitivo di Lella. La terza figlia, Trimeddio, divenne Rosalba, e nessuno sa bene il perché. In fondo, quello di cambiarsi il nome all’isola non era una cosa strana. Il vero nome di Filomena, per esempio, era Rosa, che poi era diventato Santa, che infine, chissà perché, si era tramutato in Filomena.

La nascita di tutte queste figlie pesò sull’economia familiare, anche perché la Filomena ad ogni gravidanza doveva interrompere il lavoro. Poi erano tempi duri, c’era poco lavoro, e in mancanza d’altro, gli uomini di San Piero e di Sant’Ilario avevano cominciato a lavorare come marinai, o addirittura in miniera, giù a Rio Marina. Alcuni uomini avevano cominciato addirittura a emigrare: se ne andavano lontano, in continente, o perfino in posti sperduti al di là dell’Italia! Per quegli uomini di lì, nati contadini e pastori, non avvezzi al mare e alle lunghe assenze da casa, la vita era diventata inaspettatamente dura e triste. Erano però, quello del marinaio e quello del minatore, lavori che almeno davano da vivere. E Pompeo? Del lavoro in miniera nemmeno a pensarci, ma quello di marinaio poteva ben essere indicato per un sognatore come lui. Filomena spinse più volte il marito a trovarsi un posto di lavoro in una nave. Era lei che doveva trovargli il posto, ricordargli la data di partenza e come arrivare al porto d’imbarco. Lui non resisteva più di qualche settimana - scappava quando la nave si fermava al primo porto, oppure lo mandavano via perché non lavorava. Così ogni volta compariva di nuovo in paese, con il suo sorriso soddisfatto, un berretto a sghimbesce e uno zaino a tracolla: “Sei la mia croce!” lo salutava la Filomena di lontano con un grido, quando lo vedeva comparire per la stradina che da Procchio porta su a San Piero. Per fortuna Filomena e le figlie avevano di che mangiare grazie alle pecore dei fratelli, e in casa c’era per lo meno sempre del latte e del formaggio, e naturalmente le famose ricottine di Filomena - ora anche le figlie avevano imparato a farle! Poi anche con le pecore le cose cominciarono ad andar male. I fratelli dovettero vendere gran parte del gregge ai pastori sardi e la gente del paese non aveva più soldi per comprare formaggio o latte. Intanto, sempre più uomini lasciavano il paese cercando lavoro in terre lontane. Filomena, che era una donna previdente, capiva che le cose sarebbero andate sempre peggio e cominciò a preoccuparsi per l’avvenire delle figliole. Con gli uomini che se ne scappavano dal paese perché non c’era lavoro, non avrebbero nemmeno trovato marito... Cosa fare?

A detta di popolo, l’avventura di Filomena cominciò una mattina in cui andò nell’osteria d’Umberto a comprare il vino, come faceva sempre. Il vino le piaceva e se lo andava a scegliere di persona, facendosi dare un assaggino prima di pagare. In osteria da Umberto c’erano sempre uomini che bevevano e giocavano a carte, e quel giorno c’era più gente del solito. Non giocavano a carte, gli uomini, ma parlavano animatamente tutti raggruppati intorno a un unico tavolo. E mentre Umberto le infiascava il vino, Filomena incuriosita tese l’orecchio a quella discussione. Uno teneva banco, raccontando cose che sembravano appassionare tutti. Era Tonino il Bavero, che era tornato da poco dall’America e da quell’essere insignificante che era prima di partire, era diventato per questo una personalità di rilievo nel paese. Raccontava ora con la sua voce chioccia che lì a Brucchlin, dove era stato lui, c’era lavoro per tutti e come si fosse pagati bene. L’uomo raccontava poi degli orari di lavoro, dei sindacati che difendevano gli operai, raccontava delle donne che erano tutte belle e avevano le gonne corte che si vedevano le gambe. Come fossero le case e i mobili, e come a Brucchlin ci fossero già dei paesani che ti aiutavano quando arrivavi, così che non c’era neppure il problema della parlata straniera.

Gli altri lo riempivano di domande, volevano sapere quanto costasse il biglietto, quanto durasse il viaggio, quanto costasse un appartamento in affitto, ed era un alternarsi di uh! ah!, d’emozioni forti e di voci rese acute dall’eccitazione. Tutti erano eccitati all’idea del viaggio, soprattutto - pensò Filomena che aveva ascoltato ogni parola - dall’idea di andarsene dal paese, lasciandosi dietro San Piero e la miseria delle loro famiglie. “Mi venne una tal rabbia a sentirli parlare così, che me ne dovetti scappar via!” - raccontò in seguito la Filomena – “e quella rabbia me la portai in corpo per tutto il giorno, e la notte non potevo dormire per quella rabbia assurda che mi aveva preso. La rabbia era contro quegli omacci, quei maschi d’osteria pieni di boria. Perché erano loro, i signori uomini, che avevano il diritto di decidere di lasciare la casa, correre sul mare e andarsene in America, vedere nuovi mondi, fare soldi, e delle loro donne, delle mogli lasciate a invecchiare da sole al paese, a quegli uomini all’osteria non gliene importava neppure un fico! E perché le donne no, perdio?” - si chiese a voce alta la Filomena camminando su e giù per la cucina. Pompeo, che dormiva da solo nella stanzetta vicina, si svegliò a quel trambusto ed emise un suono debole di protesta. “Zitto, te!” gli gridò la Filomena, e nel silenzio spaventato che ne seguì, cominciò a rimuginare un pensiero spavaldo.

La mamma e le tre figlie dormivano insieme dietro la cucina e ogni sera, prima di addormentarsi, chiacchieravano a lungo. Erano ore molto belle, forse la parte più bella del giorno. D’inverno, le tre bimbe si stringevano l’una all’altra per riscaldarsi, mentre la mamma, nel lettino a fianco, raccontava loro qualcosa. Quella notte però la Filomena a letto non ci voleva andare, passeggiava su e giù per la stanzetta, e le tre bimbe la seguivano spaventate con lo sguardo, senza dir niente. Come raccontò in seguito la Cosetta, d’un tratto la mamma era venuta a letto, ma vestita, e senza spegnere la candela. Poi si era messa a sedere sulla sponda del letto rivolgendosi verso di loro e cominciando a parlare. Parlava di cose strane, che loro agli inizi non riuscivano a capire: parlava dell’America, che doveva essere un posto lontano lontano, poi parlava di come arrivarci, e cioè di un viaggio lungo sul mare, un viaggio che lei e le tre figlie sarebbero certamente state in grado di compiere da sole, in barba a tutti quegli omacci dell’osteria.

Lì in America avrebbero lavorato tutte, e si sarebbero fatte una casa grande e riscaldata, con alberi di melo che crescevano proprio in giardino, e in cucina uova e pane in quantità, e perfino le bistecche le avrebbero potute mangiare due volte alla settimana... Paura del viaggio, del mare? E perché mai? Solo quei baggiani d’uomini avevano paura di un po’ di mare... E le figlie in America avrebbero trovato un buon partito e avrebbero potuto vivere il resto della loro vita senza pensare più alla fame... “Ma mamma, di che parli?” Poi, sempre a detta di Cosetta, la Filomena si era zittita d’improvviso, e aveva emesso un grido che le aveva fatte spaventare tutte: “Ma come si fa a mettere insieme i soldi per il viaggio? ...Come si fa?” Poi aveva cominciato a far conti… “Vediamo un po’, quanto ha detto quel salame di Tonino il Bavero? Diciamo però che le bimbe pagano la metà - però sono tre, allora dunque…”. Filomena, che non era mai stata brava a scuola, ci mise un bel po’ a far il conto, e dovette rimanerne spaventata: era una cifra enorme, irraggiungibile… Come fare? “Sapete, bimbe, cosa si fa? Cominciamo a vende’ le ricottine, che sono già famose in tutta l’isola! Le faremo e le venderemo in grande stile. Il latte me lo faccio da’ dai mi’ fratelli, guai a loro se non me lo danno, e poi andiamo a vende’ le ricotte nei paesi vicini, anche a Procchio, a Marina e Marciana... Vediamo un po’, una ricotta fresca la si può mette’, diciamo, venti centesimi... e se io vendo dieci ricotte al giorno, allora in un mese, ... diciamo ...”.

Filomena non riuscì a vedere la fine di tutti quei conti. Ma fatto sta, che da quel giorno cominciò davvero a vendere ricottine. Le facevano nella casa dei suoi fratelli, alzandosi tutte e quattro alle cinque del mattino. Un’ora dopo lasciavano quella loro officina e partivano, ognuna con un tagliere sulla testa colmo di ricottine. A passi veloci, si facevano ogni giorno il giro delle case del paese, poi arrivavano fino a Sant’Ilario, cominciando dalla casa del farmacista. Infine se ne scendevano giù per la stradina che va verso Procchio e Marciana, fino a Carpani, dove arrivavano dopo due ore di cammino. Non avevano scarpe, ma per scarpe usavano, quando si dovevano fare viaggi lunghi, dei pezzi di copertone fasciato di pannella, e anche così dopo quattro ore di cammino i piedi sanguinavano. Ma le donne tenevano duro, al ritorno mettevano i piedi in una catinella piena di acqua di malva, e cominciavano il loro lavoro di materassaie.

Così ogni giorno. Pompeo si ammoscò di qualcosa, e una volta provò a chiedere la ragione di tutto quel trambusto. Ma le quattro donne di casa non gli dettero mai una risposta chiara. I soldi delle ricottine, Filomena li teneva dentro un sacco rosso appeso in cucina, e solo la Cosetta sapeva dov’era. Ci vollero quasi due anni, raccontano le vecchie nel paese con ammirazione. Due anni, nei quali Filomena e figlie non toccarono mai i soldi del sacco rosso, nemmeno quando sentivano i morsi della fame.

Fu quella, per loro, una stagione felice - a dispetto della miseria e della fame. Si sentivano saldate l’una all’altra da un patto segreto e eccitante, e questo bastava a riempire le loro giornate. Quando qualcuna delle vicine faceva domande sul perché di tutte quelle ricotte, loro rispondevano con vaghi cenni o mezze parole - ma tra loro si guardavano negli occhi con un ammiccare furbesco e con un sorriso felice. A casa invece potevano sfogarsi, soprattutto a sera, quando si buttavano sul letto stanche morte. Allora cominciavano a parlare tutte insieme, e si raccontavano di quante ricottine avevano venduto e a chi - il tutto inframezzato da risate rumorose e lunghe. Poi la Cosetta faceva i conti dei soldi, e le donne ebbero allora la sensazione di custodire un tesoro immenso. Infine si mettevano a letto, e ora che si era d’inverno, Filomena metteva sotto le coperte del loro letto il grosso cesto di vimini con appeso lo scaldino acceso, e spesso si metteva anche lei a letto con loro, raggomitolandosi con le più piccine, la Lella e la Rosalba. Quello era il tempo di un parlottare più sommesso e sognante. Una dopo l’altra, le bimbe parlavano della loro vita futura in America, facendo lunghe liste di tutto quello che si sarebbero comprato una volta arrivate laggiù. Filomena, da buona mamma che era, le lasciava dire anche le ingenuità più grandi, interrompendole solo quando aveva l’impressione che quelle si facessero illusioni troppo grandi.

Si dice che nessuno fosse al corrente dell’idea del viaggio. Ma le donne di San Piero sospettavano che qualcosa di strano bollisse in pentola - anche se non riuscivano a capire cosa. I sospetti si acuirono nel giorno della processione, il venerdì santo. Come tutti sanno, in tale giorno si svolge la duplice processione: quella che nasce dalla chiesa di Sant’Ilario, e che, con in testa il prete e tutti i vessilli sacri del paese, scende giù fino alla chiesa San Piero; mentre quelli di San Piero scendono in senso contrario, anche loro guidati dal prete e dal quadro del Redentore, fino alla chiesa di Sant’Ilario. E si fa un gran cantare nenie sacre, che sono belle e dolci, e molte donne si mettono a piangere di commozione. La Filomena non era una di queste, proprio no, ma quella volta invece sì: quando il corteo cominciò a snodarsi lento tra i cipressi del viale verso la Madonnina, e il prete cominciò a intonare “Piangi... piangi... ”, la Filomena cominciò a piangere davvero, a dirotto. Le tre figlie le fecero coro, stringendosi a lei. Le altre donne, continuando a cantare, cominciarono ad ammiccarsi quello spettacolo inconsueto - forse qualche beghina ne fu contenta, pensando a un tardivo sentimento di fede cristiana della Filomena. Ma quelle che la conoscevano meglio avevano una punta di malizia e di sorpresa nei loro ammicchi - si domandavano cosa succedesse nella vita di Filomena e delle figliole, e da quel giorno la madre divenne una sorvegliata speciale. Filomena e le figlie riuscirono però a farla franca. Riuscirono a lasciare il paese senza farsi vedere, a notte fonda, piene di borse e fagotti, e raggiunsero a piedi Porto Longone, e da qui una barca a vela le portò fino a Piombino. Di lì, presero il treno per Genova, dove le aspettava la grossa nave diretta in America. Pompeo non era a casa, - avevano aspettato proprio quel giorno - e Filomena, che aveva imparato un po’ a scrivere, gli lasciò una lettera. Di lettere, Filomena ne scrisse una anche al prete. In tutte e due le lettere diceva che non si preoccupassero per lei, che sarebbe stata felice nella nuova terra, che avrebbe scritto appena possibile, e nella lettera a Pompeo aggiungeva che lui non doveva cercarla più.

Figurarsi! Fu una cosa che suscitò scalpore: una donna sola con tre bambine in viaggio per l’America. Erano particolarmente gli uomini che disapprovavano quel viaggio - “quella mamma irresponsabile, e ma come si fa, dico io, a portare tre creature così per il mare?” E concludevano che la cosa sarebbe finita in una disgrazia. Le donne erano rimaste sbalordite alla notizia, e non sapevano bene da che parte stare. Quelle bambine ancora piccole, portate così attraverso l’Oceano, mamma mia! Le cose che sarebbero potute succedere, coi ladri, coi cannibali e le orche marine... Certo però che è una donna da ammirare. Che coraggio! - e forse dalla voce delle donne di San Piero traspariva più meraviglia e ammirazione che rimproveri - il che faceva imbestialire ancor più gli uomini, colpiti nel loro amor proprio.

Qualcuno dice che la Filomena non fosse stata così avventata: che prima di partire avesse scritto a un lontano parente che viveva a Brucchlin, chiedendo che le trovasse lavoro. Qualcun altro dice che lei fece amicizie sulla nave, e in questo modo si fosse procurata un alloggio e un lavoro in una maglieria a Brucchlin. La gente aggiungeva che Filomena era una donna in gamba, che sapeva fare bene non solo il mestiere di materassaia, ma anche quello di preparare ricotta e formaggi, tutte cose che in America le avrebbero assicurato un lavoro sicuro e redditizio. Le male lingue aggiungevano invece che la Filomena, che era ancora una bella donna quando iniziò il viaggio, la fortuna se la conquistò a Brucchlin anche con l’aiuto delle sue rotondità femminili, sia con Tommi Zuppa di Pane, sia con quel paesano che aveva il maglificio, che era un uomo brutto e grasso. La Filomena, da parte sua, non si prese mai la briga di raccontare come trovò casa e lavoro. Ma fatto sta, riuscì in breve tempo a ambientarsi nel nuovo paese, a guadagnarsi bene la vita, e a mandare a scuola le bimbe.

Quello che invece Filomena amava raccontare, erano episodi della sua vita quotidiana in America. Come quando riuscì a comprare delle gonne nuove alle tre figlie, una per ciascuna: se le misero per andare a messa una domenica, e lei rimase a lungo a guardarle dalla finestra, erano gonne di cotone blu a pallini bianchi, tutte e tre uguali - e nel vederle già così grandi che attraversavano la strada le venne da piangere. O come quando si permisero, per la prima volta, una gita in battello nella baia di New York a vedere la Statua della libertà. Era un giorno di pieno sole e la Filomena si accorse per la prima volta che dei ragazzini sbirciavano la Cosetta, e che la Cosetta si mostrava a quegli sguardi gonfiando il piccolo seno, che poi c’era un giovincello col maglioncino rosso che le fece un segno di saluto che la Cosetta, furtivamente, ricambiò con un sorriso largo che le illuminò tutto il volto.

I primi tempi avevano trovato posto in una stanza del retrobottega di Tommi Zuppa di Pane, ma ora vivevano in un appartamentino di ben tre stanze in un quartiere abitato interamente da italiani. C’erano genovesi, napoletani, gente del Friuli e della Sicilia, insomma un po’ di tutto. Era come una città italiana, e infatti la chiamavano Little Italy, che vuol dire Piccola Italia. Ogni famiglia manteneva le proprie abitudini e il proprio dialetto, e all’inizio tutta quella confusione di mondi diversi aveva frastornato le quattro donne. Anche perché vicino a Little Italy c’era un’intera colonia di cinesi, con tutte le scritte in cinese e negozi che vendevano mercanzia cinese - un posto che si chiamava China Town, la Città Cinese. Dopo i primi giorni di sospetto e esitazione, le bimbe furono sopraffatte dal fascino di quel mondo così diverso e cominciarono a passare ore intere a perlustrare i negozietti e le viuzze di China Town. Al di là di China Town c’era poi un quartiere tutto pieno di neri.

Agli inizi anche questi facevano paura alle bimbe, ma ora non più, anche perché ne vedevano tanti a scuola. Il loro appartamentino era al terzo piano di una vecchia casa proprio al limite tra China Town e Little Italy. Dalla finestra guardavano il traffico giù in strada, ammirando le carrozze a cavallo e i bei poliziotti in tenuta, pure a cavallo, la gente che si muoveva rapida da un negozio all’altro; tutti gli uomini avevano dei grandi cappelli neri e le donne degli abiti lunghi molto aderenti. Passavano ore a quella finestra. Ma il momento più bello del giorno era quando andavano a letto. Ora avevano un letto per ciascuna, ma i letti erano così vicini l’uno all’altro, da formare quasi un unico immenso letto a quattro piazze. Soprattutto i primi giorni d’America ebbero tanto da raccontarsi. Filomena in particolare raccontava tutto quello che aveva in mente per le tre figlie, la scuola per la quale si erano comprate scarpe nuove, pensate, ognuna delle bimbe aveva delle proprie scarpe, bianche e nere, e con delle fibbie luccicanti! E poi dovevano anche andare a messa, perché sì, non c’è da discutere, tutti qui fanno così e fate così anche voi, sennò cosa pensano i paesani di Brucchlin, che sono così buoni con noi? Ma lì a letto cominciò anche a dipanarsi un rituale diverso: quello di parlare dell’Elba. Le bimbe avevano un ricordo ancora vivido, e si raccontavano i loro ricordi - le corse nella piazzetta della fontana, le lotte con quelli di Sant’Ilario, i furtarelli dal fornaio, e le gite nelle campagne vicine. Si ricordavano dei grappoli d’uva matura, dei melograni, e dei fichidindia. Cosetta aveva imparato a coglierli, usando una lunga canna con un barattolo di vetro attaccato in cima, si faceva in modo che il ficodindia andasse a finire nel barattolo, poi si dava uno strattone e il fico rimaneva dentro il barattolo. Poi c’era il problema di ripulirlo dalle spine. “Ti ricordi?” cominciava Rosalba…

Insomma, Filomena e le figlie in America vivevano bene. Anche per questo quella notizia dovette arrivare loro come un fulmine a ciel sereno. La notizia era che Pompeo era sbarcato in America e che le stava cercando. Non si sa bene come Pompeo fosse riuscito a sapere il loro recapito, è probabile che qualche paesano di ritorno all’Elba si fosse lasciato sfuggire una frase di troppo. Come fu e come non fu, una sera d’inverno, che c’era una neve così spessa che si poteva appena camminare, le donne sentirono dei colpi all’uscio: “toc! toc!” “Chi è?”- “Sono io, Pompeo, il tuo maritino, apri, bella...” - “Mi sentii casca’ il mondo addosso, quando riconobbi la sua voce!” - raccontava poi la Filomena. “Era sempre il solito, te lo dico io, con quella faccia stralunata da vagabondo. E sorrideva, l’incosciente, come se fosse ritornato proprio ora dal caffè ... Era affamato, infreddolito, si mise a letto e ci rimase tre giorni e dovemmo curarlo come un malato. Le bimbe più piccole se lo ricordavano ancora, e piansero di gioia al vederlo, si sa, lui ci aveva perso tanto tempo con le bambine, perché non andava mai a lavoro... Cominciò subito a impartire ordini, e io capii subito che le cose non sarebbero andate bene… Ma capii anche che sarebbe stato impossibile scrollarselo di dosso. Ora era venuto, e dovevamo tenercelo”.

Come previsto, già dopo poche settimane dall’arrivo di Pompeo la vita delle quattro donne cambiò radicalmente. Tutto girava intorno a lui: Pompeo voleva essere servito e riverito, colazione pranzo e cena, e dovevano accompagnarlo a comprare le sigarette e al caffè, che lui non osava attraversare la strada da solo perché non conosceva la lingua. Aveva una gran paura dei cinesi di China Town, e ancora di più dei Neri che stavano al di là della strada - diceva che se li sognava di notte, quei Gialli e quei Neri, e, in effetti, molte volte aveva incubi notturni che spaventavano le donne e anche i vicini. Cercò lavoro, ma l’unica cosa che trovò fu un posto di guardiano notturno in un supermercato all’ingresso di Little Italy. Dormiva fino a mezzogiorno e poi se ne andava con un gruppo di Napoletani che se l’erano fatto amico - vagabondi come lui - diceva la Filomena - gente con cui lui giocava a carte perdendo sempre. I pochi soldi che la Filomena si era messo da parte svanirono, e così anche i loro sogni per il futuro: il corredo per Cosetta, la bicicletta per Rosalba, il costume da ballo per Lella. Adesso erano di nuovo poveri. “Sei la mia croce!” - gridava di nuovo la Filomena. Non si sa bene come - un altro grande mistero per le comari di San Piero - lui riuscì a metterla di nuovo incinta. Filomena dette alla luce un’altra bambina. “Questa volta”, le gridò, “il nome glielo dò io, alla mia figliola!” Le dette uno strano nome: Isola Elba Italia. Perché erano i tempi in cui, in America, si parlava di rapimenti di bambini. “Così, se ti rubano o se ti perdi nel mondo” - doveva poi dire alla figlia – “basta che tu dica il tuo nome, e ti ritroverai sana e salva all’Isola!”

Passarono altri anni. Isola Elba Italia, o Isolina come poi tutti la chiamavano, divenne molto popolare nel quartiere e nell’intera Little Italy - sia per il suo nome, sia perché era così bella e vispa. Aveva una parlantina vivace con la quale rispondeva senza mezzi termini alle battute dei grandi. I paesani di Brucchlin avrebbero poi raccontato che Filomena le era molto attaccata e si faceva delle lunghe passeggiate con lei già quando Isolina aveva sei anni. Madre e figlia, tenendosi per mano, camminavano insieme e chiacchieravano a lungo, come due amiche fidate. Isolina poi aveva una curiosità insaziabile, voleva sapere tutto, soprattutto a proposito dell’Isola di cui aveva preso il nome, e che non aveva mai visto. Filomena si era portata dietro dall’Isola alcune fotografie sbiadite. Una la raffigurava nel giorno del suo ventesimo compleanno vicino alla chiesetta di San Piero, con dietro la siepe dei fichidindia. Isolina volle sapere cosa fossero quei frutti strani e come si mangiassero, e come si faceva a farci la marmellata.

Il tempo passò veloce. Prima i mesi, poi gli anni. Fu alla vigilia del settimo compleanno di Isola Elba Italia che Filomena ebbe il sogno dei fichidindia: era così, che lei con le figlie scavavano con delle pale di legno ai piedi della siepe di fichidindia - proprio quella della fotografia - e scavando misero alla luce un forziere di ferro, che risultò pieno di gemme e di monete d’oro. Filomena si era svegliata dal sogno piena di felicità. Aveva subito svegliato le figlie per raccontar loro il sogno così bello, e Isolina disse subito, ancora mezzo insonnolita: “Questo è un bel regalo di compleanno!”. A colazione, dove festeggiavano con il cioccolato caldo e la pasta reale il compleanno della piccola, continuarono a parlare di quel sogno e del suo significato. Erano solo loro donne, Pompeo era ancora a lavoro nel supermercato, tra poco sarebbe arrivato e sarebbe andato a letto. Da un po’ di tempo arrivava sempre ubriaco, anche così di primo mattino, era diventato di nuovo manesco e prepotente, e aveva spesso problemi con i poliziotti del quartiere. Pensando a lui, Filomena sentì di nuovo quel misto di rabbia e di rassegnazione che conosceva bene. Ma che fare?

A un certo punto l’Isolina, che inzuppava la fetta di torta nel cioccolato caldo, smise di mangiare, alzò gli occhi verso la mamma e le sorelle, e disse, con la sua voce forte e chiara da bambina: “Io voglio andare all'Isola. Quando si parte?” Nessuno le rispose, ma le donne si guardarono negli occhi l’una con l’altra, e fecero un segno d’assenso con il capo - quasi senza sorpresa. Ci fu però un momento di silenzio e solo dopo un po’ la Filomena parlò. Disse: “Bisogna ricomincia’ a fa’ le ricottine. Ma questa volta non ci vorranno tre anni, bimbe, faremo prima. Le faremo vende’ da Zuppa di Pane in grande stile! Vi prometto che saremo all’Isola entro il ‘900. Lei stessa rimase esterrefatta a sentire il suono di questa data. Mio Dio, il Millenovecento! Che la fine del secolo si avvicinasse, lo si sapeva, tutti ne parlavano e si facevano le predizioni più strane. Qualcuno diceva addirittura che sarebbe venuta la fine del mondo, qualcun altro parlava di pestilenze e di epidemie terrificanti. A queste cose la Filomena diceva di non crederci, ma ora avvertiva anche lei un lungo brivido di paura. Come raccontò in seguito, a sentirsi quella data così minacciosamente vicina, c’era proprio da aver paura. Il Millenovecento! Cosa sarebbe successo?

Già l’indomani Filomena si mise d’accordo con Tommi Zuppa di Pane, che era uno di Marciana e aveva un negozio di commestibili a Brucchlin. Lui vendeva tutte le specialità italiane, e accettò di buon grado l’idea di vendere le ricottine di Filomena. Tommi Zuppa di pane era stato sempre molto generoso con loro, e la Cosetta, che oramai di queste cose se ne intendeva, aveva chiesto alla mamma più volte se l’uomo non fosse un po’ innamorato di lei e lei, si insomma, anche un po’ di lui.

Ma Filomena non aveva mai dato una risposta chiara, anche se, a detta di Cosetta, arrossiva ogni volta che le facevano questa domanda. Comunque, quello delle ricottine nel loro quartiere di Brucchlin fu un grande successo. Le ricottine, Tommi le vendeva direttamente nel suo grande negozio, erano esposte bellamente nel grande banco di marmo bianco, e lui ne fece così tanta pubblicità tra tutti i suoi clienti, che divennero addirittura un buon affare. Dovettero presto aumentare la produzione, e Tommi comprò loro dei recipienti più grandi, con degli agitatori a pala che andavano a corrente elettrica, il che accelerò drammaticamente la produttività. E Tommi non volle mai accettare percentuali sulle vendite, il ricavato era tutto loro.

Naturalmente, le male lingue del paese avrebbero poi detto che la Filomena le percentuali le pagava in natura, e come! Chissà se è vero? Nessuno lo saprà mai, come abbiamo detto non riuscì a saperlo nemmeno la Cosetta, e in fondo questo non è così importante. Fatto sta che la Filomena e le tre figlie più grandi dovevano alzarsi di nuovo alle cinque del mattino, come ai tempi delle ricottine di San Piero, per lavorare nel retrobottega di Tommi per fare le ricotte prima di andare al lavoro in maglificio e prima che il negozio aprisse. Così per un anno. Pompeo non si accorse di nulla, e continuò la sua vita di mantenuto. Era però diventato più irascibile, forse perché era lui stesso scontento della vita che menava. Provò più volte a trovarsi un lavoro più bello di quello del guardiano notturno, ma aveva già più di cinquant’anni, non sapeva far niente di particolare e non si può imparare a lavorare a quest’età. Almeno, non lui.

Non è da credere che l’idea di ritornare all’Isola fosse solo a causa di Isola Bella Italia. Come avrebbe raccontato in seguito la Filomena, lei stessa aveva da tempo uno struggimento tutto dentro per la sua terra. Pensava alla chiesina di San Piero, ai vicoletti in cui risuonavano gli zoccoli suoi e delle sue amiche, alla fontana nella piazzetta, vicino alla quale lei molti anni prima soleva battere la lana con le canne. Poi anche il ricordo della doppia processione, da Sant’Ilario a San Piero, del viale lungo tra i cipressi e il rosmarino e la nepitella, che le attanagliava il cuore. E di nascosto dalle figlie aveva pianto più volte, in quegli ultimi anni. “Quando si è giovani”- avrebbe poi raccontato Filomena in paese – “si cercano cose nuove, ma poi con l’affievolirsi delle forze ti ritornano le romanticherie, ti ritorna tutto in mente, sai, i posti dove hai passato la fanciullezza. Mi rivedevo a nuotare nella spiaggia di Procchio, dove si andava con le amiche - e per la strada ci si fermava a rubar l’uva nelle vigne. Se in vigna c’era il contadino, ci si accontentava dei fichidindia. Spesso me le sognavo di notte, quelle nuotate, e a volte mi risvegliavo con il gusto dei fichidindia in bocca... E poi, insomma, c’era questo struggimento di rivedere l’Isola, di ricantare quelle nenie della processione, che io figurati per la chiesa non ci sono mai stata, ma che debbo dirti, mi ci veniva da piangere a pensare al suono di quei canti di chiesa... Sentivo che mi mancava qualcosa, lì in America, e proprio le cose più importanti... Non so come dire: sono anche cose che si spiegano male...”.

E la storia della processione la raccontava sempre alle figlie, soprattutto all’Isolina, che voleva sapere tutti i perché e per come. “Ma è una corsa a chi arriva prima, no? Tra quelli di San Piero e di Sant’Ilario?” - chiedeva la bimba. “No, non è una corsa, anzi si va con tutto comodo, anche perché ci sono anche vecchi che vanno con il bastone...” “Ma mi hai detto che si cerca sempre d’arriva’ prima degli altri, e chi arriva alla chiesa prima dell’altro vince...” “Sì, questo è vero, ma non si fa per vince’, non c’è nessuno che vince, ma insomma quelli di Sant’Ilario cercano di far suona’ le campane della nostra chiesa prima che noi facciamo suona’ quelle della loro chiesa...” “Ma allora è una corsa...” “No, non è una corsa... Zitta e dormi!...”.

E venne il giorno. Si era di maggio, e la Filomena, che non aveva dormito l’intera notte, si alzò presto e aprì subito la finestra per vedere che tempo faceva. L’intenso chiarore dell’alba nel cielo senza nubi la rassicurò: sarebbe stata una bella giornata. Filomena aveva preparato una lettera per Pompeo, questa volta un po’ più lunga dell’altra. Anzi, avrebbe detto lei in seguito, era proprio una bella lettera. “Capite che mi fu proprio difficile” - avrebbe poi detto – “lasciarlo solo in terra straniera, lui così incapace di tutte le cose pratiche. Ma insomma era un fannullone, uno che non si meritava nulla, che campava alle nostre spalle, che mi rubava i soldi dal cassetto, e che oltre a tutto mi metteva le mani addosso, anche di fronte alle bimbe. E io avrei dovuto sopporta’ tutto questo per tutti gli anni a venire? Sapendo che con quel suo bere sarebbe diventato sempre peggio con il passare degli anni... Come facemmo ad andarcene? Non fu difficile. Naturalmente preparammo tutto per filo e per segno. Mettemmo tutte le cose buone in sei grandi valigie di cartone che ci aveva dato Tommi Zuppa di Pane, e lasciammo la casa quando Pompeo era a lavoro. Tommi si era fatto dare un calesse da un suo amico, un bel calesse nero trainato da un grosso cavallo grigio, quant’era bello! E lui stesso ci accompagnò al porto. Le bimbe non fecero che piangere all’idea del babbo che rimaneva solo, ma anche per tutte le cose belle dell’America che ci lasciavamo dietro. Lella, che era quasi fidanzata con un bel giovane che suonava il sassofono, piangeva anche per il suo amore interrotto e cominciò a gridare forte il nome del suo amico. Isolina allora le disse: ‘Ma via che lo troverai più bello all’Isola!’”.

E tutti scoppiarono a ridere. Solo Tommi restò silenzioso, anzi non aprì bocca per tutto il viaggio, e Cosetta credette di vedere una lacrima scendere dai suoi occhi. Quando arrivarono al porto dimenticarono subito i pianti – c’era tanta agitazione intorno alla nave, c’era perfino la musica, c’era un gruppo di preti ebrei con la barba lunga che cantavano una nenia, e poi tante belle signore americane con il cappellino e gli abiti eleganti. La grossa nave aveva già le vele spiegate ed era così grossa, ma così grossa, che le cinque donne, prima di cominciare a salire per la scaletta di corda, rimasero a guardarla a lungo, incredule. Tommi portò le valigie con un carretto - aveva dovuto lasciare il calesse alle transenne e le aiutò a portarle a bordo. Poi ci fu un lungo fischio - la nave partiva! - seguirono altri fischi. Le donne guardarono in alto verso le vele, coprendosi gli occhi con le mani per non rimanere abbagliate dal sole già alto sulla linea dell’orizzonte. Poi la nave si staccò dal molo, dapprima molto lentamente, poi sempre più veloce. Dal parapetto della nave le cinque donne riuscirono a vedere Tommi Zuppa di Pane che le salutava agitando un fazzoletto bianco. Era piccino piccino, visto di lassù, ma Cosetta poteva giurare di vedere le sue lacrime silenziose.

Sulla nave, a Filomena e figlie erano toccati tre lettini a castello in un angolo della vasta camerata dove dormivano una quarantina di persone. Dopo qualche giorno, la camerata era diventata così calda e maleodorante che appena si poteva respirare - ma per le cinque donne era un bel viaggio. Di giorno, c’erano sempre tante emozioni nuove - le grosse vele gonfie di vento, i grossi uccelli marini che volavano bassi, e la gente che viaggiava con quella stessa nave, ognuno di loro aveva una propria storia da raccontare, ed erano tutte storie di vita così belle e affascinanti! A sera, poi, le cinque donne si raccontavano di nuovo quelle storie che avevano ascoltato, commentandole, ricamandoci e singhiozzandoci sopra. Soprattutto, erano contente di ritrovarsi tutte insieme nel loro angolo in quei tre lettini e di parlarsi a lungo, fittamente, proprio come usavano fare a San Piero, poi nel loro primo viaggio, poi a Brucchlin- il loro rituale più bello prima di addormentarsi.

Parlavano anche di quella che sarebbe stata la loro vita futura all’Isola, e di quello che avrebbero potuto comperare. Infatti, i biglietti erano costati meno del previsto, e il resto era ora in quel sacco rosso che Filomena teneva sotto il suo materassino. Poi discutevano di come avrebbero dovuto comportarsi con la gente del paese una volta ritornate, di come avrebbero dovuto rispondere alle domande anche maligne che sarebbero state loro rivolte sulla loro vita americana. “Vorranno sapere tutto, tutto, io le conosco!” - sospirava la Filomena con rassegnazione. “Si metteranno lì in piazza, intorno alla fontana, e ci faranno l’interrogatorio, ogni giorno, per tanti giorni di fila, forse per mesi...” - e si raccomandava che la Cosetta, per esempio, non raccontasse di essere andata fuori a cena da sola con amici maschi, e la Cosetta rispondeva risentita, “no, questo no, a me le bugie non piacciono”, e la Filomena paziente che diceva che non si trattava proprio di bugie, era un atto di riguardo per non offendere la gente dell’Isola, che si sa, è un po’ retrograda, e certe cose non le capisce... E la Lella poi non avrebbe dovuto raccontare di essere stata a scuola di danza. “No, non c’è niente di male, naturalmente, ma all’Isola hanno strane idee su quelle che danzano, le ballerine, sai... No, non ci sono scuole di ballo all’Isola, è una cosa da dimenticare, figlia mia, insieme a tante altre, cosa vuoi!... eh, sì, bisognerà usare le candele o il lume a petrolio, eh si sa non si può aver tutto, insomma che ne so io se staremo bene, figliole, che volete che vi dica, staremo a vedere, ora dormite che è tardi...”.

Sulla nave, fecero la conoscenza di diversi paesani che ritornavano in Italia. C’era un napoletano, il signor Merendino, un uomo magro e gentile di circa sessant’anni, che avrebbe rivisto Napoli dopo quarant’anni di assenza. Diceva di aver paura di quello che avrebbe trovato al suo rientro a Napoli. Chissà se la sua casa c’era ancora, con il caffè all’angolo della strada, che ci sono due grossi alberi - no, non pini, forse tamerici, e poi tutti i suoi amici di gioventù, chissà se li avrebbe ritrovati ancora… Da lui le donne appresero tante cose a proposito del viaggio: quante persone c’erano a bordo, e quante classi, e quanto costava ogni tipo di biglietto, quanto sarebbe durato l’intero viaggio, e le varie tappe... Lui sapeva tutto di tutto, anche sulle stelle, e a notte spiegava alle fanciulle le varie costellazioni, “ecco, vedete Arturo? Come, non ne avete mai sentito parlare? Ma è una stella grandissima, sebbene non così grande come Vega. Dov’è Vega? Ecco, quella lì, vedete, la più lucente di tutte...”.

Fu dal signor Merendino che le donne vennero a sapere dei clandestini. “No, i clandestini non sono proprio dei malfattori, sono semplicemente persone che non hanno pagato il biglietto...”, diceva lui con il suo fare affabile. “Perché? Perché vogliono assolutamente partire ma non hanno i soldi, e allora si imbarcano di nascosto, appunto, clandestinamente, come si dice, e ora i poliziotti della nave danno loro la caccia. Forse sì, c’è tra loro qualche ladro scappato di galera, certo bisogna fare un po’ d’attenzione, ma no, non c’è bisogno che tenga le bimbe in camera, signora Filomena, lasci fare la polizia di bordo, vedrà che in un paio di giorni li acchiappano tutti...”. Ebbero bel tempo in quei primi giorni di traversata. Un bel vento fresco gonfiava le vele e la nave filava veloce sul mare immenso e blu. Quel giorno era domenica, e c’era stata la messa al mattino. Si vedeva che era domenica anche perché tutti quanti si erano messi i vestiti più belli. Il signor Merendino si sedette sul ponte vicino a loro, e cominciò a spiegare che tra poco avrebbero visto la costa spagnola, e che sarebbero passati vicino a Gibilterra, entrando poi nel Mediterraneo. “Siamo quasi a casa...”, disse poi in un sussurro. E la sua voce aveva ora un’intonazione di paura. Le donne se ne accorsero, e non gli chiesero più nulla.

Poi d’un tratto scoppiò il finimondo. Si sentirono delle urla, dei fischi, dei comandi concitati, c’era gente che correva via spaventata in tutte le direzioni. Apparve un uomo che scappava sul ponte, e dei marinai gli correvano dietro per acchiapparlo. “È uno dei clandestini!” gridò il signor Merendino spaventato, “tiratevi indietro!”. Filomena e le figlie si strinsero le une alle altre, guardando con gli occhi spalancati la figura esile del fuggitivo e l’espressione angosciata di quel viso che riconobbero subito. L’uomo cadde a terra ansimante proprio vicino a loro, e i marinai gli furono addosso e gli legarono i polsi con delle corde. L’uomo ora si stava calmando, smise di ansimare e cominciò a respirare normalmente, sembrava quasi contento anche lui che quella caccia fosse finita. Guardò in su, e i suoi occhi incontrarono quelli spauriti delle quattro figlie. Lui disse fievole e ostinato: “Cozia, Pozia, Trimeddio, Isola Elba Italia... belle mie...” “Sei la mia croce, Pompeo, sei la mia croce!”, urlò la Filomena con quanto fiato aveva in corpo. Poi scoppiò a piangere, e le figlie le fecero coro. L’uomo guardò in su verso la moglie e disse con voce esile una cosa che non aveva mai detto prima: “Scusami, sai, Filomena, scusami tanto per tutto quanto...” Quella parola “scusami” rimase sospesa nell’aria, volteggiando come una foglia nel silenzio che seguì. Poi i marinai lo portarono via. Gli ufficiali della nave, colpiti da quel fatto straordinario, lasciarono andare Pompeo senza deferirlo alla polizia - ma vollero che lui - o meglio la moglie - pagasse il biglietto. Filomena consegnò senza esitare quei pochi risparmi che aveva. Insomma finì che Filomena, Pompeo e le quattro figlie arrivarono tutti insieme al paese - senza una lira.

“Quella parola ‘scusami’, detta a pieno cuore, mi dette come una scossa al cuore”, diceva la Filomena in seguito, quasi per scusarsi per aver ripreso il marito. “Lui una cosa così non me l’aveva mai detta. No, non che io abbia veramente sperato che lui fosse cambiato, o che potesse cambiare. Ma che volete: siamo ormai in un’età, sia lui che io, che non è più così importante che lui sia in un modo e io in un altro...”. Era qui che la vecchia Pina la Sdentata scrollava la testa piano piano e diceva sorridendo: “Ma insomma, un po’ d’amore ci deve esse’ stato, no?”.