Pino, che non aveva chiuso occhio tutta la notte, corse al molo al sorgere del sole. Lo videro i pescatori, che lì al Sasso attraccavano le barche dopo una nottata di vela e di remi.

“Ma dove vai, Pino? Ma dove corri?” Pino spiegò a gran voce - ma era sorpreso che non lo sapessero - che tra poco avrebbe salpato il Giovannino e lui sarebbe partito a bordo: il suo primo viaggio, il suo primo lavoro come marinaio. E con il famoso Giovannino, il vascello più veloce di tutta l’Isola. Andavano alle Spiagge Romane. “Le Spiagge Romane? E dove sono?” - chiese uno. “È così che i vecchi chiamano Civitavecchia. È vicino a Roma” rispose correndo Pino, di nuovo sorpreso di tutta quell’ignoranza.

Civitavecchia. Pino s’era ripetuto tante volte questo nome in quelle sue ultime notti insonni. Gli avevano detto che era una grande città, con case altissime e chiese tante volte più grandi di quella di Santa Filomena la Nostra. E con tanti calessi a cavalli per le strade, che bisognava stare perfino attenti a attraversare la strada. Gli batteva il cuore solo a pensarci. Per giorni e giorni aveva atteso quel giorno, non vedeva l’ora di partire. La sua mamma, invece, in tutti quei lunghi giorni d’attesa, aveva pianto spesso, abbracciandolo come se lui dovesse andare in guerra. Ora lui, per evitare piagnistei di fronte alla gente, si era fatto promettere che lei non sarebbe venuta a salutarlo al molo. E le diceva che in fondo, aveva già nove anni, lui! Che gli elbani di Rio si raccontavano ancora di quel loro vascello d’altomare, dove il capitano aveva ventotto anni, il primo sottufficiale diciotto e il mozzo, già esperto di mare, aveva nove anni e mezzo. Poi quando navigavi come mozzo ti davano anche dei soldi, o meglio li davano alla mamma, il che non era neppure troppo giusto, ma forse chissà, entro un anno o due, li davano magari direttamente a te. E poi, via, non era mica per i soldi!

Era per la passione. La passione del mare, Pino l’aveva sempre avuta. Non poteva capire come si potesse vivere lontano dal mare - come per esempio quelli di San Piero o di Marciana Alta, che vivevano dieci, venti chilometri lontani dalla riva del mare, e non sapevano nemmeno cosa fosse una vela. Fin da piccolo aveva preso l’abitudine di spiare le navi che passavano al largo, e con i suoi occhi aguzzi poteva contare il numero di vele meglio dei marinai provetti. Quando era tempaccio e gli altri bambini si rintanavano in casa, lui andava a guardare le onde del libeccio, e anche quando era bel tempo lui era lì, a guardare il mare, solo che allora fissava là dove la linea del mare si confondeva con la linea del cielo. Quella linea tra mare e cielo lo aveva sempre affascinato e la sua mamma raccontava ridendo che lui aveva appena tre anni quando, puntando il dito verso il mare, aveva chiesto per la prima volta cosa ci fosse là, dopo quella linea.

Quando Pino arrivò all’attracco del Giovannino, non vide nessuno intorno alla nave. Ne rimase deluso, e si rannicchiò a ridosso del muretto. S’intravedeva alla linea dell’orizzonte il primo sole, si capiva che avrebbe fatto bello. Pino chiuse gli occhi, sentì che il primo sole gli riscaldava il viso, e si addormentò così, contro il muretto.

Lo svegliarono delle grida, e con spavento vide che i marinai ora erano già a bordo del Giovannino e avevano quasi finito di caricare. Pino si alzò di scatto, offeso che avessero cominciato senza di lui, e spaventato all’idea che avrebbero potuto lasciarlo a terra. Corse verso il vascello: “Ci sono anch’io, ci sono anch’io!” - gridò - “Non partite senza di me!” I marinai risero, ma gli dissero di starsene buono da una parte fino a che non fossero finiti i lavori pesanti.

Ci volle ancora un’ora per la partenza. S’era radunata gente sul molo, per lo più familiari e amici di quelli che partivano. Vide Giovanni, e se ne rallegrò, perché non si sarebbe aspettato che quel nuovo amico, che era un po’ burbero, si sarebbe alzato presto per andarlo a salutare. Gli fece cenno con la mano, e Giovanni rispose brevemente, poi se ne andò. Ughetto, invece, non c’era - doveva essere andato a pescare con il vecchio Demetrio. Tra gli altri volti di quelli che erano venuti a salutare la partenza del Giovannino, Pino riconobbe quello di sua madre. Stava in seconda fila, con quel suo vestitino grigio che la faceva tanto più vecchia - aveva promesso che non sarebbe venuta, e sulle prime Pino ebbe un moto di rabbia. Sempre così!... E ora non sapeva che fare - se salutarla, magari correre ad abbracciarla, oppure se fare il duro, ora che cominciava ad essere un uomo.

Rimase immobile senza guardare nella sua direzione - ma poi gli venne da piangere, se ne vergognò, e fece allora un piccolo gesto con la mano al suo indirizzo. Lei gli rispose con uno dei suoi grandi sorrisi e Pino rispose con un altro sorriso. Anche se era un uomo fatto, si sentiva più felice così. Appena al largo, trovarono un bel vento e il vascello cominciò a filare veloce. A vedere quelle grosse vele spiegate, Pino sentì il cuore battergli d’emozione e d’orgoglio. Pino se n’andò verso poppa, inebriato dal vento e dal fruscio delle vele. Guardava il paese che scompariva a poco a poco, ora si vedevano solo le linee del monte Serra, poi apparvero le linee di altri monti, che erano anche più grossi, là oltre Rio Elba.

Il nostromo gli si avvicinò e gli fece cenno di seguirlo. “C’è il saluto alla Madonna!” disse. Pino aveva sentito spesso nei racconti dei marinai di quel saluto - ora gli batteva il cuore nel sapere che ne avrebbe fatto parte anche lui. Ora erano proprio sotto Rio Elba, e si poteva vedere bene la Madonna della Grotta, una chiesetta nascosta nella pendice del monte. Tutti gli uomini si erano raggruppati a guardarla, e si erano fatti seri in viso. Poi si scoprirono lentamente la testa guardando fisso verso quella chiesetta, cominciando poi a gridare ad alta voce: “Madonna santa aiutaci tu! Madonna mia fammi rivede’ la mi’ famiglia! Madonna proteggici!”. Pino sulle prime rimase spaventato da quelle grida così drammatiche, i suoi occhi corsero da uno all’altro di quei volti bruni dagli occhi spalancati e umidi di commozione. La nave però volava via veloce e l’immagine della Madonna si allontanò rapidamente dalla vista. Gli uomini si rimisero il berretto e ripresero il proprio lavoro.

Erano ora in alto mare, tuttavia si vedeva la linea lontana e tenerina della costa. Quella vista gli dava fastidio. Avrebbe voluto, Pino, il mare sconfinato, senza terra in vista. Quando lo disse a Plinio, questi scoppiò a ridere. “Aspetta, aspetta...” gli disse il vecchio, che aveva navigato più di vent’anni tra Genova e l’America del Sud. “Quando sarai più grande, e navigherai nel Pacifico, senza vede’ nient’altro che acqua per settimane e settimane, allora ti verrà la nausea dell’acqua. Allora comincerai a guarda’ l’orizzonte, lì dove c'è la linea tra il mare e il cielo, sperando di vedere un pennacchio di fumo o uno scoglio qualsiasi. Vedrai, quando sarai nell’Oceano Pacifico!...”.

Pino non sapeva bene cosa significasse, questo nome - l’Oceano Pacifico. Si immaginava un mare pacioso e tranquillo. Chissà perché lo chiamavano così? Probabilmente Plinio lo sapeva, e per un momento fu lì lì per chiederglielo. Non era però facile fare domande a Plinio, perché non si capiva mai se parlasse sul serio o per scherzo. Come quella volta che lo prese sottobraccio e lo portò sotto l’albero maestro. “Senti?” gli aveva chiesto con fare furtivo. Ma Pino sentiva solo il frusciare delle vele contro il vento. “No, non sento nulla...” “Ma ascolta bene!” aveva insistito Plinio stizzito. Pino aveva teso di nuovo l’orecchio verso la lontananza del mare, poi aveva scosso la testa per significare che non sentiva niente, e aveva cercato di liberarsi dalla stretta di Plinio. Allora Plinio aveva puntato il dito in alto, verso le vele, esclamando: “Loro parlano tra di sé, non senti? Sì, le vele! Le vele sono vecchie chiacchierone che brontolano tutto il tempo, e sono spesso irritate, cattive. Non le senti? Bofonchiano, non gliene va bene mai una a quelle lì, ora il vento è troppo grosso, ora non c’è abbastanza vento. E ce l’hanno anche coi gabbiani che gliela fanno addosso e che non stanno mai zitti... e poi questi stupidi di marinai che tirano troppo le corde…”.

Pino conosceva bene tutti gli altri marinai a bordo. Quando finiva il turno di lavoro, a bordo c’era calma, e ci si radunava attorno al cuoco, detto Silvestraccio, che cantava arie d’opera. Era uno molto grasso che a parer di Pino non lavorava molto, e faceva brodaglie lunghe che non piacevano a nessuno. Ma cantava bene. La sua opera favorita era la Traviata: “Aaaamami, Alfreeedo...”.

Uno volta Pino capitò alle spalle del Capitano e del Nostromo il Vecchio mentre parlavano di lui, di Silvestraccio. “Canta per dimenticare i malanni di casa sua...” diceva Nostromo il Vecchio. “Per via della moglie, dici? Ma sono sempre così come cane e gatto?” “Come cane e gatto... Lui rinasce solo quando se ne va di casa. Allora canta e ingrassa...”. Si accorsero di lui, che li ascoltava con aria sorpresa, e il Capitano gli sorrise e gli disse: “Quando sarai più grande, Pino, capirai che si viene in mare anche per scappa’ da terra - e d’un tratto calò nel suo viso un’espressione di mestizia. L’ora più bella era quella di cena. Ci si radunava allora in circolo, mangiando dalle ciotole - anche se il capitano disapprovava e gridava - ma senza troppa convinzione pareva a Pino - che non si doveva mangiare così, come bestie, che si doveva invece imbandire una tavola e mangiare da cristiani. Loro invece mangiavano così, gomito a gomito, e c’era sempre qualcuno che raccontava una storia. “Mi ricordo di una volta, a Catania, nel millenovecentotrè...”.

Erano storie di viaggi e di avventure che tutti ascoltavano con il fiato sospeso, Pino più di tutti. A volte si dimenticavano di lui e si mettevano a parlare di donne, dilungandosi in dettagli che lui capiva solo a metà ma di cui intuiva la volgarità, e ne rimaneva confuso e irritato - ma anche incuriosito. A volte c’erano storie di pirati e di tesori, che lui amava particolarmente. Come quando Silvestraccio raccontò di quei suoi parenti vicino a San Piero, la cui bambina aveva trovato in una cava una cassa arrugginita piena di cianfrusaglie di rame e di ottone - o almeno così aveva pensato il suo babbo - il quale vendette il tutto per quattro soldi al rigattiere del rame, uno di quelli che passano per il paese una volta al mese. La bimba però si volle tenere un orecchino spaiato, il rigattiere voleva anche quello, anzi si arrabbiò con lei, e allora la bimba scappò con l’orecchino per non farsi prendere. Poi, anni dopo, si scoprì che l’orecchino era d’oro zecchino, anzi di un oro vecchio e molto prezioso, e così dovevano essere tutte le altre cose della cassa arrugginita. Doveva essere - pensate un po’ - uno dei tesori nascosti dal Barbarossa! In quanto al rigattiere di rame, non si fece più vedere all’isola.

Pino doveva lavorare sodo, a bordo. Lo facevano correre di qua e di là, e siccome era il più piccolo, tutti quanti gli davano ordini: “Lava il tavolo di cucina!” gli gridava Silvestraccio. “Portami quella fune!” gridava Nostromo il Vecchio. “Sciogli quel nodo!” urlava Plinio. Pino non se la prendeva mai, anzi gli piacevano questi ordini un po’ bruschi, perché voleva dire che loro si dimenticavano che lui era un bambino. Fu una traversata tranquilla, senza una nube. L’unica avventura fu la vista di un branco di delfini: Pino non li aveva mai visti così da vicino e la sorpresa fu così grande che cominciò a gridare, facendo accorrere Plinio e due marinai che si trovavano nei pressi. “Non vedi come giocano?”- disse Plinio ridendo – “sono proprio come i bimbi, giocano ad acchiapparello. E stanno vicino alla barca perché sono vanitosi, e amano farsi ammira’...”. Quei pescioni avevano davvero un’espressione di gioia nel volto, era come se ridessero. Si tuffavano e sprizzavano di nuovo fuori dall’acqua, mantenendo la stessa distanza l’uno dall’altro. Plinio cominciò allora a raccontare storie sui delfini, di come quelli potessero emettere note musicali speciali, e come per mezzo di questi suoni si parlassero tra di loro proprio come fanno gli uomini, ma sono meglio degli uomini, perché non fanno guerre, e poi sono molto fedeli l’uno all’altro, se il maschio muore, o è pescato, la femmina non si da pace e muore di dolore.

“Come, non sai che i delfini sono maschio e femmina, proprio come gli uomini? No, non fanno le uova! Altro che uova, quelli lì! S’accoppiano come l’omo e la donna, te lo dico io…” e Plinio cominciò a raccontargli di come facesse il delfino maschio, aggiungendo dettagli inverosimili sulla lunghezza del membro sessuale maschile. Per spiegarsi meglio usava le braccia e delle espressioni truculente del volto. Gli altri marinai ridevano a crepapelle mentre Pino, tutto rosso, avrebbe voluto scappar via. I suoi occhi caddero di nuovo sugli ilari delfini, che continuavano a saltare innocenti sull’acqua e si disse che quelle sconce fantasticherie di Plinio non potevano esser vere. Si allontanò da lui e seguì i giochi degli amici delfini con gli occhi fino a che quelli non si persero nella linea bianca dell’orizzonte.

Il tempo si era guastato, c’erano grosse nuvole nel cielo e tirava vento. Anche il mare cominciava a spumeggiare inquieto. Ma erano vicino alla meta. Fu lo stesso Capitano a fargli capire che stavano arrivando: gli mise una mano sulla spalla, scrollandolo amichevolmente, e indicando l’orizzonte con l’indice dell’altra mano. “Siamo già arrivati?” chiese Pino deluso. Il Capitano lo guardò sorpreso di quella risposta, scosse la testa e rise di cuore. “È bello come tu ami il mare, Pino! Diventerai un grande marinaio!” Pino fu felice di queste parole. Era addirittura il capitano che gli aveva detto questo! “Arriviamo appena in tempo” - disse il sottufficiale che si era unito a loro - “tra poco comincerà a piovere...”.

Mentre bevevano il caffè, Pino notò che gli uomini erano tutti molto euforici. Ci sarebbe stata libera uscita fino a sera, e i marinai parlavano di quello che avrebbero fatto in città. Alcuni raccontavano di quello che avrebbero comprato per le loro famiglia, ma altri parlavano di donne in quel modo volgare che non gli piaceva. “Andiamo tutti in città? chiese a Nostromo il Vecchio mentre ammainavano le vele. “Eh, sì, andiamo tutti noi. Ma tu no, tu resti sulla nave, bello mio...”. Il sottufficiale gli disse la stessa cosa, anzi gli ordinò di non allontanarsi dal porto. “Hai il compito di far la guardia al Giovannino” gli disse per rabbonirlo “dovresti essere fiero di te!”.

A Pino l’idea invece non piaceva, era curioso di vedere la città - voleva vedere se tutte quelle cose che gli avevano raccontato su Civitavecchia fossero vere - se fosse rimasto tutto il tempo sulla nave, cosa avrebbe raccontato ai suoi amici di Rio? Che non aveva visto niente perché i marinai lo giudicavano troppo piccolo per lasciarlo andare in città? Cominciò a piovere proprio mentre gli uomini cominciavano a scendere dal vascello, e Pino ne fu contento, la pioggia era una giusta punizione dal cielo contro quegli ingrati prepotenti! Rimasto solo, cercò di placare la sua rabbia nell’osservazione delle varie attività nel porto. Passarono due giovani pescatori che si fermarono ad ammirare il Giovannino, e gli chiesero da dove venisse. Pino disse con fierezza che veniva dall’Isola d’Elba, da Rio Marina - ma quelli non sembrarono molto impressionati della cosa e procedettero oltre scrollando le spalle. Pino ci restò male. Si arrampicò sull’albero maestro e di lì spinse la vista verso la città, ammirando un mare di tetti che si intravedeva al di là del grosso muro che cingeva il porto. Si sentì il cuore battere in petto. Chissà quante cose belle e nuove c’erano da vedere in quella città!

Era smesso di piovere e d’improvviso uno sprazzo di sole apparve nel cielo, che però rimaneva invaso da densi nuvoloni che non promettevano niente di buono. “Rischiara” si disse Pino “allora, posso andare un po’ in giro. Senza allontanarmi troppo...”. Scese giù per la scaletta e bighellonò un po’ intorno al Giovannino. Si sentiva attratto dalla porta che dava nella città, ma resistette a lungo a questo richiamo. Poi non resistette più e prese di corsa la stradetta lastricata che portava verso il mare dei tetti rossi. Il vicolo diventava più largo via via che ci si allontanava dal porto. Ora c’erano tante piccole botteghe ai lati della strada e c’era molta gente che usciva ed entrava nei negozi. Parlavano tutti a voce alta, in un dialetto buffo che lui capiva appena. Pino si fermò a guardare le persone, gli parve che la gente fosse vestita più miseramente che a Rio, soprattutto le donne. Pino si sentì d’un tratto felice: trovava eccitante camminare così per strade che non conosceva, tra gente sconosciuta che parlava un dialetto diverso - girovagare a caso senza sapere cosa avrebbe trovato al prossimo angolo - gli veniva come un brivido di piacere giù per la schiena. E c’era un odore nuovo nell’aria che lui non conosceva e che lo eccitava. Capì che era l’odore dell’avventura - un odore che avrebbe accompagnato tutti i suoi viaggi negli anni a venire.

Si fermò di fronte a un negozio d’armi. Non ne aveva mai visto uno e ammirò a lungo i fucili da caccia, le sciabole e le pistole esposte in vetrina. Più in là c’era la bottega di un antiquario, e Pino si incantò di fronte a un dipinto che raffigurava una battaglia tra due navi a vela - una aveva l’albero maestro spezzato da una cannonata… D’un tratto si trovò di fronte a una pescheria, ed esposto in una bancarella sul marciapiede c’era un pesce spada con gli occhi ancora aperti - occhi ancora spalancati di terrore. Pino ne rimase affascinato e, sebbene avesse un po’ di paura, allungò una mano per toccarli. Ma si sporse troppo in avanti, inciampò in una cesta, cadde e nella caduta si tirò addietro il pesce spada. Mentre si alzava ancora ansimante, vide con la coda dell’occhio che il pescivendolo correva verso di lui, gridando e brandendo un ombrello alzato a mo’ di bastone. Pino cercò di emettere qualche parola di scusa, poi vista la mala parata scappò di corsa, svicolando in una stradina a destra del negozio. Corse a perdifiato da una via all’altra, fermandosi solo quando non aveva più fiato. Era oramai lontano dal pescivendolo, e si mise a sedere per terra ansimando e piangendo. Quando si alzò per riprendere il cammino, si accorse di aver perso l’orientamento.

Oh Dio! Da che parte si trovava il porto, ora? Mosse qualche passo prima a sinistra, poi a destra, ma era come essere in un labirinto di viuzze tutte uguali l’una all’altra. Sentì un’onda di paura salirgli fino al cuore. Cosa avrebbe detto il Capitano se al suo rientro non l’avesse trovato sul Giovannino? Forse non l’avrebbe più ripreso a navigare con lui. Oh! Doveva assolutamente ritornare subito indietro, essere sul vascello prima di tutti gli altri! Avrebbe chiesto informazioni, anche se era una vergogna che un marinaio provetto come lui dovesse chiedere alla gente di strada da che parte si trovasse il mare!

Vide un prete intabarrato di nero che camminava veloce e si disse che un prete fosse proprio la persona adatta per chiedere aiuto. Ricominciava anche a piovere, tanto per complicare le cose. Accidenti!... Corse verso il prete, che però aveva aumentato l’andatura per sfuggire alla pioggia. Lo seguì per due o tre viuzze senza riuscire a raggiungerlo. L’ultima stradina sbucava in una grande piazza, in fondo c’era una grande chiesa con colonnati di marmo bianco e il prete sparì dentro. Ora pioveva forte, e Pino corse anche lui verso il portale della chiesa, spingendolo. Si trovò all’interno, e il buio improvviso lo sorprese. Solo un po’ di luce filtrava dalle vetrate su in alto - erano vetrate tutte dipinte. C’erano raffigurate figure di santi dalle lunghe barbe, figure severe che lo guardavano fisso negli occhi, sembravano volergli parlare, e le loro facce e le loro mani splendevano così di luce nel buio della chiesa, che Pino rimase incantato a fissarle, incapace di muoversi e di respirare.

A poco a poco, i suoi occhi si abituarono alla penombra della chiesa, seguì con gli occhi gli alti soffitti dalle ampie arcate sorrette da colonne di marmo. Le colonne formavano tre navate, di cui però non si intravedeva bene il fondo. Tutto era così grande, in quella chiesa, e pieno di ombre paurose. Ma dove era andato a finire quel prete? Pino fece qualche mezzo passo avanti, gli pareva di aver visto un’ombra in fondo alla navata centrale. Doveva raggiungerlo, parlargli. Avanzò. I suoi passi risuonavano stranamente nella navata silenziosa, e Pino si dovette fermare con il cuore in tumulto. Poi, quell’ombra che si muoveva, era proprio il suo prete? Aveva uno strano cappuccio nero, e si muoveva cosi lentamente, come uno spettro... Pino alzò di nuovo gli occhi in su, verso le figure colorate nel vetro, e gli parve che quei giganti barbuti avessero ora un sorriso strano, quasi sinistro. Gli parve che una di quelle figure, con il braccio teso e uno scettro in mano, muovesse le labbra per dirgli qualcosa. Ebbe un brivido di paura. Poi pensò al Barbarossa - ecco, lui non avrebbe certo avuto paura. In fondo si trattava solo di una chiesa, sì, un po’ più grande delle altre e piena di ombre perché non c’era luce, ma via! Non c’era certo ragione d’aver paura, no? Cosa avrebbe fatto il Barbarossa? Il Barbarossa avrebbe avanzato a passi sicuri, a testa alta, così... e avrebbe parlato al prete senza tremare. “Ecco, così farò io”, si disse Pino.

Ci fu un gran boato, che gli raggelò il sangue nelle vene. Un fulmine! Doveva essere caduto vicino, forse sul campanile della chiesa. Adesso era proprio un temporale, si sentiva l’acqua scrosciare contro il tetto. Pino si rannicchiò contro una parete, preprandosi ad altri tuoni. Si accorse poi dal contatto con le mani che non stava appoggiato contro una parete, ma contro una vetrina. Guardò indietro con la coda dell’occhio. Una vetrinetta con dentro qualcosa, una figura. Una... persona! Si voltò di scatto. Alla poca luce che filtrava dall’alto, e con il cuore che gli batteva forte in petto, Pino fissò gli occhi dentro quella vetrina… E dentro c’era... Ah! Uno scheletro! Ohimè! Uno scheletro grande, altissimo, con un dito puntato proprio verso di lui. E con l’altra mano scheletrita reggeva una tavoletta che diceva a grandi lettere: “O tu che guardi in su anch’io ero come tu! Tu sarai come son io, fa del bene e pensa a Dio”.

Pino emise un urlo e schizzò verso l’uscita della chiesa, correndo a perdifiato. L’acqua veniva giù a catinelle. Corse e corse sotto la pioggia, senza sapere dove, e si sentiva ancora addosso quegli occhi cavi e minacciosi dello scheletro, con quel dito puntato contro di lui... Sbattè con forza contro due uomini che correvano intabarrati nei loro mantelli nella direzione opposta. “Pino! Ma questo è Pino! Ma che ci fai qui, e dove vai? Così bagnato, ti prenderai una polmonite... Ma perché sei qui? E cosa ti è successo? Sembri più morto che vivo!” Erano Nostromo il Vecchio e Silvestraccio. Lo presero sotto braccio e corsero verso il porto, che non era poi così distante. Pino, come in un sogno, si accorse che stava salendo la scaletta della nave. Era salvo, era sul Giovannino! “Oh, una cosa tremenda, orribile... ”continuava a balbettare.

Gli tolsero i vestiti, lo misero a letto, e gli prepararono un brodo caldo e glielo fecero bere di forza. Poi vollero sapere. Erano tutti lì intorno al letto, con facce lunghe e preoccupate. Pino raccontò la sua storia, e ci volle un po’ fino ad arrivare al punto decisivo. La chiesa, il buio, le figure dei santi barbuti, poi la vetrina con uno scheletro... il dito puntato, gli occhi cavi, e quella dicitura nella tavoletta! Alla fine, gli uomini capirono. Si guardarono prima l’un con l’altro, poi ci fu una roboante, gigantesca risata. Pino si sentì sprofondare dalla vergogna.

“Ma come, non mi credete?” e si mise a piangere come una vite tagliata. “Io ti credo, Pino!”. Era la voce autorevole del capitano, che era entrato senza che gli uomini se ne fossero accorti. Gli altri si zittirono. “È una storia che tutti conoscono a Civitavecchia. Quest’uomo, quello dello scheletro, era un famoso bandito. Era un gigante di oltre due metri, che aveva derubato e ammazzato mezzo mondo, e così era diventato molto ricco. In vecchiaia però si pentì della sua vita di assassino, dette tutti i suoi soldi ai poveri, fece ricostruire quella chiesa, e volle che il suo scheletro fosse messo in vetrina, con quei versi che compose lui stesso, come monito ai vivi...”. Poi il capitano aggiunse: “Tuttavia ti dovremo da’ una punizione, Pino. Tu hai trasgredito agli ordini”. Partirono, e c’era così tanto da fare, che non ebbero il tempo di dargli una punizione. O forse non vollero.