Io danzo il rinoceronte
Danzo la civetta
La leonessa io danzo
Danzo l’orsa e il cervo
Danzo il porcospino
Danzo la capra e la rana
Danzo il bufalo
Danzo il serpente e l’elefante

La Dea, danzando, crea gli animali e quando il suo piede tocca il suolo germogliano fiori variopinti e un intenso profumo si effonde nello spazio. Ella danza sulla spirale del labirinto accompagnata dal sacro tamburo retto dalla sua mano: è così che ha ordinato i cieli e la terra e gli altri mondi, è così che ogni essere, avvolto nel calore del suo abbraccio, è venuto a prendere il proprio posto nel firmamento stellato.

Mi piace pensare alla danza come segreta lingua della Madre antica, lingua creatrice attraverso la quale anche noi che le siamo figlie e sorelle possiamo percepire la sua forza, ritrovare il contatto con il principio femminile che è fonte della conoscenza necessaria alla continuazione della vita, non solo attraverso la riproduzione di corpi fisici ma anche nella capacità di regolare il cosmo e le vicende umane.

All’inizio del tempo, la Dea sapeva inventare meraviglia e armonia con il sorriso che illuminava il suo volto e inondava di sé tutti i mondi, signora del miracolo della nascita, generatrice di figlie e figli immortali.

È là che possiamo tornare a incontrarla, è là che ci conducono i miti così da aiutarci a ricordare che siamo depositarie di una bellezza originaria, di una sapienza che affonda le proprie radici nella Terra, madre comune di tutte le donne che hanno memoria dell’appartenenza al grande cerchio delle esistenze.

È là che possiamo ascoltare le sue parole, riconoscere il suo dire amorevole e pieno di tenerezza, apprendere il suo alfabeto divino che concede beatitudine a coloro che a lei si rivolgono: lasciamola parlare attraverso di noi come un tempo faceva con le sue sacerdotesse. La sua voce poteva vibrare in loro e farsi musica, divenire sillaba, accarezzare l’orecchio di quanti sapevano percepire e comprendere la lingua arcana custodita nel mistero della sua anima perenne.

Apriamo il nostro cuore al suo linguaggio capace di costruire opere mirabili, ritroviamo il contatto con i suoni della sua conoscenza, con i gesti del suo canto, con la gioia che ci trasmette la sua ieratica presenza.

Sono molteplici le sue forme, sono mille i suoi nomi, tutti manifestazione di potenza, di regalità e di forza. Nomi diversi per una stessa idea di divinità femminile intesa come principio creativo che regge il destino di ogni cosa, dispensatrice di saggio consiglio, espressione di magnificenza.

Ishtar è la dea assira padrona delle stelle del mattino e della sera, che contiene ogni attitudine del femminile, dea dei sospiri amorosi, capace di riconquistare la luce emergendo dalle porte dell’ombra. Sorgente di profezia, che amministra la giustizia. Il suo canto è più dolce del miele e del vino, più dolce dei germogli e delle piante. Madre dal seno generoso simbolo della sua benevolenza.

In uno degli inni a lei dedicati scritti in caratteri cuneiformi così viene invocata:

Regina del cielo, Signora dell’universo,
tu sola hai camminato nel terribile caos,
e hai portato la vita con la legge dell’amore,
e fuori dal caos hai portato l’armonia,
e fuori dal caos ci hai guidato per mano.

Donna fra le donne, regina che non conosce uguali,
tu che decidi il destino dei popoli,
altissima reggitrice del mondo,
sovrana dei cieli,
dea persino di coloro che vivono in cielo1.

Che dimori in un giardino profumato, che voli nell’etere sul cocchio trainato da bianchi cigni, che emerga dalla spuma del mare, che sieda in trono su un leone, che il suo occhio sia di serpente, che sia la brezza e il vento che scorrevano sulle acque e le terre primordiali, ascoltiamo la Dea nella delizia del suo splendore, nel silenzio che, come un suono dolcissimo e inebriante, avvolge l’anima e ridesta la memoria antica di quando sapevamo invocarla con cuore puro e parole carezzevoli.

Sapevamo vezzeggiarla chiamandola dolce signora, luce del mattino, regina del cielo, dea d’amore, madre santa. Sapevamo onorarla con cerimonie e rituali, pregarla con le parole partorite dal nostro cuore, incontrarla nelle foreste incontaminate, bagnarci nelle sue acque, udire la sua voce quando canta nel fruscìo delle foglie, quando le onde si infrangono sulla scogliera.

Il disco solare splende sul capo di Hathor, la dea della gioia che dà inizio alla musica e alla danza.

Le chiedo di aiutarmi a illuminare con un sorriso le mie guance solcate dalla mappa delle emozioni.

Il suo calore, che splende e trasforma, che fa crescere le messi senza ferire il suolo, dona sollievo al corpo che si distende come attraversato da un balsamo benefico.

Come un dono, ricevo l’ascolto di questi versi rituali dedicati alla Regina del Sole venerata nella città anatolica di Arinna forse settemila anni fa:

Regina del Sole di Arinna,
sei la più altamente onorata.
Sia santificato il tuo nome tra tutti gli altri,
la tua divinità più grande di ogni altro dio.
Non c’è altra divinità,
altrettanto onorata e venerata,
perché tu sei colei che regna su tutto,
che controlla ogni cosa,
in cielo e in terra,
componendo le dispute,
dispensando misericordia,
mostrando compassione per tutti,
quelli che invocano il tuo nome2.

Danzare per lei è il mio omaggio di gratitudine.

Le braccia protese affinché lo spirito dell’aria faccia discendere in me la sua energia potente.

Bevo il liquore brillante dei frutti scavati dal coltello d’osso, staccati dal sacro albero che non può essere abbattuto.

Si mostrano a me daini e caprioli, variopinte creature dell’aria volano sul mio capo.

Senza paura attraverso il grande lago gelato per arrivare là dove la Dea sta seduta sul suo trono di madreperla. Accanto a lei c’è una donna ricoperta da un manto argenteo sul quale sembrano guizzare pesci scintillanti.

La Dea mi invita a danzare insieme a lei. Sento che i miei passi si fanno presenza, che il mio incedere lento ma forte ha qualcosa di sacro: ritrovo la potenza degli antichi riti di guarigione e d’amore.

Mi muovo con una leggerezza mai vissuta, sento il respiro dell’aria che, come un filo sottile, cuce ogni movimento fino a farne un evanescente tessuto.

Le parlo con devozione e incontro uno sguardo dolce nei suoi occhi di cerbiatta.

Continuiamo a danzare mentre le sue mani disegnano lettere a me sconosciute.

Le chiedo di non allontanare da me la parola che dice il vero, la parola che conosce il dolore e il perdono, di custodire in noi la parola profetica che annuncia le cose che saranno.

Le chiedo di donarci speranza per non cedere alla tristezza, all’invidia, alla gelosia, all’oscurità della follia, all’arroganza, alla volgarità.

Le chiedo di continuare a vedere il suo volto specchiato nel candore della Luna, di poter entrare insieme a lei nelle grotte cristalline rese lucenti dall’azzurro del mare.

Che possiamo attingere alla fonte perenne dell’intuizione, che non ci abbandoni il coraggio di attraversare deserti e oceani per ritrovare coloro che amiamo, che possiamo custodire con cura la fiducia del Bene.

Che la sinfonia dei pianeti impregni la notte e il giorno, che il nostro orecchio possa udire la musica dell’eterno ciclo del divenire.

Che la tessitura delle mie note si accordi con il suono etereo delle costellazioni.

Le chiedo di prendere per mano la bambina dai capelli bianchi per andare a incontrare le antenate che, tutte, vogliono donare il loro sapere e ringiovanire l’essenza immortale del divino femminile.

Le chiedo di non farmi abbandonare le visioni che sanno condurmi nel tempo in cui “il mondo era compreso nell’amoroso sogno della grande Dea” 3.

Le chiedo di ritrovare la sensazione ammaliante di essere goccia nell’immenso oceano di innumerevoli altre donne che danzano nel rito della gioia e della potente coralità, di sentire quella vicinanza, quella profonda condivisione, quel contatto elementale con l’acqua, la terra, il vento.

Donne di tante lingue che percorrono rotte antiche alla ricerca delle risonanze ancestrali con le parole prime, tanti suoni in un concerto per parole di misericordia.

Le chiedo di aiutarmi a ritrovare la piacevolezza della pioggia che bagna l’albero della vita che Inanna, dea sumera, regina del cielo, signora dal cuore immenso, archetipo della dea lunare, ha salvato dal diluvio, l’albero che unisce i tre mondi della terra, del sottoterra e del cielo così come nella Dea si uniscono le tre figure della madre, dell’amante e della sorella.

Per lei, quattromila anni fa, la sua sacerdotessa compose poemi e inni che ne fanno la prima poetessa che abbia legato il proprio nome a un ciclo epico. Si chiamava Enḫeduanna e scriveva in cuneiforme:

A quel tempo un albero, un albero soltanto,
un albero di huluppu,
fu piantato sulle rive dell’Eufrate.
Ne morse le radici e ne addentò le rame il Vento del Sud,
finché le acque dell’Eufrate lo strapparono via.
Io trassi l’albero dal fiume,
e lo portai nel mio giardino sacro.
Ebbi cura di esso, aspettando il mio trono e il mio letto di luce4.

Anche noi come ogni pianta abbiamo bisogno di ricevere cura, di alimentarci. La nostra cura, il nostro alimento sono la condivisione di questo sapere comune, la certezza di contribuire tutte a creare un giardino nel quale anche altre donne possano ritrovarsi, un luogo dove sanare le infinite ferite, dove piangere gli infiniti lutti che hanno segnato l’oscurarsi della potenza della Dea ormai rinchiusa nelle prigioni della violenza, della sopraffazione, della crudeltà, che velano i suoi occhi luminosi e amorevoli.

Che sia tempo di attesa e di ritorno.

Che sia tempo di Luna crescente.

A cura di Save the Words®

1 In Percovich L., Oscure madri splendenti, Venezia, 2007, p. 24
2Ibid., p. 31
3 D’Ariès A., La voce dell’antica Madre, Edizioni della Terra di Mezzo, Milano, 2000
4In Percovich L., Op. cit., p. 39