Eravamo sballottati come delle pecore prima della tosatura.

Il camion verde agonia su cui ci stavano deportando, si sarebbe inerpicato dalla stazione su fino alla caserma che domina la rupe di tufo di Orvieto. Apparentemente imperturbabili agli eventi, un’occhiata di sbieco tra prigionieri ci aveva subito regalato una risata; il famigerato primo giorno di naja si stava edificando davanti a noi pronto ad essere lavorato per l'album dei ricordi. La Gazzetta dello Sport del 29 Luglio 1982 titolava che Trevor Francis era della Sampdoria. Uno sconosciuto sardo smadonnava dicendo che non poteva sopportare l'idea che per un anno qualcuno gli avrebbe scopato la donna della sua vita con cui poi avrebbe messo su famiglia, fatto figli, sarebbe invecchiato e seppellito. Si domandava a voce alta come si potesse non scopare per un anno a vent'anni.
Un uomo comprensivo.
La stava già perdonando.
Un uomo raro consapevole del costo dell'amore.

Ultimo baluardo occidentale di mantenere un rito d’iniziazione, come il salto nel vuoto legati alle caviglie dei giovani di alcune tribù della Papua Nuova Guinea, era arrivato il momento chiave per un giovane maschio italico del XX secolo: il servizio militare.

I dettagli del suo aspetto informavano dell’odio totale per la divisa che avremmo dovuto vestire, il disprezzo per tutti i militari del mondo e le loro regole ridicole. Impazziva per i Rolling Stones e, cosa incredibile, sembrava il figlio di Mick Jagger, stessa faccia scavata, stessa bocca da rana, stesso modo di camminare. Si chiamava Maurizio Longobardi, era di Rozzano paese noto per fatti di sangue e malavita alle porte di Milano, e aveva una voce che sembrava un doppiatore, bella e inconfondibile. Aveva portato con sé la chitarra e attaccò Sympathy for the Devil (…pleased to meet you…won’t you guess my name…), e dopo un breve momento di imbarazzo i poveri disgraziati seduti sui cassoni cominciarono a fare il celebre coretto "uh uh…uh uh…”.

L’ingresso in caserma cantando a squarciagola tra i fumi atroci degli scarichi della nafta del vecchio mezzo verde, mi diede una sensazione di libertà sfrenata, certo che nessuno al mondo avrebbe potuto mai condizionarmi. Come da dentro Apocalypse Now Orvieto mi evocò il sud-est asiatico, ma bastò qualche giorno per capire che non saremmo andati a cercare il colonnello Kurtz, ma avremmo trovato latrine da pulire senza detersivo, vassoi unti per sempre, il festival della stupidità imposta per legge. Orvieto era una caserma di smistamento, si stava per un mese per il cosiddetto CAR (Centro Addestramento Reclute) e poi da lì, verso le destinazioni definitive sparse per tutta la penisola. Durante il mese che avremmo passato insieme Maurizio ed io saremmo stati inseparabili, sia dentro sia fuori la caserma. La musica, la voglia di ghignare ad ogni costo, la sua ribellione a tutto, i suoi racconti della strada dell’hinterland milanese me lo facevano apparire come un Siddartha metropolitano.

Io proveniente da una famiglia di imprenditori per sbaglio, in realtà musicisti, ceramisti, amanti delle feste, dei libri e della cucina, abitante di una città come Cremona, avvertivo la possibilità attraverso di lui di entrare in un teatro di periferie, di sottoscala pericolosi, di palazzoni con vista sulla tangenziale Ovest, di spacciatori e capannoni all’asta, di puttane e guardrail divelti, di disagio e tenerezza. Era un mondo agli antipodi rispetto al mio, fatto ancora di campagna vera, di legna che arde nel camino, del savarin di Cantarelli a Samboseto, di notti estive a prendere rane o a far la doccia sotto gli irrigatori. Per questo lo trovavo irresistibile.

Fu la prima volta in cui capii di essere attratto da tutto quello che è lontano da me. La sorpresa fu grande quando ci informarono che tutti e due saremmo stati a Orvieto per un altro mese a fare il ‘CAR Avanzato’. Succede raramente, e incredibilmente riguardò tutti e due. Quella sera festeggiammo la possibilità di prolungare la nostra amicizia per un altro mese, almeno fino alla fine di settembre.

La caserma di Orvieto era la capitale dell’angoscia, un cortile enorme buono per adunate e plotoni d’esecuzione, assediato da stanzoni lerci e muri epigrammati dai reclusi che nel corso di decine di anni si erano succeduti in quel mattatoio. Tra questi Pier Vittorio Tondelli, passato di lì l’anno prima di noi, che ne darà una grandiosa descrizione nel suo libro Pao Pao.

Maurizio era sgamatissimo con le ragazze e io, come quei pesciolini che vivono di fianco agli squali per raccogliere le briciole, speravo di trovare qualche avanzo per me. Invece lui rimorchiava e io tornavo in caserma a dormire. La caserma è un obitorio dell'anima in cui a vent’anni, pur con i testicoli gonfi, la tua fisicità si annienta e hai solo voglia di chiudere gli occhi per non far uscire le lacrime. Il 2 Ottobre ci comunicarono il nostro trasferimento definitivo. Chi ci vide abbracciati urlando pensò che ci avessero dato il congedo straordinario, ma il motivo era più semplice. Se il prolungamento del mese precedente era stato un fatto anomalo, il nostro imminente trasferimento era quasi incredibile. Saremmo andati a tutti e due a Torino nella stessa caserma: la Morelli in Corso Unione Sovietica, un nome una garanzia. Non saremmo stati nello stesso Reparto, ma le sere le avremmo passate insieme. Il 5 Ottobre 1982 arrivai a Torino, lui qualche giorno più tardi.

Lui si sentiva a proprio agio in una città come Torino, piena di locali, teatri, e posti in cui incontrare delle femmine. Durante una licenza comune venne a Cremona a casa mia dove - come capitava spesso - c'era una festa piena di musica e gente, e fu particolarmente colpito da ciò. Mi confessò che aveva sempre pensato a città come Cremona come luoghi in cui non succedeva niente, e non riuscì a capacitarsi di come fosse possibile trovare un’atmosfera del genere in una casa appena fuori dal centro città, con dei campi circostanti. Gli feci capire che Casa Anselmi non rappresentava una famiglia standard cremonese. Lui sorrise abbracciato a mia mamma.

A Torino passammo insieme l’autunno, l’inverno, la primavera e l’inizio dell’estate. Finché lunedì 18 Luglio 1983, arrivò il fatidico giorno del congedo. Quella mattina si separavano per sempre degli sbandati in attesa di diventare un imprenditore affermato del pesce congelato a Genova, un produttore di coltelli novarese trasferito per amore a Cremona, un ingegnere aostano più attento al controllo dei camosci in Valpelline che alla sua attività professionale, un direttore d’orchestra romano che dirigerà per anni il teatro dell’Opera di Istanbul.

E poi Maurizio ed io.

Non ci avrebbe più aiutato il fato. I merdoni militari - glielo dobbiamo riconoscere - avevano prolungato la nostra amicizia, decidendo loro per noi.

Ma la vita dei grandi ci chiamava, desiderosa di farci mettere la testa sulle spalle con le tappe obbligate: obiettivi professionali, mutui, matrimoni, figli, responsabilità, divorzi, carrelli della spesa in cui ci si è sempre dimenticati di qualcosa, avvocati, tradimenti fatti e subiti, bollette scadute, vacanze programmate, terre promesse, amori rimpianti, le Olimpiadi di Atlanta, la voglia di tornare sui libri, affitti in nero, il sogno di scopare la vicina in garage per ricordarsi che si è vivi, i funerali dei genitori, litigate furiose di cui poi non ricorderai il motivo, l’abbraccio dei tuoi figli che ti fa passare tutto, la nostalgia di quel giorno sul camion a Orvieto.

Lo accompagnai sotto casa sua a Rozzano. Sprofondati sui comodi sedili della Citroen DS di mio padre, nel viaggio da Torino verso casa, parlammo poco e senza guardarci troppo in faccia. Al momento del saluto, quasi contemporaneamente ci uscì un “…non diciamoci niente…”.

Ci abbracciammo molto forte, credo per dieci secondi o forse venti, dandoci due pacche sulla schiena alla fine. Ciao mi disse e se ne andò. Intanto che sparivamo dalle nostre vite intonai lo “uh uh” della canzone degli Stones e lui, senza girarsi, alzò il pugno destro al cielo. Non ci sentimmo più, neanche una lettera o un augurio natalizio. Eppure a volte transitava nella mia testa. Mi ricordo di aver cercato, senza successo, il suo numero sotto la Galleria Vittorio Emanuele a Milano quando c’era ancora la Sip, e dove era possibile consultare quintali di elenchi telefonici di tutta Italia, prima dell’avvento dei cellulari. Vagheggiavo di andare a Rozzano e chiedere dove fosse finito, ma poi tutto svaniva, tritato dal nulla giornaliero.

A volte mi sembrava una forma di rispetto conservare la nostra amicizia all’interno dei ricordi di un periodo irripetibile, che non sarebbe tornato più. In altre giornate, invece, la nostalgia mi diceva che dovevo cercarlo, e una volta immaginai di vederlo camminare verso di me e senza dirci niente, ci saremmo abbracciati forte.

Intanto quel 18 Luglio 1983 si allontanava sempre di più.

Giovedì 28 Agosto 2003

Mi ero svegliato presto quella mattina. Ero a Tellaro, vicino a Lerici, dove avevo passato due giorni con mia figlia Clelia e sua mamma. Dovevo rientrare rapidamente perché il mio ristorante “La Granda” a Casalbuttano, qualche chilometro da Cremona, riapriva dopo il turno di chiusura di mercoledì, e alla sera avevamo diverse prenotazioni.

Nei pressi di Aulla mi fermai a un Autogrill a far benzina, approfittandone per un caffè. Scorsi distrattamente i giornali e venni colpito da un’inchiesta riportata a grandi caratteri da uno dei principali quotidiani nazionali. Si analizzavano sociologicamente le periferie delle metropoli dopo i gravissimi fatti di Rozzano, dove qualche giorno prima un malavitoso aveva ucciso quattro persone. La famosa Rozzano di Maurizio, col suo carico di vite sul filo del rasoio. Accantonato l’interesse per questo evento, mi resi conto di come il pensiero di Maurizio mi stesse percorrendo in lungo e in largo. L’avevo anche cercato qualche anno prima su Internet, ma di lui nessuna traccia. Eppure sapevo che all’epoca della naja aveva a che fare con televisioni private, cameraman, fotografi. Rivedevo momenti della nostra amicizia e decisi, proprio in quell’istante, che sarei rientrato in contatto con lui, se non altro per sapere dov’era, come gli era andata la vita. Pensai che era più di vent’anni che non ci vedevamo né sentivamo e, se veramente avevamo condiviso qualcosa, meritavamo di provare a stabilire un contatto.

Arrivai a Casalbuttano verso le 10.30 pensando non solo di preparare cibi per gli ospiti, ma col chiodo fisso di rintracciare Maurizio.

Ore 20,00 dello stesso giorno

Il ristorante aveva già ospiti seduti, e io stavo spiegando il menù a sei persone sedute al grosso tavolo, quello posto vicino al telefono. Il telefono prese a squillare e io, con lo sguardo torvo, feci segno ai miei collaboratori di rispondere. Ma essendo pieni di piatti da consegnare non potevano farlo. Scusandomi coi miei ospiti, risposi io.

“La Granda buona sera”.
“Buona sera, volevo parlare con Beppe Anselmi”.
Sette parole. Buona-sera-volevo-parlare-con-Beppe-Anselmi.

Il cuore aumentò il battito come impazzito improvvisamente. Il cervello, come se stesse cercando di tradurre frammenti di un programma disabilitato, era incapace di qualsiasi attività.

Cuore impazzito, cervello in tilt.

Fu allora che la parte di me che comanda da sempre le mie azioni nella vita, le mie viscere, cominciò a spiegarmi cosa stava succedendo.

Le budella piegate in ogni loro ansa mi facevano male, un dolore bello. Il corpo aveva capito tutto, pori della pelle, cistifellea, peli del naso, anche le costose otturazioni. Solo il cervello rimaneva sordo. Per farlo contento, riflesso condizionato dell’apprendimento, mi uscì una domanda di cui conoscevo la risposta.

“Chi parla?”.
Quella voce inconfondibile che avevo conosciuto un secolo prima aggiunse altre tre parole.
“Sono Maurizio Longobardi”.

Come in un film di fantascienza quando il protagonista ha la sensazione di essere la vittima di una macchinazione superiore alle sue capacità di comprendere, sentii girarmi la testa. La realtà lavorativa reclamava del Cabernet e della crostata, e io ebbi la sensazione di essere dentro a un sogno e che di lì a poco mi sarei svegliato. Nel mio letto o in una fumeria d’oppio di Bangkok.

“Mi scusi, sono un suo amico di tanti anni fa, se è lì può passarmelo?”
“Cazzo, cazzo, cazzooo - cominciai a urlare senza controllo - sono io Maurizio e se tra un po’ non mi senti più è perché son svenuto”.
“Ma perché piangi, Beppe?” mi disse.

Dieci minuti di parole a velocità diverse, furono sufficienti a dargli un quadro di cos'era successo quel giorno. A quel punto sembrò che piangesse pure lui.

Mentre i miei clienti mi guardavano come si guarda un rapinatore di una banca, gli proposi di raggiungerlo subito, appena finito il lavoro.
“Vengo a Milano con dello Champagne, beviamo tutta notte e ci ubriachiamo per festeggiare il nostro nuovo incontro”.
Fu allora che si mise a ridere dicendo che quella sera non era possibile.
“Cos’è, tua moglie ti sgrida se torni tardi? Il tuo capo ufficio domani ti rompe le balle se ti vede con le occhiaie?"
“No - e continuava a ridere, quasi imbarazzato - è che io vivo da 12 anni a San Paolo”.
“Tu mi stai chiamando da San Paolo?”.
“Sì”.
“San Paolo del Brasile, vero?”
“Certo”.
“Ma perché mi hai chiamato proprio oggi?”
“Perché è da tempo che ho in mente di farlo, e oggi mi sono detto che ti dovevo trovare a tutti i costi. Attraverso Internet, ho scoperto che avevi un ristorante e ti ho chiamato.”

Mentre il cuore, a fatica, cominciava a riprendere un battito regolare, la conversazione andò su cose quotidiane.

“E tu cosa fai?”, gli domandai.
“Ho un ristorante, come te”, rispose.
“Ti sei sposato Maurizio?”
“Due volte e due separazioni”.
“Come me”, aggiunsi.

Quando depositai il telefono feci fatica a rientrare nella normalità di una serata di fine agosto in un ristorante cremonese. Non riuscivo a capacitarmi di come potesse essersi verificato un evento simile proprio a me, il più scettico del mondo su argomenti che non siano scientifici, provati e concreti.

Ricapitolando

Una persona a me molto cara, con la quale avevo avuto un’amicizia vera e profonda, che non sentivo da 20 anni e un mese, mi aveva telefonato senza che io gli avessi fatto avere il mio numero telefonico, senza sapere dove abitassi, proprio nel giorno in cui io, avvertendo un’esigenza feroce di stabilire un contatto con lui, avevo deciso che l’avrei trovato a tutti i costi.

Come se questo non bastasse, lui viveva da dodici anni in Brasile facendo una vita sostanzialmente come la mia (matrimoni, ristoranti, separazioni).

Quella notte feci fatica a prender sonno. Cercavo di razionalizzare i fatti e mi scoppiava la testa. Alla fine mi arresi e addormentandomi pensai alla 'Frank Capra' che la vita è meravigliosa.

Nei mesi successivi ci sentimmo e scrivemmo spesso. Scoprii che non solo aveva un grande ristorante a San Paolo, ma aveva continuato con la sua passione giovanile della fotografia e dei documentari. Era uno strenuo sostenitore della causa ambientalista, aveva girato importanti cortometraggi al riguardo, e anni dopo sarebbe stato ricevuto anche dal presidente Lula all’interno di un progetto di salvaguardia delle foreste amazzoniche.

Maggio 2004

Quella domenica di primavera ero emozionato. Milano era bellissima, e un tepore più robusto del solito la rendeva un vero antipasto dell’estate. L’appuntamento era alle 5 del pomeriggio in una via adiacente al Castello Sforzesco. Come sarebbe stato vederlo? L’avrei riconosciuto subito o avrei dovuto fare un lavoro di invecchiamento sul volto, come fanno quelli dell’Antimafia per ricostruire i lineamenti dei latitanti da più di vent’anni? Fu tutto molto più semplice.

Sapendo da che parte sarebbe arrivato, mi concentrai sui passanti a cinquanta metri da me. A un certo punto focalizzai un uomo che mi sembrò con la barba. A quella distanza non potevo vederlo bene in faccia, ma cominciai a sorridere. Di lì a qualche secondo avrei potuto scorgere le ammaccature del tempo che passa, ma quelle braccia mosse fuori tempo rispetto al corpo, quella camminata asincrona, era rimasta identica. Arrivato a cinque metri da me si fermò. Cominciammo a scrutarci ridendo in silenzio.

Lui era lui, anche se Mick Jagger se n’era andato. Qualche anno prima un virus sconosciuto l’aveva reso cieco da un occhio, diventato progressivamente bianco e fisso nel vuoto. Il suo volto sofferente incorniciato da una barba incolta, evocava in me un predicatore dell’Ottocento, o forse solo il mio amico meraviglioso. Ci abbracciammo forte come quella mattina a Rozzano.

Due pezzi di un qualcosa appartenente al passato, che magicamente si ricomponeva grazie a una comunicazione senza fili, in grado di irridere al tempo, allo spazio e alla dittatura della quotidianità. Qualcosa di estinto, una luce intermittente come i fari sulle coste, illuminante i ricordi per qualche secondo nel buio delle nostre giornate, era lì più viva che mai, a fare le boccacce anche a noi. In quel momento, sentii la vita far un gran baccano dentro di me, molto più di quello che avrei potuto immaginare.