È largo e immobile il fiume che si stende sulla pianura senza vento e riflette la luce del tramonto, vuoto di nubi, fino a farsene trascolorare nei bagliori del rosa, del lilla, del grigio argentato.

Il cerchio rosso del sole va appoggiandosi sull’acqua che lo accoglie in un liquido abbraccio e sembra riscaldarsi al contatto del suo corpo potente.

Vecchi rami caduti al vento si raggrumano a formare piccole isole appoggiate sulla distesa d’acqua, come zattere protese ad accogliere la sosta dei gabbiani che solcano l’orizzonte con il loro grido.
Toccando la corteccia di un albero si percepisce la vita che lo attraversa.

C’è silenzio, c’è assenza di cose, c’è sguardo che incontra la vastità del cielo e induce all’ascolto di ciò che non riusciamo ad udire nel movimento incessante degli accadimenti che identifichiamo con la vita, sempre all’inseguimento di un traguardo da raggiungere, di qualcosa da possedere.

È un’impressione di fissità che pullula di infinitesimi movimenti.

È una visione di vuoto che è colma di presenze.

L’aria è intrisa di quiete e di tanto in tanto qualche suono sale, cadenzato come una litania, ritmato come una preghiera.

Un lieve rumore: è un frutto troppo maturo che si stacca dall’albero, è il guizzo di un pesce nell’acqua che si propaga come un cerchio di sonorità.
Non sono che attimi: meraviglia dell’impermanenza.

La natura è pervasa da un’emozione sacra e il cuore la condivide.

Si resta come in attesa con la certezza di essere uno con lo spirito del luogo, sfiorati dal soffio della vita che è ritmo e traccia impalpabile, in una immobilità che è stupore, che è gratitudine di bellezza.

È uno stato di grazia armonioso, libero e fluido che ci impregna con la forza e la spontaneità con le quali si generano i fenomeni della natura.

L’anima vuole elevarsi, respirare quel frammento di eternità, nutrirsi di luce, riscoprire quella purezza di emozioni che sta sepolta nel profondo, provare la gioia dell’immergersi nella pienezza del sentire, dell’appartenere.

Ci si lascia “trafiggere” dalla bellezza che si dona a chi si ferma a contemplarla. Si avverte il mistero, il segreto di ciò che non può essere catturato dalla “mente predatrice” ma soltanto accolto dal cuore che si lascia attraversare dall’esperienza estetica: esperienza del sublime che trascende la voce della parola e la ferma nel silenzio ambrato del crepuscolo.
Abbraccio sconfinato.

Lo sguardo si apre all’ascolto, il dire lascia spazio alla meraviglia che condivide la radice etimologica con il miracolo, si fa ritorno ad una visione del mondo nella quale l’umano e il divino, il profano e il sacro interagivano. Il miracolo altro non era se non il manifestarsi dei prodigi che la divinità mostrava agli uomini perché ne assaporassero la bellezza, ne traessero conoscenze, perché potessero continuare a provare stupore, ad essere capaci di accogliere lo straordinario, l’impossibile, a tramandare la forza del mito.
Il miracolo ci sfiora in ogni attimo del tempo ma non siamo più in grado di vederlo.

Essere “capaci” significa essere “capienti”, essere dunque vuoti e pronti a ricevere, ad accogliere e, in verità, soltanto uno sguardo libero, soltanto un orecchio aperto sono in grado di contenere e comprendere la potenza creatrice che fluisce nello splendore e nella perfezione di un tramonto sul fiume.

Abbandonarsi alla bellezza è fare silenzio, un silenzio pieno di meraviglia nel quale può emergere e districarsi quel groviglio di pensieri, paure, tormento che avvince il cuore come una ragnatela di oscurità.
Si affievolisce l’eco del mondo.

C’è un modo di manifestarsi della bellezza che condivide la sostanza di cui sono fatti i sogni, che è possibilità di accedere ad altre dimensioni nelle quali è il sublime a manifestarsi.
La visione onirica dà esistenza e si mischia con realtà che sconvolgono le regole del dire e del comunicare.
È lì, in quei territori, che bisogna camminare per incontrare il nostro essere oltre gli schemi della cultura, oltre le regole sociali.

Non c’è da capire né da interpretare quanto piuttosto da lasciar affiorare come accade ad una fonte a lungo ricoperta dalla terra e per fare questo bisogna ricordare ovvero “ritornare al cuore” dove sta depositata la capacità di intuire la nostra appartenenza al tessuto originario dal quale sempre più ci siamo allontanati.
Non descrivere, né raccontare, non cercar di fermare in immagine duratura bensì assorbire la linfa che nutre le cellule con le emozioni, con le sensazioni che ci rapiscono in un istante indicibile.

Dal territorio sommerso nel quale il cuore si rifugia senza che la parola possa dargli voce iniziano ad emergere tracce di una “memoria profonda” ed è miracolo quando lasciamo che si schiuda l’involucro coriaceo della nostra personalità che è la nostra maschera per lasciar dilagare la forza del nostro sentirci parte di quella mente universale che porta con sé ragioni che vanno ben al di là delle convenzioni, dei ruoli attraverso i quali veniamo plasmati per adeguarci al quotidiano.

La sosta contemplante permette che il velo della memoria apra un pertugio attraverso il quale la bellezza si fa esperienza conoscitiva.

Il sublime, la meraviglia riescono ad inondarci quando c’è uno spiraglio, un cedimento che permette loro di espandersi.

Questo sguardo appartiene ad ogni uomo, è lo sguardo contemplativo, appartiene all’essere profondo. Scaturisce da quel fondo oscuro e insieme luminoso in cui l’anima si fonde nello spirito. Oscuro perché chiede annichilimento, nudità. Luminoso perché conduce verso lo spirito che è luce1.

Uno sguardo che è capace di pienezza:

attimo eterno che dona distacco estatico, che porta sull’onda del meraviglioso. Qui è sguardo contemplante. Sguardo capace della bellezza, sguardo che assume capienza perché contenitore vuoto2.

Occorre poesia per liberare lo sguardo dall’ingombro che lo offusca, occorre quiete, bisogna riscoprire il benessere di essere contenuti in un grembo, rivivere l’esperienza dell’essere frammento dell’intero universo, di uscire alla luce dopo il compimento misterioso di una gestazione che ci ha reso partecipi di antiche verità.

Conquistati dalla bellezza ci facciamo più accoglienti, più capaci di comprendere oltre la ragione e c’è allora una dimensione sacra che illumina l’esistenza.
“La bellezza è la vita quando la vita disvela il suo volto sacro” dice Kahlil Gibran.

Questo osservare, questo sostare divengono un modo, un bisogno che aiuta a placare il turbinio della mente che non vuole cambiare punto visuale, che cerca di tener salda la propria centralità.

La natura chiede che ci lasciamo investire dalla sua forza, toccare dal mistero, dall’imponderabile.

Se ci immergiamo nella bellezza e nel silenzio sentiamo forte il desiderio di ritornare in equilibrio, di ritrovare quell’armonia che sentiamo minacciata dalle stonature del rumore, dal disordine, dalle voci stridule della realtà che è il contenitore nel quale siamo affondati.

Nel silenzio si può trovare la parola che dice l’ineffabile.

A cura di Save the Words ®

1 A. Lumini, Memoria profonda e risveglio, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2008.
2 Id. Ibid.