Il comunicato che lo sfratto era esecutivo gli diede un senso di pace non previsto. Il suo ristorante, La Gabbia, doveva chiudere. Le banche avrebbero chiesto istanza di fallimento. I fornitori avrebbero banchettato sui suoi resti.

Isidoro stava lì, fermo, un po' rigido, come un pezzo di scamone tolto dal freezer durante le ore necessarie allo scongelamento. Un pezzo di carne morta che riprovava a vivere. Aveva esaurito un periodo tormentato ma ora stava bene. Il conflitto era finito. Non sarebbe stato più quello di prima, ferite indelebili, lesioni permanenti. Però tornava a casa, vivo. Avrebbe ripreso a riconoscersi e non più intossicato da scadenze, dipendenti, gli igienisti dell’ASL o dai preventivi per i Signori del Lions che fanno la serata di beneficenza e vogliono un menù semplice, con antipasti-primi-secondi-dolci-vini-caffè a 18 euro tutto compreso, perché loro sono gente perbene.

Loro non pensano solo al guadagno come fanno i ristoratori. Isidoro non sarebbe durato un giorno di più, ma fu solo lo sfratto a farglielo capire. L’amore per la sua professione era morto. Non una morte improvvisa, un'agonia lenta, irreversibile, naturale. Lo scollamento tra lui e le persone che ospitava alla Gabbia era orribile.

Le prime avvisaglie le ebbe una domenica a pranzo, quando fu visitato da un gruppo di imprenditori di successo, quelli che durante la settimana producono plastica, comprano veleni, creano posti di lavoro per i bambini in Pakistan a 1 dollaro al quadrimestre, e poi la domenica vengono in campagna per ritrovare i sapori di una volta.

Un giorno a uno di loro non funzionerà il Telepass e poiché loro non possono mai rallentare perché son manager e non dei camerieri dimmerda, la loro auto hitleriana silenziosa si aprirà nella parte superiore come gli autobus per turisti a Londra. Quel giorno, il testimone oculare dell'evento, abbozzerà un sorriso. In mezzo a questi criminali perbene, Isidoro venne colpito dalla chioma marmorea di un loro discendente, un quindicenne già vecchio. La sua faccia precotta posta centralmente al di sotto della scultura di pelo raffermo, aveva perso la profondità ed evocava una fotografia: il quadro d’insieme evocava una tomba. Lui e i suoi consanguinei maschi parlavano, da un tempo non definibile, di due squadre di calcio della stessa città; gli esemplari femmina dibattevano sulla professionalità di un noto presentatore televisivo pingue e stempiato: i vocaboli, semplicità, a modo, brava persona, serio, simpatico, vennero ripetuti con scansioni tipiche della pubblicità. Le loro proposizioni erano come cerchi concentrici: da qualsiasi parte cominciassero enunciavano sagome verbali che riconducevano all’inizio, comunicando il niente, rassicurando tuttavia gli interlocutori. Dalla cadenza delle loro voci vennero riconosciuti come appartenenti a un’etnia di stanza tra Brugherio e Dalmine. Il ragazzo diceva che la crostata con le pere e il gianduia - la specialità di Isidoro - era immangiabile. La mamma dopo aver estratto dalla borsa, assorbenti, una carta di affiliazione a una catena di grande distribuzione, un rossetto aperto e smozzicato, un orologio di pregio con dei capelli lunghi incastrati nel cinturino d’acciaio, riuscì finalmente a recuperare una chinderdelis. Sono merendine soffici da consumare preferibilmente entro il 2101; così morbida che era spiccicata come libellula contro il parabrezza dell'estate.

La mamma si scusò dando la colpa ad un grosso volume, la Guerra del Peloponneso di Tucidide, che era in allegato ad un noto giornale razzista. La tortina riportò pace e armonia. La mamma incapsulata dentro camicia di seta bianca trasparente, con reggiseno bianco trasparente. Installata su jeans da 450 euro a vita bassa che proponevano glutei consumati dal tempo e dagli obiettivi di vita. La mutanda sottile cercava - per quel che poteva - di coprire i due ospiti. A quella vista Isidoro associò il filmato degli anni '70 con i profughi con le coperte sulle spalle, rifugiati sul tetto dell’Ambasciata Americana a Saigon in attesa degli elicotteri. La presenza di cellulite, al momento, gliela rese meno fastidiosa, più vicina ad un cameriere come lui. Sembravano le incisioni del sacrificio, come quei braccianti che a 40 anni ne dimostrano 60 ma ce l’hanno fatta a comprarsi una piccola fottutissima casa. I vini erano diventati tutti uguali. Il cibo anche. Nessuno, e forse non è una colpa, era più in grado di riconoscere una materia prima di qualità da una creata ad arte in qualche industria di Lumezzane. Per millenni le papille gustative hanno mandato informazioni al cervello, codificando cosa ci piaceva, quale cibo ci aveva dato una certa emozione, quali spezie si avvicinavano di più al nostro stile che, lo so che può sembrare un’osservazione sovversiva, era unico e personale. Poi sono arrivati gli spot - quelli fatti dai creativi - con cui si è invertito il processo informativo. Si lavora sul cervello facendogli vedere un culo strepitoso che si muove lentamente, associandolo a un vino liquoroso che è un veleno. Lo si tracanna nella speranza che si materializzi quel fondoschiena. Anche se può sembrare impossibile in un mondo che si fonda sulla verità, la libertà, la democrazia, sulla trasparenza bancaria, sui diritti del consumatore, quei glutei non arriveranno mai. Nel frattempo le papille gustative, che non hanno visto lo spot con le chiappe e convinte ingenuamente di trovarsi ancora in un corpo che le assecondi, vengono travolte dall’onda anomala del veleno industriale. Ma loro attendevano un bicchiere di Nebbiolo, di Pinot Nero, magari solo un goccio di sidro. Come nel caso del culo anche questo non arriverà mai. Tra migliaia di anni ricorderemo il tempo in cui dialogavamo con le papille gustative. Convegni e mostre retrospettive indagheranno il loro ruolo nel Medioevo o nell’Italia pre-Risorgimentale. In Medicina vengono già considerate parti inutili come l’appendice.

Oggi ricoprono cariche di sola rappresentanza.

Testimoni morti di quando eravamo liberi. La passione per il cibo proveniva dalla sua famiglia. Cucinavano tutti. Genitori, nonne, zie, sua sorella, lui.

Isidoro aveva preparato da mangiare per la prima volta a 11 anni: un sugo con salsiccia e cipolle unito ad una pasta decisamente al dente. Tuttavia erano i profumi dei cibi e delle materie prime a fargli perdere la ragione: soffritto, dolci, stufato, basilico, aglio, spezie. Diceva - per fare il bullo - che avrebbe potuto mangiare solo gli odori, e un po’ era vero. Chiunque andasse a casa sua, per poter avere accesso alla cucina e alla sala da pranzo doveva garantire l’assenza di profumi e deodoranti, cose buone per i cadaveri diceva suo padre. Quando entrava qualcuno a La Gabbia veniva annusato. Se si sentiva molto profumo veniva messo nel girone dei nemici e tutti si premuravano di farglielo capire. Preceduti dal loro effluvio di gruppo, gli aromatizzati si aggiravano nervosi nei pressi della cucina di Isidoro, avvertendo gli odori del passato, di quando non potevano avere le loro adolfe auto silenziose. L'emanazione del cibo della nonna con le ciabatte, li ributtava nel dramma del loro passato contadino. Lui sognava di cucinare uno di loro.

L’avrebbe steso sul tavolone vicino al camino, coadiuvato dai suoi aiutanti come in quelle serie televisive in cui - per trovare l’assassino - siamo tutti diventati esperti di autopsie. L'avrebbe cucinato per diletto, per divertirsi. Isidoro aveva percorso la strada tra Dragona e Vasalbetagno 4 volte al giorno.

Per 13 anni, un mese e un giorno. Durante il tragitto, il suo cervello senza preavviso buttava fuori il nome di una Ditta e immancabilmente, tac, 300 metri dopo appariva il cartellone pubblicitario con l’insegna della fottuta azienda. Si sentiva male, come quegli adepti di una setta quando si rendono conto di essere stati fregati.

Sognava di avere la macchina sollevata quattro spanne da terra per poter uscire dall’asfalto, ridisegnando traiettorie uniche, irripetibili, sopra i campi circostanti, raggiungendo ogni giorno La Gabbia attraverso una strada diversa che l'indomani non avrebbe più trovato. Il suo movimento a pendolo, ripetuto 4 volte al giorno, nei due sensi di marcia, lo informava dello stato di reclusione in cui viveva, facendogli pensare a Rudolph Hess come a un collega. Le dittature di quelli coi baffoni e coi baffetti sono state surrogate da quelle dei cartelloni in ogni luogo, degli schermi nelle stazioni, degli slogan sempre. Un giorno il Dio del Buon Senso, nello stesso momento su tutto il Pianeta, segherà tutti i cartelloni pubblicitari stradali, gli schermi nei luoghi pubblici, farà esplodere tutti i televisori del mondo.

Le liturgie della pubblicità non saranno udibili per poco più di un giorno.

Saranno 25 ore che cambieranno il mondo, durante le quali i creativi della pubblicità, i geni delle strategie marketing, verranno processati a Norimberga ed impiccati.
Solo durante quelle 25 ore al posto dell’asfalto riappariranno strade sterrate e spariranno le tangenziali, i quadri di Renzo Botti e Carlo Bugada saranno esposti permanentemente agli Uffizi mentre si potranno trovare opere di Andy Wharol nelle discariche ai margini delle città. In quelle ore meravigliose, per una non spiegabile alchimia socio-linguistica, riusciremo a parlare solo nel dialetto della nostra città. Tra cent’anni faranno i libri fotografici su com’era la Tangenziale Est nel 2003 e ci saranno convegni sociologici dal titolo Soste all’Autogrill 1970-2025 – Fenomenologia del Camogli. Al rinfresco verrà servito solo pane e lampredotto. Le cene aziendali di fine anno erano quelle che Isidoro aspettava con più gioia. Non solo perché aumentava gli incassi, ma perché poteva vedere da vicino gli atteggiamenti di un gruppo di persone, di una comunità, di una tribù. Come Diane Fossey tra i gorilla, scrutava le dinamiche comportamentali, le strategie di potere e si domandava come delle persone potessero accettare tutto questo.

Un gioco da depravati della sopravvivenza in cui ci si sfida con sguardi e frasi allusive cercando di capire quanto il 'capo' ti renderà la vita un inferno, o come il 'sottoposto' potrà contraccambiare consapevole di poter sabotare le attività aziendali.

Ansia da giochi di potere tra poveri, intanto che si stappano bottiglie di vino, augurandosi Buon Natale. Il mondo funziona così. Isidoro aveva anche persone adorabili che lo andavano a trovare a La Gabbia. Piccole vite delicate che trovavano da una bestia come lui, un luogo scarno ma accogliente, un cibo essenziale ma rassicurante. A loro andava bene qualsiasi proposta, bastava che gliene parlassi lui e, possibilmente, gliela portasse sempre lui.

È forse solo grazie a loro, che è durato 13 anni un mese e un giorno in quell’inferno.
Una sera andrà a casa loro, col suo grembiule a righe verticali, il coltello grande ricurvo con la fondina di cuoio che gli balla sulle chiappe e la sua padellona gigante.

Tre cipolle, del lardo, del guanciale e poco altro. Isidoro suonerà il campanello e farà da mangiare.

Niente di speciale ma sarà una bella serata.