A mia figlia e ai miei genitori,

Viene alla luce su un letto di ramoscelli ai piedi di un abete rosso, rosa infuocata, petali mossi da un venticello quasi dolce, intimo, frangette di un panno che sventola e sventola. In questo momento seminale il fuoco è focolare. Sprigiona calore materno, primigenio, incantevole allo sguardo. Scontorna le cose intorno sì che a guardarle sembrano immagini di un sogno e viene da dubitare della loro consistenza stessa.

Poi…

Quel focolare s’infuria.

Goccia dal basso verso l’alto, pioggia infernale alla rovescia, come proveniente da una spaccatura viscerale del terreno, e ogni goccia non si limita a penetrare la parte esterna delle essenze legnose lì ristagnando, ma si rigenera e si moltiplica, si rafforza, accalorandosi, incollerendosi, penetrando l’albero e dando luogo a piroscissione, la quale svapora i liquidi all’interno dell’albero stazionando a un livello collerico di settanta gradi centigradi per passare, una volta terminata la pirolisi, a una soglia critica di cento gradi centigradi, e a questo punto, la vita dell’albero si spezza, e la collera però non si placa e la temperatura raggiunge i centocinquanta, centosettanta, duecento, duecentottanta, quattrocento cinquanta gradi diventando via via, la fiamma, amaranto pallido, poi amaranto, poi rosso sangue, e ora il fuoco mastica l’abete rosso nelle fauci, denti le punte delle fiamme: tritano, divorano, s’ode anche il rumore della masticatura: lo sfrigolio degli aghi, il crepitio dei ramoscelli caduti sotto i colpi del vento o per il peso degli uccelli, lo scoppiettio dei dedali incisi sulla corteccia dell’albero.

La fiamma divora e s’ingrossa, inghiotte e cresce, su se stessa e in se stessa, organismo che da quella rosella originaria, panno sventolante si fa bocca e denti, e si allunga ancora, ingurgitando materia, e dai denti e dalla bocca sboccia una colonna vertebrale e uno stomaco, una pancia enorme, e se dalla bocca primigenia uscivano lingue estendendosi velocissime verso ogni dove, ora dal corpo generatosi dal lavorio di quella bocca primordiale si dipartono lingue assai più tentacolari, e chele di granchi e di scorpione sono ora i denti, sbilenco e filamentoso l’organismo cresce e cresce, intasando l’aria odorosa di foglie secche e aghi di pino e gelsomini e funghi con un puzzo maleodorante, soffocante, facendosi rosso, rosso chiaro, rosso pallido, rosa, arancione, giallo, e quella polla mostruosa sprizzante dal terreno piega l’abete, lo costringe ad animarsi strappandolo alla sua serenità, a muoversi e dimenarsi, come se un vento si fosse alzato improvviso, e il fogliame si annerisce, la corteccia rossa si fa plumbea, come uno squarcio su un panno, un abisso all’interno di una luce infernale, e si leva una cortina di ossido carbonioso e diossido di carbonio, il carbonio nello sposalizio con l’ossigeno trasforma questi in elemento mortale: bene comburente del male, e oltrepassati i duecento gradi centigradi oltre al monossido di carbonio e all’anidride carbonica si sprigionano acido acetico, acido formico, acido propionico formandosi anche alcoli come il metilico, e la collera aumenta, e a quattrocento cinquanta gradi di rabbia cominciano le emissioni di metano e idrogeno, elementi violentissimi, che causano esplosioni, e questa è la stoffa del tessuto che il fuoco usa come sipario per nascondersi: il fumo, e l’aria s’arroventa, come se intorno ogni elemento naturale si trovasse in un fluido caldissimo, acquario all’interno di un forno, paesaggio marino in acque bollenti.

Il fuoco massacra l’albero.

Vi penetra all’interno senza ritegno, violazione assoluta, di ogni anfratto, ogni cellula, rimane la cenere, triturando floema e periderma, polverizzando gli aghi, accartocciando macro e microsporofilli, i suoi fiori, carbonizzando pigne, e il peccio sembra gemere di un dolore infinito, madre annientata con le sue creature in braccio, ancora attaccate alle mammelle, sentendo morire se stessa e le sue creature all’unisono, insieme, e perciò provando dolore per sé e per le sue creature che sono ancora se stessa, e nella coscienza che le sue creature sono anche se stessa e morendo loro percepiscono il morire della madre: crudeltà più immensa non è data, ma il fuoco, infernale, di questo non si cura, e insaziabile, brucia, squarcia, deforma, rabbioso, idrofobo, impazzito, incontentabile, incontenibile dopo essere apparso all’interno di una macchia boschiva sul Monte Argentea all’interno del Parco Naturale Regionale del Beigua.

Un tentacolo si allunga dal peccio a una farnia.

L’eschia è lì con le braccia dispiegate, quasi ad accarezzare, quercia gentile qual è, l’abete, come se si fosse, amorevole, avvicinata poco alla volta, e adesso quanto cara costa alla farnia la vicinanza al peccio! Il fuoco non vede amore in quella vicinanza, o se lo vede di questo si serve, passando dalle pigne dell’abete alle ghiande della farnia, piegando le verdi foglie decidue, gustandosi in un attimo intenso il picciolo, buttando nella sua fornace un dettaglio trascurabile come le due orecchiette alla base di ogni foglia di forma obovata, barbaro ignorante il fuoco consuma qualunque cosa senza distinguere, senza apprezzare, le fauci di squalo tritano, mangiando per il gusto di mangiare, senza guardare cosa vi sia nel piatto, e la farnia, albero dal portamento maestoso ed elegante, annega in quel mare di fuoco, d’improvviso si dibatte, sembra scuotersi, alzare le braccia, e cercare di aggrapparsi al pelo dell’acqua, risalire in superficie, ma è inutile, anche perché quell’acqua gialla, arancione è un acido, e la disfa e la corrode, in brevissimo, costringendola a piegarsi come se un essere invisibile la stesse pigliando a calci nello stomaco, e nel sedere, altro che maestosità.

Adesso il fuoco esiste.
C’è.
Vivo e formato.
Si estende e si stira.
Pigra piovra.
Dal giganteo capo imbutiforme.
Immobile e crassa.

Allunga le appendici periboccali e ovunque, questo cefalopode, trova alimento.

Ha ben più di otto tentacoli, ma venti, trenta tentacoli, infiniti tentacoli, aracnide arancione a forma di ragnatela, e dall’aggressione di altri alberi, altri fiori, altra vegetazione, altra fauna boschiva, ecco nuove teste, dalle mille lingue e dalle mille appendici, e dalle lingue le appendici e dalle appendici le lingue, e da un groviglio di tentacoli sboccia una testa, un’altra, infiammata, demonica, Idra inviata dall’Inferno, mille teste, mille braccia, mille lingue, mille code, mille bocche, se ci si alza a volo d’uccello e si guarda dall’alto, il demone cambia forma senza posa, e diventa tornado, e mare in burrasca, con cavalloni impazziti che si solcano e attraversano, onde di fuoco, esplosioni di schegge e detriti, altro che sassolini e pietre colorate e cavallucci marini e tartarughe!, e al passaggio di questo demone immenso le schegge stesse si disintegrano in un soffio, nulla rimane, nulla viene risparmiato, violazione delle dimensioni più intime, penetrazione nell’impenetrabile, levandosi a volo d’uccello vediamo il diavolo spaventoso diventare montagna, pinnacolo babelico gremito di anime in fiamme e urlanti, innalzandosi al di sopra dell’incendio e osservandolo non vengono in mente se non immagini apocalittiche e terminali, eccolo l’archetipo, il fuoco, e lì, nel fuoco, si scorgono forme di distruzione e devastazione, di rabbia, a opprimere la natura non limitandosi a imprigionarla e schiacciarla ma spappolandola e pezzi e tocchi di quello spappolamento spappolandoli ancora, fino a ridurli polvere e polvere della polvere, annientamento assoluto, impietoso, rabbia adamantina, archetipo di ogni collera, paragone di ogni paragone, paradigma, senza paragoni, e non è possibile conflitto eracliteo col fuoco, l’incendio passa e brucia e la vegetazione non può resistere, la bellezza di un cinquefoglie o di una costolina macchiata o di un gigaro scuro o di un mirtillo nero si disfa in un momento e finisce in niente tra gli sterpi e le foglie morte anch’esse in fiamme, giacché il fuoco non si accontenta di far cessare d’esistere, e non è interessato a fare scempio di questo o quell’oggetto, “fare scempio”, “rovinare”, “odiare” sarebbero una forma celebrativa, anche se patologica, della preda, invece il fuoco è rabbia pura, arde d’ira, e desidera calpestare fino alla cenere, cancellare, come se quella creatura andasse dimenticata, foglie secche, erbacce, rami spezzati, tronchi abbattuti, radici sradicate, cardi rossi recisi, garofani di campo maciullati, eliotropi selvatici fatti a pezzi, crespini sfrangiati, qualsiasi spreco della natura, bruttura di morte, al fuoco sembra tentativo dilettantesco, e i petali staccati come ali di farfalla di un aglio montano conservano ancora una bellezza triste, una genziana ha ancora un brillio anche se calpesta, una spinosa marittima una sua tenerezza anche se riversa al suolo, non basta smembrare la bellezza per revocarla, bisogna scolorirla e deformarla, altrimenti chicchi di bellezza si potranno intuire, immaginare, mentre invece da un mucchietto di polvere non si può risalire a nulla, non c’è più, non c’è stato, non ci sarà, almeno non quello, tentativo inutile, errore, promessa mancata, bellezza sprecata in un mare di fango, e quella bellezza, quella quantità di materia, attenzione!, non serve a placare l’ira ma l’alimenta, distruggere rende più distruttivi, più si mangia più si vuol mangiare, in fondo le fiamme potrebbero fermarsi, consumare una preda, due prede, e invece non c’è sazietà, le fiamme non si fermano, distruggono ciò che possono appena possono, risentimento schiumante, indomito, e potente, senza quasi opposizione, serventesi di affetto e vicinanza come quelli della farnia con l’abete rosso, e si alleano al vento, le fiamme, e alla natura stessa, essendo il fuoco natura fagocitante se stessa, serpente che s’ingoia le uova, ouroboros, e se il bosco fosse animato, come nelle favole, la cespica alpina fuggirebbe, fuggirebbe il geranio malvaccino e l’alisso sassicolo, l’erba lucciola se la squaglierebbe, e se la darebbero a gambe la pimpinella rubra e la carlina bianca, e sequoie, querce, conifere, sugheri, pitosfori, eucalipti, palme correrebbero e correrebbero all’apparir del fuoco, ma non possono, e si sacrificano per consentire ad altri di farlo, anche se alle volte il bosco stesso si ripiega sui suoi abitanti ostacolandoli e facendogli pagare la loro supremazia.

Come per l’orso marsicato.

Dopo essersi cibato per giorni cogliendo i frutti di castagni e di noccioli, dopo aver scovato ciliegi, cibandosi di prugne e amarene, e dopo aver rosicchiato grasse radici, succhiato tuberi di patate, scoprendo tuberi di oca e mashua, dopo essersi gustato galbuli di ginepro e drupe d’alloro, ora sta masticando le orecchie di un coniglio, urlante e dimenantesi, fin quando viene ghermito alle spalle dalle unghie del diavolo tra sboffi di fumo e calore e scoppi improvvisi, tizzoni a saltare nell’aria come denti di un gigante che ha morso qualcosa di troppo duro, e le unghie accarezzano il pelo fulvo dell’orso e lì s’impigliano, e l’orso sta gustandosi le orecchie del coniglio già volendolo squarciare con una zampata, ma il calore improvviso lo costringe a interrompersi nell’orgasmo gastronomico e a lanciare il coniglio lontano e, in una scenetta triviale, il coniglio vola via spiaccicandosi sul tronco di un acero campestre, spezzandosi costole e una zampetta posteriore nell’atterraggio, e subito il diavolo proboscidato gli si avventa addosso servendosi di un’autostrada di aghi di pino, fogliame, rametti e del vento, e lo incendia, gli brucia la pelliccia, fa in fretta ad arrivare alla carne e ad arrostirlo, mentre il coniglio, povera bestiola, con le sue orecchie maciullate e il musino grondante sangue imbastisce un tentativo di fuga reso vano dalle costole rotte e la zampetta spezzata, e se il demone è stato impietoso di qua, ora nella sua caccia all’orso marsicato è mosso, d’altra parte, da sete di vendetta e giustizia, e l’orso non può sfuggirgli, infettato com’è dai tizzoni, spore di un batterio simile al Fuoco di Sant’Antonio, e fa in fretta a incendiarlo, rendendolo torcia animale, goffa, patetica, col muso incappucciato dalle fiamme, facendolo presto sbandare con la sua corporatura tozza e tarchiata, e costringendolo a terra a rotolarsi per scrollarsi di dosso le fiamme come fossero zecche e animaletti, e ormai addentato l’orso soccombe, il muso cilindrico si slabbra, il tartufo nero sul muso schiacciato si scioglie, gli occhi esplodono.

Il combustibile rimane lì, come nuovo avamposto del diavolo scatenato, che presto verrà raggiunto e si salderà al corpaccio alle sue spalle e da cui si può ripartire alla ricerca di altra materia, altri elettroni, nel processo di ossidurazione, altre molecole di carbonio, per gli atomi impazziti nell’alveare fuoco, come a sospingerlo dall’interno, alla cieca, senza direzione in ogni direzione, senza bisogno di direzione potendo quell’organismo passare attraverso quasi qualsiasi barriera, fantasma caldissimo e disintegratore, manifestazione di un’anima che non risparmia nessuna anima plantare, nessun dio verde, fatto di foglie e di intrecci d’arbusti, di vitigni e grappoli d’uva, unico vero e potentissimo diavolo, solo, monodiabolisticamente dominatore, non esiste altro distruttore all’infuori del diavolo, altra anima in grado di resistergli, altro essere ultraterreno capace di manifestarsi in terra, giacché l’acqua si può trovare, e l’aria, e gli elementi naturali, ma il fuoco si può solo evocare, provocare, far nascere, e con pochissimo, mediante uno sfregamento, non c’è nemmeno bisogno di una sfera di cristallo o di una seduta spiritica, basta il fuoco in un camino per chiacchierare con l’aldilà, sorseggiando un brandy o cognac, e una volta spenta, l’anima gialla riferirà ogni cosa all’altro mondo, nel mondo da dove proviene, dimensione inconosciuta, e viene da chiedersi: se questa è la sola anima dell’aldilà che possiamo vedere, significa che nasciamo forse per una condanna? Che il nostro destino è finire nel luogo da dove proviene la sola anima che possiamo evocare? Pensiero cupo, ma qui in mezzo all’inferno del bosco, legittimo, giustificabile.

Farfalle finiscono in polvere, coleotteri deperiscono in un soffio, libellule inesistono in un batter di ciglia, afidi e cocciniglie, cavallette nane e grillotalpe, tricotteri, una bomba d’atomi li annienta e li stermina, gli insetti, capolavori d’ingegneria se osservati al microscopio, ma fragilissimi, anni e anni d’evoluzione e basta una minuscola unghiata dall’inferno per annullarli, un’ape su un croco, un nido di calabroni tra le fronde di un salice, la sua cresta s’infiamma ricordando il capo chino di una peccatrice su un rogo medievale, un nido di rondini su un olmo campestre, un usignolo su una berretta da prete, impettito accanto al suo frutto rosso, ora in fiamme, l’usignolo prende anche il volo, ma divampa, ed è instabile, fa un paio di giri della morte e poi casca su un cespo di ortiche finendo per essere annientato e annientando l’ortica stessa, e il fuoco brucia come bomba all’idrogeno, anche la bomba all’idrogeno è ancora una volta fuoco, assai più potente e disgregatore, ma fuoco e fiamme e incendio e niente altro, avvertimento della natura, di non provarci, a oltrepassare il diaframma tra il creato e ciò che sta sotto il creato, in fondo, potrebbe anche non accadere nulla, la fissione dell’atomo potrebbe avvenire senza conseguenze distruttive, sfregare la selce su un acciarino potrebbe non generare scintille che se non finiscono nel cotone imbevuto di salnitro ma in una qualsiasi parte molle fanno danno, provocano dolore, e invece la natura ha fatto in modo si potesse far nascere - evocare - questa forza disgregatrice poderosa, poiché forse al di là delle cose c’è qualcosa, forse le cose, tutte le cose, ogni cosa, tagliata e tagliata e tagliata, divisa e divisa e divisa, atomi, elettroni, particelle subatomiche, vibrane è un passaggio verso altrove, e questo altrove è prezioso, forse il dietro le quinte della realtà stessa, un insieme di fili e cavetti, ingarbugliati e multicolore, e non si può fare che tu prendi un acanto o una tamerice, la sventri e la squarti e rimane un buco per infilarci un braccio e rovistare cosa c’è dietro alla realtà, troppo rischioso, e perciò ecco predisposto il muro del fuoco, a impedire la conoscibilità di ogni metafisica, e se le cose stanno così, viene da dirsi che, se stanno così, è perché qualcosa di prezioso al di là c’è, da proteggere, o forse non si tratta di autoconservazione ma di meccanismo, insensato, puro mentecatto meccanismo, oppure una punizione del dio creatore per aver anche solo sfregiato un’opera del creato, anche fosse una pietra o un legnetto, e più grande la volontà distruttiva maggiore il pagamento, due pietre e qualche ramo morto fanno un fuocherello, e se non ci metti una mano sopra e stai a debita distanza puoi dirti persino che serve, è lì per te, ma se bruci una foresta la questione cambia.

Infatti il nostro diavolo è apparso dritto dall’inferno.
Adesso la sua furia è incommensurabile.
Brucerà tutto.
Tutto quanto.
Ramificandosi come un arbusto nemico di ogni altro arbusto.
Pianta infestante e onnivora.
Immenso microbo divoratore.
La giornata è propizia.
Oltre le creste delle variegate vegetazioni un sole splendente distende i suoi raggi.
Un ostro si allea al demone.

Proviene da Sud ed è secco in quanto associato a un anticiclone subtropicale africano, che viene, si pensi un po’, dal Sahara, nell’Africa Settentrionale, e prima ancora si è spostato sulle coste maghrebine espandendosi nel bacino del Mediterraneo e sulle coste dell’Europa Meridionale per tramite del soccorso ricevuto dalla cosiddetta lacuna barica iberico-marocchina tra le Isole Canarie, il Marocco e la penisola Iberica, la qual lacuna ha dovuto prima rendersi indipendente dall’anticiclone delle Azzorre, e si trova nell’Oceano Atlantico, masse d’aria provenienti da luoghi così distanti e differenti come il Sahara e l’Oceano Atlantico si combinano riversandosi in Europa Meridionale, e questa zuppa di ossigeno, e profumi, odori, sostanze spazza un bosco dove è nato il diavolo stesso, e non si dica che questa nascita non sia stata accolta con la dovuta attenzione da Madre Natura, la quale è accorsa da ogni angolo del pianeta per darle una mano, dal momento che senza vento l’incendio non potrebbe propagarsi a questo ritmo, e annientare il bosco e, a gruppi o uno a uno, i suoi abitanti.

Una marmotta si sta abbeverando della rugiada che imperlina foglie a forma di chiocciola, leccando, la marmotta, una perlina alla volta, e dissetandosi con l’erba ai piedi di un corniolo, la sua pelliccia ammanta un corpo di settanta centimetri e sembra incastonata anch’essa di rugiada proveniente da foglie di ontani e noccioli, il buco di talpa decorato di foglie gialle e verdi che ha per tana è solo a qualche metro, su una distesa di terreno argilloso e l’acqua genera piacere nella marmotta bagnando la sua linguetta, ma ecco un’esplosione e un lapislazzulo incandescente infiamma la cresta del corniolo, la marmotta spaventata scappa ma nella direzione dell’incendio, l’ostro soffia, e un tentacolo frastagliato e arancione si avvolge in un cerchio, spinto dal vento e dalla distribuzione di foglie, rami e materiale combustibile, combinazione micidiale, e la marmotta è in trappola, e mentre ricerca un varco per svignarsela, sentendo la pressione del calore sulla pelliccia, occludendole le vie respiratorie, il ramo di un ontano in fiamme casca nel cerchio di fuoco, seppellendola, e la bestiola si accende, e si dibatte, schizza dalle fronde infuocate dell’ontano finendo dritto dentro un tratto ghignante del cerchio e bruciandosi ancora di più, vorrebbe correre nella sua tana, ma ormai il dolore delle ustioni le impedisce di ragionare, corre e si muove come su una graticola, solo che il fuoco non è sotto le sue zampette ma su di lei, bocche e denti e lingue in ogni centimetro quadrato, marmotta arsa viva, minuscola pira immolata in memoria di se stessa, e la linea di quel cerchio maledetto si inspessisce diventando cupola e poi sformandosi e fondendosi con le enormi lingue delle enormi bocche delle enormi teste dell’enorme Idra nel bosco.

Ormai nulla sembra possa fermarlo.
Dilaga e trabocca.
Esteso.
Potente.

Si copre da vicino di cortine fumogene e si manifesta da lontano con torri e piramidi sfavillanti, rabbiosa, collerica, violenta bellezza che narcisa proclama: “Guardatemi! Guardatemi!”.

La marcia di questo diavolo senza configurazione chimica, osservabile ma inafferrabile, dal momento che non esiste in natura fiamma inestinguibile, e pertanto apparizione d’anima, squarcio d’essenza, finestra sull’oltre, visione demonica, questo slabbrarsi della realtà eccolo inerpicarsi a guisa di mille serpentelli folli sopra macchie di cespugli di rovi, dense, compatte, piene di spine, e sotto il piede del fuoco caldo come quello di Satana sono i rovi a ritrarsi e a incartapecorirsi, le spine a pungersi, e passando su un biancospino sradicato e chiazzato di muschio ove si è avvolta una vipera che con un ultimo sibilo della lingua biforcuta saluta la sua vita serpentesca mentre l’incendio la pervade e la annienta, e ora si butta a capofitto su un botro prosciugato bruciando il manto erboso e le viole e le margherite, e incenerendo i soffioni, senza risparmiare uno stelo d’erba, le formiche che vi sfilano in mezzo, i vermi del terreno, e scarafaggi, moschini e moscerini, zanzare, e i bombi nelle livree gialle e nere, proliferare di una vita fastidiosa e punzecchiante, e adesso l’incendio stermina insetti su insetti, cinque milioni di insetti, e un maroso frastagliato e terribile, fiammea similitudine dei marosi di schiuma del mare, si abbatte su un involto di erba, ramoscelli e foglie dove pigiati vi sono uova di quaglie e pulcini, pasto dall’aspetto delizioso, e un rigonfiamento improvviso inghiotte una martora già in crisi per il calore divorandole gola e sottogola color tuorlo d’uova, e lo schianto della cima di un faggio fa precipitare nella fornace un frosone, sessantadue grammi in forma di passero, color carnicino, con una maschera nera da minuscolo supereroe pennuto sugli occhi grandi, e il becco tozzo a conferire espressione ruvida, tignosa, e come uccelletti rotti di un orologio a cucù cascano rigidi nel vortice dei fuochi picchi e lucherini, arcobaleno di colori giallo-verdastri, e il fiume rosso sbuffante e scalciante come se dentro vi nuotassero mille draghi che generano l’elemento stesso ove si muovono, fiume di fuoco ondoso e in tempesta come un mare, un tal fiume incontra un’oasi di formazioni rocciose e terra arida, un presidio inattaccabile, disseminato di clasti, difronte al quale lo squalo, il serpente, il mostro multi-forme, il fiume crespo non può far altro che dividersi a forma di tenaglia, terreno arido incontaminabile, lucente, immense pozzanghere polverose che si affratellano al fumo nero e grigio dell’incendio e accolgono braci che schizzano dal fuoco posandosi su un’area secca di conglomerati e arenarie come visitatori variopinti e amichevoli, la fuliggine e la polvere nera trasportata dall’ostro ammanta il terreno denso di silicati come polvere di stella, rendendolo non più opaco ma facendo risaltare il suo brillio in mezzo alla devastazione: natura morta si riscopre viva, adatta, incrollabile, presente in questo contesto.

Sotto il soffio del vento l’incendio si dirama e si sparge, segue linee, si arrotola, si riconnette, si salda, si fonde, aggredisce e aggira, compie balzi, lancia sassi, tira dardi di fuoco, spara braci ardenti, superando ogni ostacolo, rallentando e accelerando, seguendo la disciplina dettata dal vento solo in apparenza, questo o quell’ammaestramento per lui non avendo importanza, la rosa dei venti essendo per il fuoco, al limite, solo un altro fiore da bruciare, se fosse possibile, e pertanto pronto ad andare avanti e pronto anche a cambiare direzione, una volta finito con il nord, si va verso sud, e poi verso est e ovest, oriente e occidente, settentrione e meridione, non fa differenza, il nemico è occasionale, le bandiere tessuto infiammabile da ridurre in sfilacci senza pensarci un secondo, e anzi, anche mentre per quella stessa bandiera si sta ancora lavorando, basta scaricare la collera, e ciò che non può aggredire come l’acqua di un borro o le spianate aride non serve a renderlo meno collerico, lo costringe solo a perimetrarlo mostrando la dentatura mostruosa fatta di appuntiti canini in movimento perenne, e le fiamme corrono, metri e metri centimetro e centimetro, solcando lambendo, fuoco spartiacque che ridisegna confini, rendendoli insuperabili, muri più solidi di muri di calce e mattoni, e questa muraglia, fiume, mare si distende e dispiega dando vita al suo interno a mille immagini luciferine, impressioni di creature del demonio, allucinazioni di esseri infernali, dando la caccia a cervi, caprioli, lupi.

Nessuno può sfidarlo.
Solo una lupa.

Torna sui suoi passi accorgendosi di un lupacchiotto rimasto imprigionato in una diga formatasi per l’intrecciarsi di tronchi di betulle e carpine, e il rogo si fa schermo insormontabile, e l’ossigeno manca quasi di colpo, e così il lupacchiotto si trova in una prigione di fiamme e mamma lupa accorsa con ancora tra i denti un lupacchiotto tenuto alla bell’e meglio per la collottola non può far altro che assistere, vorrebbe slanciarsi, ma nel suo istinto lupesco sa che la rabbia dominatrice delle fiamme è troppo superiore alla sua, ora rabbia impotente, lei carburante della fuga, la rabbia impotente, e l’incendio chiude le sue fauci enormi sulla lupa mentre corre via senza riuscire ad afferrarla per un pelo.

Mandrie di animali boschivi scappano il più possibile lontano, ignorandosi e correndo insieme, specie diverse, sorelle nella minaccia, anche se l’orso non soccorre il cervo se rimane impigliato in qualche tagliola naturale, e il lupo non soccorre il fagiano in trappola, e la minaccia di ordine superiore seda le rivalità spicciole, ma tra animali non genera alcun sentimento se non di amicizia almeno di mutuo soccorso.

Noi adesso, però, ci leviamo a volo di uccello, avendo il privilegio di volteggiare tra le fiamme come salamandra alata o come leggendari rapaci australiani, e anziché seguire il corso del fiume di fuoco, torniamo indietro, alla ricerca del punto di origine, e non solo, ma riavvolgiamo il nastro degli eventi osservando le piante raddrizzarsi scuotendosi il fuoco dalle chiome, le fiamme ritrarsi, gli steli d’erba rialzarsi riacquistando il loro verde colore, i petali dei fiori rincoronare il pistillo, ogni verticillo riunirsi, il fumo dissiparsi, e ogni cosa riavvolgendosi sembra avere direzione, la meta essendo l’unità, e le fiamme come mille corna di una sola testa gigantesca ed emergente dal suolo si appiattiscono via via, riassorbendosi, fino a quando l’enorme vegetazione di fiamme come se più che un mare o un fiume o ogni altra cosa l’incendio fosse un bosco rosso intenzionato a sostituirsi al bosco verde, questa variegata mostra di forme fiammeggianti si riduce a quella rosellina iniziale, il punto di origine dell’incendio, e…

Stop!

Estratto da: Marco Candida, Incendio nel bosco, Tarka, 2019