Un lungo drappo di raso azzurro sale e scende a simboleggiare il moto delle onde. Un pesce di cartone dipinto d’argento si innalza di tanto in tanto tra i flutti mosso da un invisibile meccanismo: è il gioco del teatro, il mistero dell’illusione.

Cerco ricordi che inducano le parole a voler dire le emozioni.

Cerco l’emozione dolce suscitata da un’immagine antica, custodita in qualche angolo della memoria, un nido di pensieri felici nel quale trovare rifugio, un luogo nel quale fare ritorno.

Alle due estremità del mare stanno le mie amiche più care che si sono preparate con pazienza, cura e dedizione all’impegnativo compito di “agitatrici di onde”.

Cerco ricordi che alle emozioni restituiscano nomi e volti, che siano capaci di condurre il cuore là dove il linguaggio è forma di intensità.

L’effetto speciale della tempesta che, ad un certo punto, si scatenerà viene da una sottile lamina di metallo azionata da mani esperte.

L’emozione che nasce dal ricordo è popolata di presenze, si muove in un intricato reticolo di sensazioni fisiche e di pensieri stranianti, condivide parole che risuonano del nostro medesimo respiro.

È il febbraio del 1957, tempo di carnevale.
La recita, come allora si diceva, mette in scena un’avventurosa storia di rapimento, naufragio e ritrovamento, di lieto fine per la bella principessa e di castigo per il perfido rapitore.

Cerco l’anello che possa congiungere il tempo perduto con un presente sempre più asettico, scandito da memorie artificiali, cerco un’emozione che mi preceda sul cammino della scrittura e possa attingere al grembo generoso che custodisce e accoglie le parole.

Come la levatrice socratica aspetto che le emozioni siano pronte a venire alla luce, che si spingano potentemente fuori dall’interiorità per nascere al respiro dell’anima.

Inseguo l’emozione intima, segreta che si sprigiona dalle pagine dei libri che amo, quella che scorre nelle frasi che la memoria non cancella.

Seduta sul trono di cartapesta dorata, avvolta nel pesante mantello di velluto color amaranto la Signora delle acque porta in mano una ciotola lucente che risuona al tocco delle sue dita.
Il suono si diffonde e dalla ciotola, come in una danza, iniziano ad uscire grandi lettere colorate che si muovono nell’aria e si rincorrono per cercare di unirsi a formare parole.

Non è stato facile conquistare questa parte da protagonista.
Ruoli minori per alcune ancelle vestite con tuniche colorate non ben identificabili nella cronologia e nell’ambientazione, vagamente orientali.

Nessuna fotografia ad immortalare l’evento, solo immagini dimenticate che emergono dal profondo con i colori che hanno i sogni e si muovono in quella zona sospesa tra realtà e fantasia nella quale prendono consistenza i suoni, gli odori, le voci, gli sguardi.

Le emozioni spalancate dal ricordo accorciano la distanza tra la nostra pesante architettura corporea ancorata a spiegazioni, certezze, dimostrazioni, parole chiarificanti e quel territorio originario e misterioso nel quale non c’è altro che il sentire così come si svela e si distende, quel luogo a mezzo tra sacro e profano nel quale la nostra umanità si intride di un afflato divino fino a toccare quel sublime che è alimento di perfezione, lo spazio dal quale la voce ancor prima del dire può emergere come un flusso di parole liberate dalle regole del significato:

io sono un’inondazione attraverso una pianura
io sono vento su un fiume profondo
io sono una lacrima che il sole lascia cadere
io sono un falco su uno scoglio1.

Chiedo alle emozioni di condurmi là dove nasce la visione della poesia, invoco la tenerezza della favola bella che ancora ci illude ed ecco mi ritrovo al cospetto della Dea che tesse la parola. Mi chiede un dono: porgendomi un piatto sbalzato mi dice di riempirlo di fiori.
Lo ricevo dalle sue mani, ne percorro la forma rotonda e subito compaiono fiori a colmarlo.
Voglio offrirli alla Dea ma non mi è più dato di vederla, sento il suo profumo e comprendo che nel vortice di parole effimere Lei custodisce la sacralità, il miracolo del dire, ma anche la lontananza del sapere.

Le emozioni sono terreno di prova per la scrittura dal momento che la mente resiste al bisogno potente di abbandonarsi, di lasciarsi condurre oltre il senso, di affidarsi alla parola che sa abbeverarsi alla fonte ancestrale.

Sento il profumo di arancia selvatica al limitare del deserto
Ascolto un canto nella notte stellata e senza vento
Scivolo sul lago gelato
All’infinito cammino sulla piccola sfera di corallo
Il suono del flauto annuncia la danza nel cerchio del sole
Lontano appare la fortezza dalle mura di cristallo
Il fanciullo che gioca con gli specchi incede sui fiori pungenti
Il vento si abbatte sulle querce2.

La mente vuole ricondurre al senso compiuto, alla necessità di rispondere alle esigenze della comunicazione e invece l’emozione non si lascia spiegare, dilaga, dona se stessa in uno scambio che illumina le stanze del cuore e invade le fibre del nostro corpo come un potente brivido.
Non possiamo fuggire poiché, mentre tentiamo di innalzare pareti, di arginare siamo già travolti dal vortice che è liberazione dell’anima, sconvolgimento del tempo e dello spazio.

Possiamo udire la voce balbettante della paura, l’emozione può farci percepire il suono del dolore attraverso il pianto, può purificare e sciogliere la sofferenza nel fruscio di un abbraccio, fluiscono parole che sono fili di luce, derive di pensieri, frammenti che si allontanano e si avvicinano, che fanno ritorno al firmamento dei suoni.

L’emozione è consapevolezza inconsapevole che emerge in tutta la sua forza quando ci lasciamo attraversare dalla paura, dalla gioia, dal dolore e dalla bellezza.

L’emozione sospende il giudizio sull’accadimento poiché non attinge alla linearità del tempo bensì alla pienezza del sentire: le lacrime in attesa sulle palpebre scendono senza poter essere arginate, la risata risuona senza che la mente ne controlli l’intensità o la durata, la paura ci toglie il respiro, immobile e buia come portata da un oscuro vento del nord.
La bellezza che abbraccia la nostra emozione è un inebriante brivido di meraviglia, un coup de foudre che fa emergere dal profondo il nostro legame con la purezza originaria.

L’emozione è “… dare una possibilità di venire alla luce a tutto quello che tenevamo stretto e nascosto, permettendoci di sentire …”3.
Permetterci di sentire è lasciare che ogni sfumatura del nostro essere si esprima con pienezza, senza filtri, senza schemi, senza timore di perdere qualcosa nell’accettare di osservarsi fino in fondo: osare aprirsi alle emozioni è anche accogliere se stessi con verità eppure con gentilezza e indulgenza, capaci di perdono.

Le emozioni si intrecciano con la compassione poiché aiutano ad illuminare gli abissi nei quali ci dibattiamo, a ricercare nel sentire condiviso la forza salvifica della parola ed a farne antidoto per il silenzio del cuore. Per trovare parole che sappiano tradurre le emozioni bisogna attingere alla poesia, alla sua forza sovversiva “che costringe all’intimità con il non conosciuto, con la domanda che non chiede risposte ma scommesse, rivoluzioni di senso, mappe non lineari” 4.

Dobbiamo avere fiducia in questa lingua
che ci parla.

Il viaggio traduce il ritorno nel presente,
resiste alla foschia del tempo come un
incendio selvaggio. Cerca protezione nel
solco graffiato sulla terra: riposa, e poi
riappare dentro le orme di chi eravamo,
di chi saremo5.

A cura di Save the Words®

1 Anne Waldman, Donna che parla veloce, City Lights Italia, Firenze 1999.
2 Giuliana Berengan, Le parole di Penelope, Il Passaggio Edizioni, Ferrara, 2004.
3 Chandra Livia Candiani, Il silenzio è cosa viva, Einaudi editore, Torino, 2018.
4 Id. ibid.
5 Massimo Scrignoli, Lupa a Gennaio, Book Editore, 2019.