Un prisma di cristallo appeso al vetro della finestra riceve i raggi del sole e inizia a proiettare un caleidoscopio di colori, forme, immagini: una cascata di meraviglia in continuo divenire che trascina lo sguardo e cattura la mente nella sua cangiante mutevolezza.

Tutto sembra prendere vita per incantesimo e, in questa danza vorticosa e lieve ad un tempo, comprendo delicatamente che ogni cosa muta e si trasforma nell’infinitesimo attimo della visione che scorre via veloce: non c’è traccia, non c’è ricordo.

In questo turbinio di luci ridisegno i contorni dei luoghi che amo, li vedo nello spazio sospeso tra prima e dopo: là dove batte il raggio variopinto si crea un’immagine che trasfigura gli oggetti. È una nuova storia che si racconta ed è come ritrovarsi in una lanterna magica.

I pensieri iniziano a muoversi con la stessa cangiante modalità.

Si rompe l’ordine, si infrange la regola del vero, si torna a respirare il suono dell’immaginario.

Ci si ferma ad osservare, ci si emoziona, si assapora la bellezza della sensazione e così vediamo ciò che l’abituale distrazione non ci lascia vedere.

È la straordinaria esperienza dello stupore che si rinnova ogni volta che ci facciamo osservatori disponibili a cogliere l’inesauribile varietà di ciò che ci circonda.

Conservare la capacità di stupirsi è un primo passo per avanzare lungo il cammino della creatività che di questi tempi si è fatto aspro, tortuoso.

È difficile lasciarsi sorprendere quando ci si sente avvolti da un velo di oscurità che impedisce di vedere con limpidezza, di abbandonarsi alla fantasia.

Lo stupore si manifesta con intensità, quasi con violenza, come accade per i grandi sentimenti: è un’apparizione, un’epifania che ci fa percepire le cose con curiosità, che ci fa sobbalzare il cuore, che ci lascia con il fiato sospeso prima di lasciar entrare l’ispirazione.

È un miscuglio di sorpresa, di straniamento, talora di tenerezza e di gioia come quando lo stupore è suscitato da un suono che disegna il volto di un ricordo. Quando lo sentiamo fluire cediamogli il passo, è uno slancio potente, una corrente che travolge.

Grazie allo stupore le parole prendono coraggio, hanno voglia di raccontarsi, di accogliere il loro compito di testimoni che hanno visto la sofferenza senza riuscire a darle voce ma che ora sentono prepotente il desiderio di aiutare la mente a liberarsi dalla tristezza per ridare forza al respiro del bene.

Le parole si fanno vedere, si soffermano nelle stanze della fantasia alla ricerca di profumi inebrianti, di pensieri accartocciati nelle lettere mai scritte, di dolci sapori, di musica ascoltata nella solitudine in cui ritrovi te stesso, di sentori dimenticati, di luoghi silenziosi che nutrono di leggerezza.
Come un’antica benedizione, come un auspicio di felicità tornano a mostrarmi scenari d’armonia.

L’acqua del fiume scorre generosa.

Una famiglia di trote si scalda al tepore del sole senza doversi guardare dai pescatori.

Due piccoli sono nati dalle uova di una coppia di tortore e nel silenzio possiamo sentirne il pigolio.

Una interminabile teoria di alberi dal verde esagerato spinge lo sguardo verso l’orizzonte.

La neve si scioglie e il cielo mostra la magnificenza dell’azzurrità.

Un merlo fischia la sua cangiante sinfonia: anche nel silenzio più profondo e inquieto c’è gaiezza.
Il suo canto non muta, è quello che risuona nel giardino segreto dove giocano bambine antiche come il mondo, dove si fanno volare gli aquiloni anche senza vento, dove giovani donne tessono i fili delle loro vite in attesa che ogni giorno si schiuda come fiore di ciliegio a primavera.

Sbocciano le prime rose e le peonie espongono al sole la loro carnosa magnificenza.

La donna dal volto d’ambra sta seduta sulle rive del lago. Una libellula si posa sul suo ventaglio immobile.

Nulla è cambiato:
questo ci dice lo sguardo, eppure sappiamo che non è così. Mai come ora percepiamo l’illusorietà della nostra condizione e l’esigenza potente di trovare nutrimento nell’interiorità poiché è difficile “maneggiare i segreti della materia fuori dal governo dello spirito”.

Le parole hanno ricominciato a parlarmi come le antiche spezie di Tilo.
Hanno custodito storie che avevo scordato ed ora me le rimandano, tornano a raccontare come a sottolineare che hanno deciso di camminare insieme a me. È una gran consolazione.

Tre danzatori sulla scena, due donne e un uomo, tre creature che si stanno accanto in solitudine, che difendono il proprio spazio vitale attaccati disperatamente alle proprie sicurezze, asserragliati entro i propri confini. Sono senza scampo poiché non esiste un luogo che non venga invaso dagli altri. Si è ineluttabilmente costretti all’incontro, al contatto, alla vicinanza. Ed è lì, in quel tempo e in quello spazio, che si giocano le esistenze; è lì che si prova la sensazione di stare insieme senza riconoscersi, senza incontrarsi, lo sgomento di non parlare la stessa lingua, di non capire i segnali del nostro cuore. Eppure è lì che nasce la curiosità per l’altro, forse anche il bisogno di incontrarlo, magari nel silenzio. E riappare la speranza di ritrovarsi come esseri umani, tutti bisognosi di non sentirsi soli sulla faccia della terra.

Sento questa condivisione come un dono per non essermi sottratta alla paura, all’angoscia.
Non mi sono sforzata di mantenere “eroicamente l’esistente ma ho accolto il cambiamento anche senza capire.
Ho percepito il suono sordo dell’isolamento ma non ho smesso di incontrare, di abbracciare con il pensiero.
Ho continuato a cercare una libertà sempre da difendere. Ho tenuto a mente un antico principio di saggezza:

C’è un tempo per elevarsi sulla montagna con l’intelletto e un tempo per scendere nella valle con il cuore.
Il sapere acquisito sulle alte cime grazie all’intelletto deve sciogliersi per formare ruscelli e fiumi e fertilizzare così le vallate.

Il sentiero pareva farsi più accidentato ad ogni passo, lo spazio sembrava chiudersi su di me fino a non farmi respirare, ma ho cercato di muovermi danzando nell’energia, abbandonandomi al ritmo degli eventi, seguendo il moto talora impercettibile delle cose, accettandone la volubilità e i modi. Li ho accolti anche se spesso non coincidevano con gli schemi agguerriti della mente.
Ascoltare il suono delle cose, i tanti piccoli segni che impariamo a vedere è divenuto un esercizio costante che aiuta a proseguire.

È stato un crescendo di sentire in uno spazio pieno di tracce e sfumature, è stata una grande pienezza che mi ha avvolta delicatamente.
Una nota dolce nel cielo affaticato dal confronto con il passato che mi ha mostrato la potenzialità di nuove fioriture, che mi ha dato la consapevolezza che la vita risponde sempre prepotentemente portandoci tutto ciò di cui abbiamo bisogno.

Ho sentito con commozione la potenza di quella rete sottile che ci collega in un solo respiro, ho sentito di poter attingere alla sorgente limpida della compassione, ho compreso che cosa significhi darsi alla vita ed è stato di nuovo stupore.

Ho percepito chi mi stava accanto pur nella lontananza, mi sono presa cura di questa percezione per annodare i fili dell’energia pura che c’è in ciascuno e creare un tessuto sul quale le nostre emozioni potranno depositarsi, placarsi, trovare rifugio.

Ho ripreso a giocare con le parole che vengono alla mente quando ti rendi disponibile ad ascoltare con occhi nuovi e loro mi hanno regalato la poesia che sa accogliere il dolore come una preziosa coppa, che gli permette di essere contenuto, di dimensionarsi in una forma, di tradursi in bellezza, nonostante tutto, di trovare un’armonia, di far emergere quel sublime che ha a che fare con l’intensità della sofferenza. Il dolore che indossa la veste della poesia sembra attenuarsi nella potenza guaritrice, nella forza salvifica della parola, nel suo potere generativo.

Chi guarderà il nostro oggi come passato potrà ritrovare parole che dicono di una umanità spossata, percossa, stretta nella morsa dell’esistenza che ha trovato la forza di quietarsi, di riposare.

Ci sono qualità che, se custodite con cura e gentilezza, germogliano e ci aiutano ad ampliare il nostro sguardo che, in questa nuova dimensione, può abbracciare ogni aspetto della vita, soprattutto ciò che non riusciamo a comprendere: il male, l’ingiustizia, la fuggevolezza del bello.

Ci aiutano a capire le dinamiche delle relazioni, il modo di accogliere e di ascoltare si fa più chiaro, appaiono più evidenti i cicli della vita che con nuova disponibilità si apre al mistero.

Ci lasciamo attraversare dalla sofferenza come dalla gioia degli altri e impariamo a percepirne i sentimenti, ad essere in grado di rispettarli anche senza condividerli.

Non ci sono obiettivi da raggiungere, si sta dove si è, con pazienza, con fiducia, in armonia con il respiro che è la nostra appartenenza alla vita, in ascolto del suono gentile dell’universo di cui siamo parte, aperti al vuoto.

Possiamo cogliere l’occasione per rimediare a ciò che sentiamo sbagliato, possiamo permetterci di tornare indietro: chiedere scusa è una potente formula di guarigione.

Le nostre cicatrici scompaiono quando diventiamo più morbidi, quando smettiamo di resistere e accogliamo senza preclusioni il sentire del cuore.
Prenderci cura di noi stessi è un modo per sanarci.

Essere scrittore è prendere coscienza delle ferite segrete che portiamo in noi e delle quali non siamo spesso consapevoli.

Questo tempo lento, questa condizione di singolarità ci mette in condizione di farcene osservatori, di guardarle sotto nuova luce, di comprenderle così da donarcene una visione pacificata che amplia il nostro spazio di esperienza, anche l’esperienza del dolore.

Ho scelto di non mettere note ad identificare le suggestioni che mi sono arrivate da tante letture e ricordi perché questo non è tempo di stabilire appartenenze. Anche nella scrittura abbiamo bisogno di condivisione, senza obiettivi o finalità che non siano il chiedere alla parola di farci sentire solidali, di condividere la costruzione di un grande mosaico di armonia capace di contrastare una bruciante sensazione di separatezza, di lontananza.

Mi sono affidata alla memoria del cuore che per me è una fonte sicura di quella verità che non passa dal sapere codificato bensì dalla capacità di ritrovare emozioni potenti e potente solidarietà.

Per scrivere queste parole ho cercato un pensiero felice, gli ho dato un nome segreto per poterlo ritrovare ed ho espresso un desiderio: che possiamo amarci così come siamo.

A cura di Save the Words®