Quando Odile Richard uscì di casa, non poteva immaginare che quel giorno la sua vita sarebbe cambiata per sempre.

Aveva lasciato la sua abitazione alle 7. Alle 7.20 aveva preso il treno per Sens dove, da dieci anni era impiegata all’ufficio postale. Come ogni mattina si era seduta al suo posto, sulla seconda carrozza. Se le avessero chiesto perché scegliesse sempre la seconda e mai la prima o la terza, avrebbe risposto, candidamente, che la sua era un’abitudine.

Odile amava definirsi una persona semplice. Non era sempre stato così. La vita, in passato, l’aveva messa molto alla prova. Aveva provveduto poi il tempo a stemperare il ricordo della difficile relazione con Jan. Ora, nella memoria, aleggiavano solo poche immagini sbiadite della loro casa in Bretagna e gli echi indistinti dei loro litigi. Anche la signora Bernard che, come ogni giorno, si era seduta di fronte a Odile e aveva cominciato a ingozzarsi di biscotti, se avesse saputo, sarebbe stata d’accordo: con quell’uomo non si poteva andare avanti così. Sulla stessa carrozza, tra gli habitué, c’era anche il vecchio maestro Lepage. Prima di prendere posto aveva sorriso e, come ogni giorno, aveva fatto un cenno con la mano.

Il treno poi era partito, accelerando all’inizio lungo una vasta piana di campi coltivati per poi iniziare a curvare attorno a una collina fittamente boscosa. In lontananza si intravvedeva già l’antica torre di Talmay e Odile, che da sempre amava i paesaggi romantici, anche quella mattina aveva appoggiato il viso al finestrino, pronta a godersi lo scorcio pittoresco. Fu lì, in quell’attimo che, a poca distanza dalla torre, Odile notò qualcosa di strano: c’era una macchina di un arancione intenso, un colore inusuale, pensò Odile al momento. Osservando meglio vide che c’erano anche due persone, visibilmente concitate, che si muovevano avanti e indietro. Quando il treno sfrecciò a tutta velocità davanti a quei due, tra i vagoni e loro ci saranno stati poco più di cinquanta metri. Ciò permise a Odile di osservare meglio la scena e seppure per pochi istanti, di notare altri dettagli: si trattava di una coppia, la donna era bionda, si presentava di schiena e indossava un cappotto lungo, mentre l’uomo, che appariva di fronte, aveva capelli e barba scuri e brandiva un bastone con il quale picchiava con violenza la poveretta. Si vedeva chiaramente che la donna tentava in tutti i modi di difendersi e che stava avendo la peggio. Scioccata e incredula, Odile istintivamente scattò in piedi, poi, un istante dopo, si rimise seduta. Non riusciva a capire cosa diavolo stesse succedendo. Mentre il treno sfrecciava a tutta velocità, riuscì a cogliere un’ultima immagine, vide la donna a terra e l’uomo chino su di essa, come se la stesse strozzando. La visione si fece poi sempre più piccola, fino a scomparire. Odile, stremata, si lasciò crollare sul sedile. Il suo cuore batteva così forte che per un attimo temette di svenire. Guardandosi intorno, capì solo allora, che nessun altro sulla carrozza si era accorto di quello che era successo; la signora Bernard era placidamente addormentata con il cappotto ricoperto di briciole e il vecchio maestro Lepage, ignaro di tutto o, chissà, forse semplicemente sordo, era intento a leggere il suo giornale.

Appena scesa alla stazione di Sens, alla vista di due gendarmi, fu tentata di fermarli e denunciare l’accaduto. Poi si ricordò che quel giorno pagavano le pensioni: non poteva permettersi di arrivare tardi e, certamente, i gendarmi non si sarebbero accontentati di una breve testimonianza, anzi, l’avrebbero trattenuta o magari anche scortata fino alla vicina stazione di polizia e… no, non era una buona idea. Proseguì quindi spedita verso l’ufficio, sperando che nessuno notasse la sua agitazione.

Per tutta la mattina rimase confusa. E fu veramente difficile mantenere la concentrazione senza che l’immagine di quei due irrompesse continuamente nei suoi pensieri. Giunta l’ora di pranzo, Charlotte, un’acida zitella originaria di Sens, sua collega da anni, la chiamò ad alta voce, dicendole: “Odile, ma che viso radioso che hai oggi, cosa ti è successo? È forse passato a trovarti il tuo ammiratore segreto? Come si chiama… ehm… Philippe? Dai, staccati da lì e andiamo a mangiare. Magari il tuo bello ripassa a trovarti mentre siamo al nostro caffè…”. Odile non rispose. Combatteva ormai da ore con un’ansia spaventosa che spesso tracimava trasformandosi in vero panico. Temeva di aver sbagliato, di aver fatto un grave errore a non andare subito alla polizia quella mattina. Se l’avesse fatto ora, come avrebbe giustificato tutta quell’attesa? Nonostante ciò, sorrideva: il complimento della sua collega le era piaciuto e non l’aveva colta di sorpresa, sentiva intimamente che l’angoscia vissuta quella mattina le stava procurando un piacevole stato di benessere, quasi una sottile eccitazione. Per la prima volta, dopo anni, era successo qualcosa di nuovo nella sua vita. E ciò la faceva sentire viva.

Attese impazientemente la fine del turno per poter correre in stazione a riprendere il treno. Come una giovane innamorata al suo primo appuntamento, rimase immobile al finestrino in attesa di giungere a destinazione. Nella calda luce del crepuscolo rivide finalmente la radura e il rudere della torre, ma della coppia e dell’auto arancione non c’era più traccia. Arrivata in città, attraversò la piazza del municipio e proseguì fino al 15 di rue st. Eve, dove abitava. Entrata in casa, tirò fuori dal frigorifero un pentolino con la minestra del giorno prima che divorò, dimenticandosi di scaldarla. Poi, raggiunta la camera, crollò sul letto, ancora vestita.

Nei giorni che seguirono Odile non cambiò le sue abitudini. È vero, all’inizio cercò in tutti i modi di dare un senso a quella triste esperienza. Col tempo però le cose cambiarono. Mutò il suo atteggiamento, che divenne più accondiscendente e rilassato, al punto che, trascorso il terzo giorno, si convinse di aver assistito a una lite coniugale. E tutta quella violenza? Quella sopraffazione? Come la giustificava? Non la giustificava ma la considerava possibile, non molto diversa da quella di cui si sentiva parlare in giro, a volte anche nel suo condominio. Anche Jan, a ben guardare, era stato violento con lei, specialmente negli ultimi anni, al punto che era giunto a lanciarle addosso oggetti di ogni tipo, persino a picchiarla, sì, era successo, certo mai con un bastone, ma senza risparmiarsi in quanto a cattiveria. Facendole male, molto male. In momenti come quelli - continuava a pensare Odile - quando le cose precipitavano, ci si poteva facilmente ritrovare in mano un oggetto sbagliato nel momento sbagliato, per questo era facile compiere gesti di cui poi ci si sarebbe pentiti per sempre. In ogni caso, se quella mattina vicino alla ferrovia fosse successo qualcosa di grave, a quest’ora lei l’avrebbe saputo e come minimo la notizia sarebbe apparsa sui giornali. Ciò non era successo. Che stupida era stata ad aver pensato di dover correre alla polizia! Non le avrebbero dato retta, anzi, avrebbe rischiato di essere presa semplicemente per pazza. Restava il problema di quelle immagini terribili che non poteva dimenticare. Aveva identificato il modello dell’auto arancione e aveva ricostruito l’esatto numero di colpi sferrati dall’uomo. Ma a chi sarebbero servite quelle informazioni? E lei? Cosa ne avrebbe fatto? Non lo sapeva. O forse sì, probabilmente col tempo le avrebbe dimenticate, ecco, sì, le avrebbe dimenticate. E aveva continuato a ripetere quel pensiero più volte dentro di sé, quasi cercasse di convincersi.

La mattina successiva, la sua collega Charlotte la fermò dicendole: “Hai sentito? Hanno trovato il corpo di una donna dalle tue parti, una certa Camille Vigneron, la conoscevi? Poveretta, che brutta fine”. Odile rimase ammutolita. Proprio nel momento in cui i contorni di quella vicenda si stavano stemperando, ecco ripiombare nella sua mente le drammatiche immagini di quella mattina. Ora rivedeva con chiarezza l’uomo, la sua barba scura, i capelli lunghi - e questa volta le sembrava di poter cogliere addirittura il suo ghigno sadico o sentire il rumore secco dei colpi di bastone, le urla disperate della donna... Ma come? Pensava di aver rimosso quelle scene terribili, invece tutto era ancora là, intatto, potenziato. Crudelmente arricchito nei dettagli dalla memoria.

Alla sera, in treno, ripassò dal luogo fatale. Il rudere della torre, quella volta le parve tetro, quasi evocasse infauste vicende. Tutto il paesaggio intorno, normalmente ridente e armonioso, le sembrò vuoto e desolato, contribuendo a crearle una profonda sensazione di inquietudine. Ma cosa era successo veramente laggiù? Appena giunse a casa, Odile si buttò alla ricerca di informazioni. Su Internet trovò un articolo di un giornale locale in cui veniva descritto il luogo del ritrovamento: corrispondeva. La vittima invece, per quanto Odile si sforzasse di ricordare, continuava ad esserle sconosciuta. La prima volta che aveva visto la sua immagine però, aveva provato una profonda tristezza, tanto da non reggere l’intensità di quello sguardo. Alla sera poi, era stato anche peggio, sfogliando le pagine di un altro giornale, aveva ritrovato quegli occhi tristi e la sua coscienza era sobbalzata: lei aveva visto tutto. Si rese conto all’improvviso del valore della propria testimonianza e di quanto potesse essere determinante. In fondo solo lei poteva rendere giustizia a quella povera donna. Solo lei poteva fermare l’assassino. Si convinse, indossò in fretta e furia il cappotto e uscì di casa diretta al vicino comando della gendarmeria. Il suono del telefono la bloccò sull’uscio. “Pronto Odile? Ciao, sono Jacques!”
“Oh Jacques, ciao, scusa ma… stavo già dormendo” rispose mentendo senza pudore.
“Sei scomparsa, sono due giorni che provo a chiamarti. Stavo iniziando a preoccuparmi...” rispose Jacques con tono apprensivo. “Tutto bene?”
“Sì, sì, tutto a posto”, rispose Odile cercando di rassicurarlo. “Ho solo avuto dei giorni un po' complicati e pieni, ma ora va meglio” aggiunse.
“Ah, ok, adesso sono più tranquillo…” rispose Jacques, sollevato. Buona notte Odile”.
“Buonanotte a te, Jacques”.

Quando terminò la telefonata, Odile si accorse di essere rientrata in casa. Ma non ne fu sorpresa. Ancora vestita, camminò per alcuni minuti avanti e indietro nel salotto, poi si calmò, si tolse il cappotto e si mise seduta su una delle due poltrone. Dietro a dei libri impilati, alla base di un grosso calorifero di ghisa, notò un vecchio pacchetto di sigarette dimenticato. L’afferrò e lo aprì. Erano tre anni che non fumava. Ne accese una e diede subito due boccate piene. Alla prima pensò che non sarebbe andata dalla polizia, che ormai era troppo tardi. Alla seconda decise che avrebbe iniziato lei, da sola, le indagini su quel delitto. Lei aveva visto tutto. E lei avrebbe trovato l’assassino. Quella auto-investitura le fece bene, ebbe il potere di allentare all’istante la morsa d’ansia accumulata in quelle ultime ore. Spenta la sigaretta in un vaso di fiori, Odile si accovacciò nella poltrona e dopo pochi secondi si addormentò.

La prima cosa che fece il mattino seguente, fu quella di chiamare l’ufficio dicendo di essere ammalata. La sua collega Charlotte, puntigliosa come sempre, prese nota ma, stranamente, non fece alcun commento. Alle 9 precise Odile era già uscita di casa, diretta in centro. Passando davanti alla stazione ferroviaria aveva osservato l’edifico con distacco. Superata la chiesa di St. Michael e l’antico refettorio, allungò il passo fino alla zona dei portici, dove si trovavano i negozi. Nonostante la stagione primaverile secondo il calendario fosse già iniziata, quella mattina si avvertiva un freddo tagliente. Si fermò prima all’edicola e acquistò una copia del Le Bien public, poi entrò in un Bistrot, dove sentì il bisogno di una tazza di caffè bollente e di un croissant. Il proprietario, monsieur Dupont, che conosceva bene Odile e sapeva delle sue abitudini, la salutò ma non parve sorpreso di vederla in giro per la città a quell’ora. Quando le portò il caffè al tavolo notò che era intenta a leggere l’articolo centrale della pagina di cronaca, tutto dedicato all’omicidio della donna. Non si trattenne, iniziando a commentare ad alta voce: “Povera ragazza! Con tutti questi immigrati non si può più vivere tranquilli neppure qui, nella nostra Joigny. Già la madre l’anno scorso, trovata morta giù al fiume, una tragedia... pare quasi che ci sia una maledizione in quella famiglia, non crede? Vigneron, sì, si chiamava Vigneron, il nonno ha avuto una farmacia per tanti anni…”.

Odile abbozzò un sorriso, fingendo di aver capito, poi lasciò cadere la conversazione e si rituffò tra le pagine del giornale: la polizia sembrava ancora brancolare nel buio. Nella breve descrizione delle indagini non vi era traccia né di una macchina arancione né di altro. Si stava cercando di ricostruire la vita della vittima, quello sì, ma per il resto... Odile rimase lì assorta per alcuni minuti poi si alzò, pagò il caffè, salutò e uscì in strada. Era strano in effetti ritrovarsi lì in centro in un giorno della settimana; erano anni che non lo faceva. Si ricordò di quando, da bambina, andava a fare la spesa col padre. Il loro posto preferito era la Charcuterie Rolland, un piccolo tempio della gastronomia locale. Proprio come ai tempi della sua infanzia, Odile si fermò a guardare la vetrina piena di ghiottonerie e non poté fare a meno di notare che alcune specialità presenti allora venivano ancora riproposte oggi. Ipnotizzata dalle tartine al Paté di Avergny, dalle Andouilettes e da un immenso vassoio di Sabodets Lyonnais, non si accorse che nel riflesso della vetrina c’era un’auto arancione e che un uomo di media statura, con capelli e barba scuri, stava salendo a bordo. Quando se ne rese conto, rimase di ghiaccio e chiuse gli occhi. In un lampo rivide tutta la scena del treno, la macchina, l’uomo che colpiva con il bastone, la donna che crollava sotto i suoi colpi.

Quando riaprì gli occhi l’auto era scomparsa. Istintivamente si voltò quasi volesse accertarsene veramente, ma cominciò a tremare e dovette cercare un appiglio per non cadere. Qualcuno all’interno del negozio si accorse che là davanti c’era una donna in difficoltà. Fu lo stesso proprietario, monsieur Rolland, a precipitarsi fuori con il suo lungo camice bianco da salumiere e a prenderla per un braccio facendo il gesto di sorreggerla. “Ora le porto dell’acqua, signora. Stia tranquilla e cerchi di fare due bei respiri” disse con voce calma ma inaspettatamente sottile per un uomo della sua stazza. Odile fu accompagnata dentro al negozio, dove fu fatta sedere su una panchetta di legno. Nel brusio dei clienti presenti udì qualcuno offrirsi per portarla a casa. All’inizio rifiutò, quando poi provò ad alzarsi e capì di non riuscire ancora a reggersi in piedi, cambiò idea. Una decina di minuti dopo era a casa, spaesata e confusa. Aprendo la borsa, scoprì di aver conservato la pagina del giornale con l’articolo sul caso della donna uccisa. La dispiegò con cura sopra al tavolo rimanendo poi ferma ad osservarne l’immagine per alcuni minuti. Quando finì, si lasciò sprofondare sul divano fino a crollare in un sonno profondo.

Fu svegliata dal clacson di un’automobile proveniente dalla strada: era già pomeriggio inoltrato. Decise allora di chiamare il suo amico Jacques e lo invitò a raggiungerla a casa. Povero Jacques, pensò appena conclusa la telefonata, provando un misto di pena e tenerezza per quell’uomo, forse perché si assomigliavano, forse perché come lei, era stato maltrattato dalla vita. Anche lui, in fondo, era un superstite di una relazione tormentata... Erano amici? Amanti? Entrambe le cose. Ma poi, che importanza aveva? La prospettiva di un incontro con Jacques le procurava, in quel momento, una sensazione piacevole. E quello era ciò che contava. Sicuramente rivederlo l’avrebbe aiutata a cambiare i suoi pensieri, ad alleggerire l’angoscia di quegli ultimi giorni. Capiva di avere paura. Per quanto facesse fatica ad ammetterlo, lei aveva paura. E sapeva che Jacques, in quel momento, era l’unico in grado di proteggerla.

Trascorsero la serata senza parlare mai della donna uccisa. Jacques raccontò, come sempre, di sé e del suo lavoro di manovratore alla chiusa giù al fiume, poi parlò della madre anziana e del suo gatto Baguette. Lei invece descrisse le sue lunghe passeggiate solitarie e ricordò i tempi in cui era vissuta con il padre. Entrambi evitarono di parlare del periodo in cui era stati insieme. Quando però giunse il momento dei saluti, Jacques la guardò intensamente e le chiese: “Vuoi che resti con te stanotte?” Lei annuì, senza dire nulla. Andarono a letto e al buio, si abbracciarono a lungo, senza desiderio, rimanendo in silenzio. Jacques ad un certo punto si addormentò lasciando Odile sola, in preda ai suoi pensieri e alle sue angosce. L’assassino era libero - continuò a pensare durante la notte- ed era in giro per la città. Sapeva che lei l’aveva visto? L’aveva notata al finestrino del treno? Se così era, Odile stava rischiando. Non poteva più far finta di nulla, doveva avvertire la polizia. C’era in gioco la sua vita.

Il giorno successivo, appena Jacques si congedò, Odile uscì di casa con l’idea di fare una passeggiata. Quella notte non aveva chiuso occhio. Si era guardata allo specchio e aveva visto una donna di mezza età con il viso gonfio e pallido e sentiva brividi in tutto il corpo. Nonostante ciò, avvertiva dentro di sé ancora quello strano vigore, quel senso di riscossa. Quando uscendo, aveva visto il sole illuminare la strada, aveva pensato che anche quella luce in fondo, non potesse essere che di buon auspicio. Prese allora la macchina e si diresse fuori città, verso Pontigny, un villaggio rurale sul fiume Yonne, uno dei suoi luoghi preferiti. All’incrocio con il passaggio a livello qualcosa le fece cambiare idea e piegò a destra in direzione della vecchia torre. Dopo un paio di chilometri riconobbe la radura e proseguì lungo una strada sterrata fino a ritrovarsi a costeggiare la linea della ferrovia. Proprio mentre stava per parcheggiare la macchina, il treno fece la sua apparizione. Ora avrebbe finalmente scoperto il punto esatto in cui si trovava la coppia quella mattina, pensò. E si mise ad esplorare a piedi il ciglio della strada alla ricerca di impronte sul terreno fino a quando, voltandosi, scoprì di non essere sola; in lontananza vide degli uomini e due macchine parcheggiate, giunte evidentemente da poco. Notò subito che due dei tre uomini indossavano la divisa della gendarmeria mentre un terzo, vestito con un giaccone di pelle scura si era staccato dal gruppo e stava correndo verso di lei. Quando le fu a pochi metri, ansimante, si presentò: “Commissario Mercier, buongiorno”.
“Buongiorno a lei”, rispose Odile con voce ferma e pacata.
“Le devo chiedere gentilmente di allontanarsi da qui, stiamo facendo delle indagini”, aggiunse.
“Certo, me ne vado subito...” rispose. Prima di voltarsi, Odile fece in tempo a gettare uno sguardo fulmineo al giovane commissario e notò che il suo viso era molto pallido e gli occhi, di un azzurro slavato, avevano un’espressione malinconica. Spiccava in quel viso la bocca, dalle labbra sottili ma armoniose, orlata nella parte superiore da un paio di baffetti spiritosi e adolescenziali. Ora Odile sapeva che quello era stato il luogo del delitto, pensò osservando l’uomo un’ultima volta. Poi si voltò, guardò un attimo ancora i due gendarmi impegnati nei rilevamenti e si affrettò verso la macchina.

Giunta a casa, sentì un gran languore e aperto il frigo, fu felice di trovare i resti della cena della sera prima con Jacques: dell’insalata di pollo con senape e cipolle, del formaggio di capra, e una piccola ciotola con dell’Hummus piccante. Tutte cose che aveva portato lui. Ultimamente Jacques era diventato un grande appassionato di cucina. Odile lo apprezzava anche se a volte si divertiva a prenderlo in giro. Le parevano un po' ridicoli tutti quegli uomini che a un certo punto della vita cominciavano a occuparsi smaniosamente di cibo e di cucina. Tutti, in fondo, così prevedibili e noiosi… Che fosse un modo di esorcizzare il timore della morte incombente? Continuò a chiederselo anche un istante dopo, quando procedette ad apparecchiare per sé la tavola e si versò in un bicchiere il fondo di una bottiglia di Bordeaux del 2014. Era ancora buono.

In quel momento suonò il telefono. “Odile buongiorno!” Era Jacques, avrebbe riconosciuto la sua voce squillante tra mille. “Stasera faccio una cena qui da me, ci saranno anche amici cari che conosci, Gérard e Juliette. Te lo ricordi Gérard? Sì, sì, proprio lui. E poi ci saranno anche un amico di passaggio da Parigi e Annette, te la ricordi? Non puoi mancare!” “Grazie Jacques, sì! Vengo con piacere” rispose Odile senza distogliere lo sguardo dal giornale che era appoggiato sul tavolo, proprio di fronte a lei. Povera donna, pensò Odile guardando la foto di Camille Vigneron, mentre Jacques la incalzava entusiasta: “Ti passo a prendere io, tu non devi pensare a nulla, poi ti riaccompagno a casa così non devi guidare di notte”. Aggiunse, mentre Odile, immersa nei suoi pensieri, si sforzava di ricordare dove potesse aver visto quella donna. Le tornò in mente la sua figura, la mattina del treno, un corpo, il suo, che intuiva snello. Non alto, ma snello. E continuava a ripensare a quei suoi capelli biondi, probabilmente tinti perché nella foto sul giornale i capelli apparivano diversi, molto più scuri. “Va bene Jacques, grazie. Sei un tesoro” rispose distrattamente Odile. Poi tornò a tavola e riprese a mangiare. Dopo qualche minuto fu interrotta di nuovo, stavolta suonavano alla porta. Chi poteva essere a quell’ora? Non aspettava nessuno. Forse era la signora Lambert, quella del piano di sotto che aveva preso l’abitudine ogni tanto di salire per chiederle del sale… O… Udì una voce maschile: “È la signora Odile Richard? Sono il commissario Mercier, della gendarmeria di Joigny. Avrei bisogno di farle qualche domanda. Mi potrebbe aprire per cortesia?” “Sì, certo…” rispose Odile sentendo il cuore salirle in gola. Quando aprì la porta e si rividero, fu il commissario, per primo, ad esclamare: “Ah! Ma noi ci conosciamo!” “Non mi sembra...” rispose Odile. La conversazione rimase sospesa per un istante che parve interminabile. “Vuole forse farmi credere che non si ricorda del nostro incontro di questa mattina?” aggiunse Mercier, quasi indispettito. “Ah già, sì, ora ricordo...” fece Odile abbozzando un sorriso. “Mi deve perdonare, sono molto stanca, ultimamente non dormo molto bene…” Il commissario entrò nel salotto e gettò un primo sguardo indagatore nella stanza soffermandosi subito sul tavolo. “Mi dispiace disturbarla, vedo che stava pranzando…” Subito dopo però si tolse il giaccone con un gesto che non lasciava dubbi: non sarebbe stata una visita breve. “Vuole del caffè? Lo sto preparando” disse Odile cercando di stemperare la tensione. “Mi metta pure subito tre cucchiai di zucchero. Sono giorni duri questi per me, ho bisogno di energia…” rispose Mercier con fare curiosamente più rilassato e confidenziale, ma senza mai perderla di vista. “Lei mi deve scusare per questa visita senza preavviso, stiamo facendo indagini a ritmo serrato dopo il ritrovamento di una donna... vogliamo evitare che in città si diffonda il panico. Lei ne ha sentito parlare immagino…”
“Sì, l’ho letto proprio ieri sul giornale, un fatto terribile…”
“Allora se non le dispiace io comincerei con qualche domanda…” la interruppe Mercier.
“Sì, certo, ci mancherebbe, anche se non capisco cosa c’entri io in questa storia... comunque sì, sono qua, l’ascolto…” rispose Odile versando con cura il caffè nelle due tazze.
“Ha ragione, le spiegherò tutto, intanto sia cortese, mi dica che cosa ci faceva questa mattina tutta sola lungo la ferrovia”.
“Stavo passeggiando” rispose Odile.
“Devo supporre che lei ignorasse di trovarsi poco distante dal luogo del ritrovamento del…”.
“Sì, non potevo saperlo… l’ho capito dopo...” rispose Odile anticipando il commissario.
“Lei però prima mi ha detto che aveva già letto la notizia sul giornale e in tutti gli articoli pubblicati bene o male viene citata la località…” cominciò ad incalzarla il commissario.
“Mah, non ricordo di averci fatto caso. Ero troppo colpita dalla morte della povera signora… signora…” “Vigneron… aggiunse Mercier. Camille Vigneron. Per caso la conosceva?” chiese il commissario dopo aver sorseggiato il suo caffè.
“No, non la conoscevo…”.
“Joigny è una piccola città. Mi scusi ma lei dove ha studiato? Ho visto che siete coetanee…”.
È vero, questo l’avevo notato anch’io. Io ho studiato dalle suore, al collegio di St. Martin… ma non ricordo nessuna Camille…”.
“Che strano, sembra che qui in città nessuno abbia conosciuto la signora Vigneron, eppure la sua famiglia già un paio d’anni fa... bah! Andiamo avanti con le domande...
“Lei lavora signora Richard?”
“Sì, certo, lavoro all’ufficio postale di Sens” rispose Odile.
“Lei però vive qui a Joigny, giusto? Quindi devo dedurre che ogni mattina va a Sens in macchina o…”.
“In treno! In treno. Ogni mattina, già da diversi anni ormai” disse Odile. “Mi è capitato di dover usare la macchina ma è successo pochissime volte in tutti questi anni…”.
“Bene, quindi lei ogni mattina prende il treno per Sens… giusto? E a che ora mi scusi?
“Alle 7.20” disse Odile. “Ogni mattina alle 7.20”.
“Quindi anche il giorno 7 Aprile alle 7.20 lei ha preso il treno?”
“Sì, esatto” aggiunse Odile.
“Si ricorda dove era seduta? Su quale dei tre vagoni?”
“Sul secondo! Mi siedo da anni sempre sul secondo vagone” rispose Odile inframezzando le parole con qualche colpo di tosse che il commissario non poté fare a meno di notare.
“Lei ricorda se c’erano altre persone su quel treno quella mattina?” insistette Mercier.
“Sì, eravamo in tre, come ogni mattina. Con me c’erano la signora Bernard e il maestro Lepage” annuì.
“Posso chiederle un’ultima cosa ora, signora Richard?
“Certo, mi dica”.
“Lei ha notato qualcosa di strano quella mattina lungo il tragitto per Sens? Intendo dire, ha visto per caso delle persone o delle automobili ferme…” chiese a quel punto Mercier quasi volesse arrivare al punto…

Ci mancò poco che Odile, a quel punto, dicesse di aver visto tutto quella mattina e di essere anche in grado di riconoscere il volto dell’assassino. Invece disse: “No, nulla di strano. Anche se devo confessarle che io spesso dormo durante il viaggio…” aggiunse Odile abbozzando un sorriso, mentre il commissario la guardava con la fronte aggrottata. “Signora Richard, lei è una persona sveglia e si capisce che la natura l’ha dotata anche di notevole intelligenza, è importante che si sforzi di ricordare se quella mattina… perché vede, signora Richard, la povera Camille è stata quasi sicuramente uccisa a pochi metri dalla ferrovia. I rilievi della scientifica dicono che…”. Il commissario Mercier non attese la risposta di Odile, si alzò in piedi e prese una borsa di cuoio scuro che aveva appoggiato accanto al giaccone. Ne tirò fuori una cartelletta che subito aprì mostrandone il contenuto. Erano immagini del corpo di Camille Vigneron, subito dopo il ritrovamento. L’aveva trovato per caso un cacciatore, grazie al suo cane. Dalla terra smossa dalla forte pioggia della notte successiva al delitto spuntavano dei capelli. L’assassino l’aveva seppellita in fretta e furia, forse disturbato dall’arrivo di qualcuno... Alcuni scatti erano dettagli delle mani e del volto. Nonostante le numerose tumefazioni e il sangue, si riuscivano ad intravvedere gli occhi, che erano rimasti aperti. La donna indossava una camicetta a fiori semi-strappata sul petto. “Le guardi bene signora Richard, le guardi bene” sibilò il commissario passandole altre foto e avvicinandosi sempre di più a lei. “Dobbiamo assolutamente fermare la persona che ha fatto questa schifezza…”. Poi le lanciò un ultimo sguardo severo, raccolse le foto e le rimise nella borsa. “Se le dovesse venire in mente qual cosa, qualunque cosa, mi chiami” disse Mercier allungandole un suo biglietto da visita. Odile, visibilmente impressionata dalle foto, prese in silenzio il biglietto e lo mise in tasca. Subito dopo fece il gesto di voler accompagnare Mercier alla porta. Prima di congedarlo però, lo guardò negli occhi e gli disse: “Lo farò”.

Appena il commissario se ne andò Odile sentì l’urgente bisogno di una doccia calda. Gli eventi degli ultimi giorni avevano trasformato la sua vita semplice e ordinata, in un caos. In più, vedere le immagini crude di quella donna le aveva procurato una sensazione di profondo disagio che ora sentiva pervaderle il corpo. Il primo scroscio d’acqua giunse freddo, a Odile parve pioggia. Pioveva anche quella mattina maledetta, non l’aveva dimenticato. Dopo la doccia rimase un po' in accappatoio. Era una sua abitudine. Soprattutto nei giorni di vacanza, amava girare per casa vestita così, innaffiava qualche pianta o cercava di dare forma agli spazi, pulendo e riordinando. Si accorse che sopra a una poltrona nel salotto c’erano ancora impilati i vestiti che aveva indossato l’ultima volta che era andata a Sens. Evidentemente quella sera li aveva tolti ed erano rimasti lì. C’era anche il suo cappotto, simile a quello di Camille Vigneron, stesso taglio. Il suo però non aveva il collo di pelliccia, quello della donna uccisa invece sì, ora se lo ricordava, era arancione, volpe, probabilmente. Suonarono ancora alla porta. Odile si era distesa sul letto ma non si era accorta che nel frattempo erano trascorse alcune ore. “Odile, ciao, sono Jacques, sei pronta?” “Già ora di uscire per la cena? Oh Jacques, perdonami, mi ero assopita…” rispose Odile guardandosi intorno per trovare qualcosa di veloce da mettersi. “Dammi il tempo di vestirmi e scendo”.

Odile conosceva bene la casa di Jacques. Era l’ultima, in fondo a Place Eugene Petit. Quando rivide il grande cancello verde le tornò in mente il periodo in cui quella casa era diventata anche un po' sua. Era stata un’idea un po' folle quella di decidere di convivere. Odile si era arresa di fronte alle insistenze di lui anche se sapeva che non sarebbe durata. Non aveva mai amato veramente Jacques, mai comunque così tanto come Jan. Non c’era spazio per malinconie e rimpianti, ad attenderla in quel momento c’erano degli amici che lei adorava e che lei fremeva dalla voglia di rivedere. Ecco Gérard e Juliette, coppia storica e indissolubile già dai tempi del liceo, erano anni che non li si vedeva a Joigny, da quando avevano mollato tutto per andare in Provenza. Gérard appariva sorridente e in carne, colpiva una luce particolare nello sguardo. La luce del mare, pensò Odile. Ma guarda chi c’è! Anche Nadine, la guerrigliera del gruppo, quella sempre impegnata in qualche battaglia politica. Negli ultimi anni aveva esplorato tutti gli schieramenti possibili, sempre in trincea, sempre contro, sempre senza pace. Eccola, con i suoi occhi scuri piccoli come spilli e i capelli a caschetto, refrattari a qualsiasi taglio alla moda. E Annette? “La parigina”, come l’avevano ribattezzata con affettuoso disprezzo loro del gruppo. Era stato Jacques a portarla a Joigny dopo averla conosciuta a Parigi: “L’amore della mia vita”, così l’aveva descritta, presentandola a noi amici. Lei per amore si era trasferita ma la vita di provincia aveva cominciato subito a starle stretta e così aveva pensato bene di sfogare la sua frustrazione sul nostro povero Jacques. Fino all’epilogo immaginabile. “Te la ricordi Annette?” aveva esclamato Jacques rivolgendosi a Odile. “Certamente! Come stai? Sei tornata a Joigny! Stufa di Parigi?” Odile non aveva dimenticato come pungolarla... “No, no. Ho accompagnato un amico di Parigi, anzi, te lo presento, lui è Julien, Julien Le Beller. Suo padre abitava qui a Joigny”.

Odile aveva notato quell’uomo già dal primo momento in cui era entrata in casa. Un po' perché era l’unica faccia sconosciuta in mezzo a tutti quei volti familiari, e poi, diciamolo, perché non era niente male, un tipo che non passava inosservato, affascinante, con quella barba e quei capelli scuri. Scuri come gli occhi, piccoli e pungenti. Anche nello stringergli la mano Odile aveva sentito che c’era qualcosa di speciale in lui.

“Ci conosciamo?” aveva chiesto timidamente. “Non mi sembra,” aveva risposto lui, con fare sicuro.
“È la prima volta che vieni a Joigny?” aveva insistito Odile, tradendo la propria curiosità.
“No, no. Sono venuto altre volte. Venivo spesso a trovare mio padre, Gilbert Le Beller…”.
“Chi? Lo scrittore? Wow!” esclamò Odile, interrompendolo.
“Sì, lui. Ha vissuto qui diversi anni. Nonostante in famiglia fossimo tutti originari della Bretagna lui amava moltissimo questa città. Era un luogo che sembrava ispirarlo, beh, a pensarci bene c’era dell’altro, motivi sentimentali… e… poi... poi è mancato, due anni fa. Vengo qui ogni tanto a controllare la casa...”.
“Oh, mi dispiace”. lo interruppe ancora una volta Odile ma approfittò di quell’attimo per osservare meglio l’ospite: zigomi alti, braccia forti e villose, belle mani segnate dal lavoro... belli anche i capelli, di media lunghezza, di quelli che non sembrano aver mai visto una spazzola e… in quell’istante ebbe una visione che durò una frazione di secondo, vide l’uomo che ora le stava di fronte colpire a morte la donna la mattina del treno, gli stessi capelli e la stessa barba scura e…
“Allora Odile, come va la vita?” Gérard irruppe nella loro conversazione con il suo modo simpatico e un po' ruspante...
“Sì, bene…” rispose Odile, un po' trasognata.
“Ma lavori ancora a Sens? Tutte le mattine levataccia e treno delle 7.20 Mi ricordo sai...”.
“Ogni mattina treno delle 7.20. Gérard, ma tu come fai a ricordarti queste cose...?” E nel voltarsi verso Julien si accorse che lui la stava fissando.
“Dai ragazzi sedetevi a tavola!” esclamò Jacques. Tu, Odile mettiti là, vicino a Julien. Tu Annette vicino a Odile, io qui… bene, dai, brindiamo a questo bell’incontro di amici!” E mise sulla tavola due bottiglie di vino rosso facendosi spazio tra due ciotole piene di olive e un tagliere di formaggi e pane tagliato di fresco. Un delizioso profumo di agnello arrosto alle erbe di Provenza cominciò a riempire la cucina. Jacques fece gli onori di casa e servì anche delle patate cotte al forno con rosmarino e un radicchio fresco condito con aceto agli agrumi. Venne aperta una terza bottiglia di vino, Nadine cominciò a parlare di politica ad alta voce, alzandosi addirittura in piedi per meglio imprecare contro il Presidente. Odile invece era distratta, aveva usato per sbaglio il tovagliolo di Julien e aveva sentito il suo profumo. Conosceva quel Monsieur de Givenchy perché era stato il profumo di suo padre Alain. Ancora più emozionata, cercando di non farsi notare, aveva immediatamente ripreso a spiare il bell’ospite.

Al termine della cena furono servite delle Crêpes al Gran Marnier che tutti apprezzarono a parte Annette che, semi ubriaca, continuò a ripetere, insolentemente, che solo a Parigi le sapevano fare. Molto più interessanti erano stati i racconti di Julien: storie di mare, di barche, di traversate. Odile ne era assolutamente convinta. L’aveva ascoltato per tutta la sera, mentre raccontava e gesticolava con quelle sue braccia forti che a lei facevano immaginare molte cose, tra le quali le principali operazioni necessarie per armare la vela di una barca, che a quel punto le pareva quasi di conoscere, ma anche altro… Tanto che ad un certo punto si era girata verso di lui e gli aveva detto un po' sfacciatamente: “Fare una crociera in barca nell’Atlantico è sempre stato il mio sogno più grande. Julien allora l’aveva guardata intensamente e a voce bassa, le aveva sussurrato: “Cara, quando vuoi, combiniamo. Io so portare una barca, purtroppo non ne possiedo una. Ma ho un amico a Saint-Malo che sarà felice di prestarcela…” A quelle parole Odile si sentì libera di sfiorargli il braccio con la mano, mentre lui la guardava compiaciuto. Quando anche le ultime due bottiglie di champagne furono svuotate, il volume delle voci superò ogni limite. Per Odile, che aveva appoggiato ormai stabilmente la testa sulla spalla di Julien, si trattava solo di un piacevole brusìo di sottofondo. Stando vicino a Julien, si era resa conto, come d’incanto, che dalla fine della relazione con Jan, si era costruita addosso una specie di corazza invisibile. Ma quella sera, per la prima volta, confessava a se stessa che dentro, la carne pulsava di desiderio. Forse per questo, quando Julien le si fece vicino dicendole: “Usciamo di qua” lei, senza esitare, rispose di sì. Nel giro di pochi minuti salutarono gli amici e in si ritrovarono fuori dal portone di casa. Loro due, soli.

Fu in macchina che si diedero il primo bacio. Fu un bacio impacciato e frettoloso. Julien subito le chiese: “Vieni da me?” Odile non rispose e restò a fissare la pioggia che batteva sul parabrezza. Non lo fece per civetteria, era solo terribilmente stanca. Un istante dopo si riprese, volse lo sguardo e con un’occhiata, accettò. Il tragitto fino a casa fu breve. Odile, completamente assorta, non si preoccupò minimamente di capire dove si trovasse. Quando scese dall’auto vide solo che si trattava di una via stretta, poco illuminata, col pavimento di ciottoli arrotondati. Notò che c’erano molte altre macchine parcheggiate. Nonostante fosse molto tardi in una delle case di fronte una piccola finestra era ancora accesa. Quando accostò la porta dell’auto, la luce fioca di un lampione illuminò l’arancione della carrozzeria. Per Odile fu l’ennesimo, terribile, presentimento. Anche questa volta però, se ne liberò all’istante. Rimase per alcuni secondi ferma nella stessa posizione, forse più a lungo di quello che lei stessa percepì in realtà perché Julien dovette chiamarla due volte prima di avere una risposta. “Odile, tutto ok? È un po' tardi, dai vieni su, ci beviamo qualcosa e poi ti accompagno a casa…” aggiunse con quel suo tono di voce rassicurante. Odile sorrise, il pericolo, per quanto aleggiasse, era nulla a confronto dell’eccitazione e della gioia che aveva provato in quelle ultime ore. Stava rischiando? Che cosa poteva temere? Tutto quello che le stava succedendo era così bello e vero! Le piaceva tutto, senza riserve. Le piacque persino la forza con cui Julien la prese per un braccio prima di entrare nel portone dello stabile. Nell’atrio vide alcune biciclette accatastate e sentì un forte odore di muffa. Salendo lungo la scala di pietra che portava ai piani superiori, la luce si fece sempre più cupa. Giunti al secondo piano Julien disse: “Ecco, ci siamo”. E la invitò a entrare in casa per prima.

Si ritrovarono in un piccolo salotto appena rischiarato dal riflesso di una luce lontana, proveniente da un’altra stanza. Si udiva da qualche parte anche il suono indistinto di una radio. “Lascio sempre qualcosa di acceso, così ogni volta che torno a casa mi sembra che mio padre sia ancora qui” aveva sussurrato Julien. “E quello è Nuit!” aveva aggiunto indicando un gatto nero profondamente addormentato e, quasi invisibile, sul divano. “Accomodati” disse, accendendo una piccola lampada appoggiata su un tavolo. “Prendo da bere” aggiunse allontanandosi verso il corridoio.

Paura? Di che cosa poteva avere paura? Si chiedeva insistentemente Odile, mentre sola, nel salottino, si guardava intorno ripensando agli eventi della giornata. Istintivamente si mise a cercare il telefono nella borsa ma non lo trovò. Si ricordò di averlo tirato fuori a casa di Jacques l’ultima volta e… In quel momento entrò Julien con in mano una bottiglia: “Ho del Guignolet de Dijon, brindiamo al nostro incontro?” esclamò sorridendo. Odile gli andò incontro e lo abbracciò di slancio. Dopo che ebbero riempito e svuotato due volte i loro bicchieri, Julien, visibilmente euforico, le propose di visitare la casa. Nel salotto, reso a quel punto più chiaro dalla luce di tre lampade, troneggiava una vecchia credenza in legno massiccio. All’interno di essa, allineati sui ripiani, facevano bella mostra diversi elmi e copricapi militari piumati oltre ad una ricca collezione di armi bianche. La parete opposta invece era piena zeppa di libri. Sopra ad un piccolo tavolo rotondo, alla base della libreria, c’era anche una copia del quotidiano locale piegato a metà. Gli occhi di Camille Vigneron facevano capolino nella parte superiore della prima pagina. Odile li riconobbe subito e continuò a guardarli fino a quando Julien spostò il giornale per poter appoggiare la bottiglia. “Ho paura di aver dimenticato il telefono a casa di Jacques”. disse timidamente Odile, interrompendolo. “Se hai bisogno del telefono puoi usare il mio” rispose lui pacatamente. “Domani mattina ti accompagno a prenderlo…”. C’era nella risolutezza di Julien qualcosa di estremamente virile che le piaceva. L’aveva percepito fin dal primo momento. Le era piaciuto, per esempio, sentire che Julien aveva già deciso che lei sarebbe rimasta lì la notte. La sua decisione esprimeva indubbiamente forza e interesse per lei. E di questo si sentiva profondamente lusingata. Rimasero alcuni minuti immobili, accanto alla finestra. Fuori pioveva ancora. Si udì una persiana sbattere per il vento. Odile lo percepì come un segnale, appoggiò con eleganza il bicchiere sul tavolino e prese la mano di Julien portandosela al petto. Si abbracciarono. Lei sentì dal contatto dei loro corpi che Julien era pronto. Lui si staccò e lei lo seguì verso la camera da letto.

La mattina seguente, al suo risveglio, Odile si ritrovò sola in un letto e in un luogo che stentò a riconoscere. Attraverso una tenda scostata, vide una porzione di cielo grigio con grandi nuvole in movimento. La stanza era ampia e spoglia e aveva un soffitto molto alto. Odile notò che in alto i profili in stucco erano molto deteriorati. Di fronte al letto, sulla parete, c’era una grande foto in bianco e nero di una balena. Nient’altro. Cominciò a orientarsi quando riconobbe il suono della radio proveniente dall’altra stanza. Poi sentì un sottile profumo di caffè alleggiare nell’aria e subito apparve Julien con un piccolo vassoio tra le sue mani grandi e sul vassoio due tazzine fumanti. Sorrideva. Quando lo vide, Odile si sentì felice. Chissà che faccia avrebbe fatto Jacques quando lui e gli altri amici avrebbero saputo di loro due. La vita, non c’erano dubbi, era tornata a sorriderle. Bevvero il caffè e tornarono a letto. Dopo aver chiacchierato e riso a lungo, Julien si fece improvvisamente serio e cominciò a guardarla in modo strano iniziando a baciarle il collo con particolare cura. Appena la sentì ansimare, le slacciò la cintura della vestaglia e senza pronunciare parola cominciò ad accarezzarle i capezzoli e poi, scendendo, il ventre, fino a quando lei, spontaneamente, spalancò le gambe e si ritrovarono di nuovo avvinghiati l’uno all’altro.

L’idillio non durò a lungo. Pensieri oscuri tornarono di nuovo a visitare la mente di Odile. Mentre Julien era in bagno a prepararsi, lei fece l’errore di tornare in salotto a curiosare tra gli oggetti sparsi sulle mensole della libreria. Notò subito una piccola foto incorniciata. Nell’immagine si vedeva una coppia con bambina. L’uomo, dai tratti simili a Julien ma decisamente più magro, indossava un cappello di paglia e sorrideva al fotografo. La donna invece pareva la fotocopia di Camille Vigneron. Mentre la bambina... “È mio padre, con la sua compagna…” la voce di Julien era risuonata greve nella stanza e prima ancora che lui si avvicinasse lei aveva già provveduto a rimettere la foto al suo posto. Il discorso finì lì e lei non osò chiedere altro. Avrebbe voluto però. Anche dopo, quando furono sul punto di salire in macchina, Odile rimase in silenzio a rimuginare i suoi pensieri. Avrebbe voluto chiedergli chi fosse la bambina nella foto o come mai c’era un cappotto da donna appeso in anticamera, anche se era certa che Julien le avrebbe mentito con una di quelle sue risposte pronte che ora lei cominciava a riconoscere. Preferì parlare del suo telefono e della necessità di recuperarlo e Julien, puntualmente, la rassicurò. Lei però non stava più bene, sentiva che c’era qualcosa di poco chiaro, una zona d’ombra sulla quale non riusciva a fare luce.

Attraversarono la via centrale della città mentre il traffico si stava facendo sempre più caotico a causa della pioggia. La radio trasmetteva una musica degli anni ‘50; Julien la seguiva fischiettando e di tanto in tanto volgeva lo sguardo verso di lei fissandola per qualche secondo, fino a quando Odile lo costringeva a fare attenzione alla strada. Più o meno all’altezza del bistrot dove si era fermata pochi giorni prima – sembrava trascorso un secolo! - Odile, si guardò alle spalle e sul sedile posteriore vide di sfuggita delle chiazze scure. Mentre Julien era impegnato alla guida, senza farsi notare, Odile riuscì ad allungare un braccio e a toccare con la mano il sedile. Quando la ritirò vide che era tutta rossa e si sentì gelare il sangue in corpo. Cercò allora di disciplinare il respiro sperando così di contenere la paura, ma il cuore, allarmatissimo, non le ubbidì. Ed entrò in panico. La scena del treno irruppe nella sua mente. Rivide, con lucidità, la donna aggredita con addosso il cappotto dal collo di pelliccia e la memoria, tanto soccorrevole quanto spietata, le permise questa volta di mettere insieme le ultime tessere del puzzle. Si ricordò dell’attimo in cui il commissario Mercier le aveva mostrato quelle terribili foto. La povera Camille l’avevano trovata con indosso solo una camicia. E non c’era traccia del cappotto in nessuna delle foto. Questo significava che… significava che…

Improvvisamente fu tutto chiaro. Si sentì precipitare in un baratro di terrore. Perché aveva perso tutto quel tempo? Perché non aveva mai dato retta al suo istinto? Come aveva potuto cadere così stupidamente in trappola? Ora doveva cercare di salvarsi. Se voleva uscire viva da questa situazione, doveva trovare la forza di non piangere; se lui l’avesse scoperta, allora sì, sarebbe stata la fine. Una volta giunti a casa di Jacques sarebbe stata salva… sì, continuava a ripetere dentro di sé, a casa di Jacques lei sarebbe stata salva… sarebbe stat… All’improvviso percepì una strana umidità tra le gambe: capì di essersi bagnata le mutandine. Non si trattenne più, incominciò a singhiozzare sempre più forte fino a quando la tensione non la soverchiò. E crollò in un pianto disperato. Julien, che solo allora la notò, esclamò allarmato: “Che c’è piccolina? Perché piangi?”. Lei, istintivamente si coprì il volto con le mani. Alla vista del sangue lui perse la testa, guardò due volte sul sedile dietro e prese a urlare. Odile fece appena in tempo a vedere il volto di Julien trasfigurarsi, poi sentì un colpo violento in faccia e ricadde indietro. Allora lui prese ad accelerare e la macchina cominciò a sbandare pericolosamente nel traffico. Odile, ritornata in sé, cominciò a picchiarlo e a urlare con tutta la forza che le era rimasta in corpo nel disperato tentativo di richiamare l’attenzione di qualche passante, ma Julien la colpì nuovamente al volto e poi ancora, più forte, fino a quando lei si accasciò, svenuta.

Quando riprese conoscenza, Odile si ritrovò sola, in macchina. Dove si trovava? Erano scomparse le case e le altre automobili. Tutto era immobile ora, intorno a lei. Pioveva ancora ma il suono delle gocce sul vetro dell’auto era diverso, più sottile. Guardò a sinistra e vide solo aperta campagna. Davanti a sé notò, poco distante, la linea netta della ferrovia. Quando volse lo sguardo a destra ebbe un sussulto perché riconobbe la sagoma di Julien. Chino sul terreno, lo vide impegnato a scavare una grossa buca con una pala. Come un animale braccato, lui sentì di essere osservato e si voltò. Appena vide che era sveglia si precipitò verso la macchina, aprì la portiera, l’afferrò per un braccio trascinandola fuori e la scaraventò a terra. “Julien!” urlò Odile terrorizzata. “Julien!” urlò di nuovo notando per la prima volta una terribile smorfia di disprezzo sul volto dell’uomo che solo poche ore prima l’aveva stretta tra le braccia. “Julien, che cosa stai facendo, fermati, ti prego. Fermati prima che sia troppo tardi. Tu non stai bene, Julien, devi farti aiutare, hai già fatto del male a…”.

Odile non fece in tempo a finire la frase che sentì un colpo secco alla testa. Alzò istintivamente le braccia cercando di proteggersi e vide che l’uomo brandiva una lunga sbarra di metallo e stava per colpirla di nuovo. Riuscì a schivare il secondo colpo e a divincolarsi, staccandosi dalla sua presa. Ma fatti due passi, scivolò nel fango e ricadde a poca distanza dalla fossa scavata. In un attimo lui le fu addosso, l’afferrò per i capelli e riprese a colpirla furiosamente urlandole frasi deliranti.

Fu a quel punto che si udì una voce provenire da lontano: “Polizia! Julien Le Beller, metta giù quell’attrezzo immediatamente”. Odile, con gli occhi impastati di sangue e terra, si voltò e vide l’immagine sfuocata di alcune persone correre verso di lei. E notò pure che Julien, in piedi alle sue spalle, ora aveva le mani alzate. Era finita dunque? Era salva? Fu sul punto di crollare in un pianto di gioia ma la sua illusione durò una manciata di secondi.

Julien in un attimo le fu dietro e l’afferrò di nuovo con forza stringendole un braccio attorno al collo e trascinandola con sé... Odile avvertì sulla tempia il gelo metallico della canna di una pistola. Decise di non opporre resistenza. “Julien, non le faccia del male, la lasci andare. La lasci andare ora!” La voce questa volta era quella del commissario Mercier, Odile la riconobbe. Julien, per tutta risposta, alzò il braccio e sparò. Si udirono nell’aria due colpi secchi. “L’ammazzo!” urlò. Se non state lontani, ammazzo questa cagna, come ho ammazzato le altre…” E continuò a muoversi arretrando, un passo dopo l’altro fino quasi a giungere alla base del terrapieno su cui passavano i binari del treno. “Maledetti piedipiatti, fottetevi!”

Un altro colpo echeggiò all’improvviso e questa volta parve provenire da un’altra parte. Julien urlò e si tenne il braccio con la mano, mollando la presa. Odile, rimasta libera, cadde a terra e rotolò distante, mentre lui cominciò a sparare all’impazzata. A quel punto i poliziotti risposero al fuoco. Julien cadde e si rialzò due volte, riprendendo a sparare. Nel frattempo era riuscito a risalire la china di ghiaia. Lo videro muoversi barcollante tra i binari. Annunciato da un fischio acuto, da dietro la curva, apparve improvvisamente il treno. “Julien!” urlò Odile allungando il braccio, quasi a volerlo raggiungere. Lui, inginocchiato sulle rotaie, fece appena in tempo a girarsi e a guardarla. Il treno, un istante dopo, chiuse la scena come un tragico sipario.