Il buon auspicio è un romanzo perennemente in fieri, narra in prima persona e in presa diretta, come in una stenografia del reale, le vicissitudini di Lorenza, figura controversa che lavora come consulente filosofico nel reparto psichiatrico dell'ospedale della sua città, ascoltando le storie di vita e di sofferenza dei pazienti. Ma alla stessa Lorenza, anni prima, venne diagnosticata una schizofrenia paranoide, diagnosi che del resto lei respinse e ignorò sistematicamente.

La vita sentimentale della protagonista è tenuta in scacco dal suo alter-ego Lorenzo, molto seducente, ma che non le si concede mai. Questo surrogato d'amore non corrisposto impedisce a Lorenza di amare altri uomini poiché Lorenzo, inaccessibile sessualmente, tiene in ostaggio il suo desiderio. Entrambi intrattengono grotteschi rapporti con altri partner, come se si amassero di sponda attraverso il corpo degli altri. Susseguirsi di prede sessuali, sorta di sacrifici di fronte ai quali i corpi dei due fanatici rimangono intatti, intoccabili.

A livello formale, buona parte del romanzo è intessuta dalle annotazioni del diario redatto dalla protagonista come “opera del tempo” per tenere assemblata la sua personalità mercuriale. Il diario è perlopiù un semplice deposito di note e memorie circa la perversa relazione con Lorenzo, la mondanità, la reclusione del padre, il rapporto con la scrittura, flirt bizzarri, piccoli aneddoti, il delirante ménage con lo scrittore MH, l'affiorare della follia nelle pieghe del quotidiano. L'elemento di maggior interesse del diario è l’assenza di intenzioni specificamente letterarie, presentandosi piuttosto come forma del feticismo documentaristico della protagonista.

Innestate tra le annotazioni diaristiche, l'opera ospita materiali multiformi che sconfinano da un genere all'altro: i resoconti della vita psichica della protagonista; l'assidua trascrizione dell'attività onirica; la sbobinatura dei racconti dei pazienti; la stravagante narrazione delle avventure della protagonista, il cui orientamento sessuale è un'ambigua mescolanza di misticismo e pornografia; fino alla dimensione dell’appunto e della mera registrazione contabile degli esercizi ginnici e dei cibi consumati in una giornata.

A livello strutturale, l'assenza di una trama ha l'obiettivo di imitare l'incoerenza della vita, alludendo al fatto che gli eventi non si susseguono come fossero stati premeditati a tavolino. La struttura dell'opera non deriva da precisi intrecci narrativi, ma dal progressivo e sottile sedimentarsi di risonanze tematiche. L'autrice, che è allo stesso tempo protagonista del romanzo, non inventa una storia per ostentare il suo talento, né per dimostrare la forza dell’affabulazione. L'intento è raccontare una storia il più possibile fedele alla vita, quindi una storia a livello più basso, irrazionale, non letterario, priva di un capolinea morale.

Dal punto di vista estetico, il linguaggio non si discosta di molto dal gergo quotidiano. Talvolta più sorvegliato, nella maggior parte dei casi immediato, concreto, persino grezzo.

È da più di un anno che trascorro almeno quattro ore al giorno nella convinzione di essere un’entità sovrannaturale. Certi giorni sono certa di essere un cavaliere che ha raggiunto la perfezione dell’eroismo, altri credo di essere un toro, altri ancora credo di essere una vacca stupida e buona che corre in tondo dentro al suo recinto, una specie di vacca sacra. E in sé la vacca non avrebbe nulla di sacro, e di sovrannaturale meno ancora, non fosse per il fatto che io non lo sono. Sono una donna, mi dico, sono la madre di mia figlia, vivo con un uomo… È vero, ho qualche abitudine sconsiderata, per esempio, non mi curo molto dell’igiene, ma non sono una vacca. Sono una vacca forse? Ma no, non lo sono.

Eppure…

Altre volte credo di essere una specie di bilancia vivente, un micro-giudizio universale precipitato nel corpo di una donna, una semplice donna tanto insospettabile quanto ineludibile nella sentenza finale. E chi mi avrebbe investito di una così alta funzione? Non lo so, non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello la possibilità di indagare al riguardo.

Altre volte ancora credo di essere un semi-umano, un aborto vivente, un animale con strani organi interni… Quando cammino per la strada noto che la gente mi guarda.

Per quanto le esperienze della quotidianità contraddicano manifestamente le mie convinzioni, queste non cessano di popolarmi i pensieri. Porto mia figlia all’asilo, indosso scarpe da ginnastica e un banalissimo maglioncino, eppure, Sono una bestia strana, penso tra me e me, pedalando, mentre la piccola mi tira la coda e ride. Lungo il breve tragitto da casa mia all’asilo osservo il cemento tartassato di buche e i marciapiedi lerci di chewing-gum e mozziconi. “Guarda – mi dico – ci sono sempre questi marciapiedi, queste strade, e la luce del sole… è pomeriggio, eppure…”

C’è sempre quell’eppure di mezzo, la realtà non mi persuade.

Ho l’impressione di non essermi ben formata, di non essermi assestata in un ben preciso stampo. Mi sento più simile a un impasto in fase di lievitazione che a una persona. E da un impasto non si sa mai che cosa potrà venirne fuori, si deve sempre badare all’umidità, aver cura di coprirlo con uno straccetto, riporlo in un luogo asciutto e riparato, perché basta un piccolo sbalzo della temperatura, e tutto smotta.

Mi capita sovente di andare a sbattere contro gli stipiti della porta, o contro gli spigoli del tavolo e degli armadi. Ma è impossibile che non sappia prendere le misure! Si vede che non capisco quali siano le mie dimensioni. Immagino di essere meno ingombrante di quel che sono, d’avere spalle meno larghe, braccia più corte. Quando uno spigolo mi si conficca tra un tendine e l’altro elettrizzandomi i nervi, impreco e mi guardo di traverso il braccio, come se mi avesse fatto lo sgarbo d’essersi materializzato all’improvviso.

Altre volte invece sento il corpo leggero, vuoto, gonfio come un bel palloncino, lì per prendere il volo. Oh, è una bellissima sensazione! Al posto dei muscoli e della carne mi sembra d’avere aria, e camminare, muoversi, correre non è più una fatica, né uno sforzo fisico, ma diventa solo un piacevole pensiero.

C’è qualcosa di ridicolmente provvisorio nella morfologia umana con le due braccia, le due gambe, un paio d’orecchie, un cuore, una sola vita a disposizione… Uno psicologo mi ha detto: “Lei ha manie di onnipotenza”. Io, che provengo dalla numinosa epoca del senza-tempo, gli ho risposto: “Ma no… L’essere umano è grande, è generoso e magnanime, l’essere umano è un asilo per tante cose! È lei che ha manie di impotenza”.

Sono sempre stata preda di grandi dubbi nei confronti del mio corpo, sia riguardo la sua unità, sia riguardo la sua univocità, cioè non son mai stata troppo sicura di essere una sola e proprio quella. Si può dire che fino ai tredici, quattordici anni ho vissuto in una specie di vaghezza fisica, senza riuscire a mettere davvero a fuoco il fatto di avere un corpo, di essere innanzitutto un corpo. Tuttora ci sono dei momenti in cui ho difficoltà a percepirmi in qualità di persona fisica, mi sento piuttosto un’entità non meglio specificata.

A proposito della gente che mi guarda, vorrei precisare un paio di cose. Siccome sono pigra, non scomodo mai un neurone per circostanziare le mie impressioni, e così finisco col cacciare qualsiasi persona, qualsiasi cosa, e in genere tutto quello che si estende al di là della mia pelle, nell’unica categoria Altro da me.

Cominciai a rendermi conto del mio corpo attorno ai quattordici anni, dapprima in maniera vaga, e via via col tempo in maniera sempre più nitida fino al compimento del venticinquesimo anno, età in cui mi dissi: “Ecco, ci sono”. Allora decisi di prendere atto del mio corpo come un notaio prende atto di una nuova nascita, di un matrimonio, di un decesso, ecc. Se prima ero vissuta soltanto interiormente, da quel momento sentii di esserci anche nel corpo, e fu a quel punto che qualcosa dentro di me decise di nascere a tutti gli effetti. Seduta al tavolo della cucina di mia nonna – un quieto pomeriggio estivo – mentre bevevo il mio succo di frutta, una voce nella mia testa ordinò: Adesso nasci!

Mi alzai repentinamente dalla sedia, determinata come un capostipite, e me ne andai. Ma dove andavo? Andavo forse a nascere?!

Ah, è persino ridicolo... pare che il corpo ce lo avessi, ma era come se non avesse attecchito nella mia mente, come se stesse galleggiando nella sua trance prenatale. Avevo spalle larghe, gambe lunghe, un paio di piedi, le ginocchia e persino le rotule, ma non avrei affatto potuto giurarci.

Non è un caso che per nascere - probabilmente quel giorno d’estate corsi in palestra - abbia scelto lo sport più analitico che esista, il body-building. “Build” significa costruire, fabbricare, fondare, ma anche trasformare, ed era quello di cui avevo bisogno, di un atto che desse forma al mio corpo centimetro per centimetro, e che ne sancisse il passaggio da impressione soggettiva a inequivocabile entità materiale.

Il body-building è la disciplina sportiva meno organica che conosca, non ha a che fare con l’interezza del movimento, non chiama in causa il corpo nella sua totalità; il suo obiettivo è quello di sviluppare un muscolo alla volta, senza altro ideale se non quello di raggiungere l’ipertrofia di ogni gruppo muscolare. Benché non lo amassi, quello sport mi era congeniale perché andava incontro alla mia volontà di individuazione, e praticarlo fu per me come un battesimo, una specie di meditazione pratica per passarmi in rassegna da capo a piedi. Le fatiche profuse durante gli allenamenti sono state il mio auto-concepimento, e la trasformazione fisica cui andai incontro è stata la mia auto-gravidanza.

Man mano che bicipiti, tricipiti e pettorali si sviluppavano, io mi sentivo autorizzata a possederli. Dopo ogni allenamento, con i muscoli doloranti, ero pervasa da una nuova felicità, Ho gli addominali! Ho i dorsali! esultavo tra me e me con questo becero gergo tecnico. Ero raggiante, ai limiti dell’istupidimento. Prima non avrei mai detto d’avere un ginocchio, una gamba, dei lombi, ora invece potevo vantare d’avere la pelle e persino la possibilità di sudare. Che meraviglia!

Al contempo cominciò a mutare la percezione delle mie dimensioni. Prima di dedicarmi allo sport andavo spesso a sbattere contro le porte, perché immaginavo di poterci passare attraverso. Chissà cosa credevo di essere, probabilmente il nulla, il fatto è che ogni volta mi dimenticavo del mio ingombro fisico.

Ora, non posso dire che il problema sia del tutto risolto, ma è migliorato. Nei periodi in cui mi alleno costantemente, riesco a passare indenne attraverso le porte, perché le apro. È un’enorme conquista per me. Ma se qualcuno mi fa saltare i nervi, o durante quelli che chiamo “momenti difficili”, capita che vada clamorosamente a sbattere contro porte e pareti, provocando lo sconcerto di tutti. Una volta, durante un congresso di bioetica, ho buttato giù una porta a vetri alta fino al soffitto. L’incredibile è che non mi sono fatta niente.

Non imparo né dal dolore, né dal piacere. Ogni volta in cui vado a sbattere contro qualcosa, naturalmente mi faccio male, ma ciò non mi impedisce di andarci di nuovo a sbattere. A quanto pare, devo far mente locale per ricordarmi d’avere un corpo, ho sempre bisogno di rinfrescarmi la memoria. Nel sedermi su una sedia o su una poltrona sbaglio incredibilmente la mira, e quando mi appoggio sul wc atterro di lato, scassando tutta la struttura dell’asse. Sono situazioni penose e allo stesso tempo comiche, ma il risultato è che nello sgabuzzino tengo sempre un paio di assi del wc di scorta.

Il dolore, i graffi, le escoriazioni, i lividi mi ricordano dei miei doveri terreni, come i nodi nella corda dei frati francescani ricordano loro i doveri spirituali. Un teschio sulla scrivania, un mazzo di fiori recisi da cui cade qualche petalo è un memento mori che mi ricorda della mia finitudine, che prima o poi dovrò tirare le cuoia. Le mie ammaccature e i miei lividi invece mi ricordano che devo vivere, stanno lì a ricordarmi che esisto in questo mondo sotto forma di corpo umano.

A ventisei anni ero convinta di dover trascorrere un paio di ore al giorno all’interno di un fetido sottoscala ottocentesco al fine di poter forgiare fisicamente e spiritualmente la mia identità. Per un paio di mesi, ogni giorno, mi sono insediata nel sottoscala, in perizoma, ritta in piedi, ad attendere al mio solitario e silenzioso processo di fissaggio. Ero persuasa che l’identità mi si sarebbe fissata addosso, come lo smalto sulle unghie dopo avercelo steso sopra. Non era stata una voce a suggerirmi di farlo, ma mi ero sentita stranamente, e in modo pressante, attratta dal sottoscala, che mi era parso il luogo più idoneo in cui installarmi. Avevo la sensazione che il sottoscala significasse qualcosa di molto profondo, di molto imprescindibile.

Procedo al contrario. Se in genere ci si deve ricordare di morire, io devo ricordarmi di vivere. Il battesimo è l’immersione del corpo nell’acqua, e simboleggia il passaggio della singola coscienza a un elemento più ampio e universale. Il battesimo, che letteralmente significa “immersione”, segna l’accesso del corpo a una dimensione animica e immateriale. Il mio battesimo attraverso lo sport aveva invece sancito il passaggio contrario, dal “cielo” alla “terra”. Era stato come venire a galla, perché finalmente affioravo alla realtà. Mentre il battesimo in qualità di sacramento religioso consacra la venuta al mondo di un’anima, il mio battesimo ha consacrato la venuta al mondo di un corpo, la mia incarnazione.

La vita interiore e il regno dell’al di là per me sono ovvi, scontati, non lo sono invece la dimensione fisica e il regno mondano. Ho dovuto fare la comunione col terreno, e anziché l’anima sacramentare il corpo, mio sconosciuto.