Un giorno il delfino stava viaggiando nell’oceano mentre la nonna Luna tesseva i ritmi delle maree. La nonna chiese al delfino di imparare i ritmi lunari affinché egli potesse aprire la propria parte femminile alla sua luce argentata.
Il delfino prese a nuotare al ritmo con cui nonna Luna tesseva le maree, e imparò un nuovo modo di respirare. Continuando ad usare questo ritmo nuovo il delfino entrò nel tempo del Sogno: questa realtà era un luogo nuovo e diverso dai mari che aveva conosciuto.
Il delfino scoprì città sommerse nel tempo del Sogno e ricevette in dono la lingua primordiale.1

Mai come ora capisco quanto mi piace aspettare che tu ritorni dai tuoi viaggi misteriosi.
A volte ho creduto di non riconoscerti, ma sempre ho ascoltato le storie fantastiche che uscivano dalla tua bocca come suoni di una sinfonia mai udita.
Osservavo le tue labbra muoversi con lievi e quasi impercettibili gesti, una danza che permetteva alle parole di assumere forme, di uscire nel soffio dell’aria con un fremito di timore, con una brevissima pausa di attesa, con il sorriso della gioia, con l’incertezza del ricordo o il passaggio di un pensiero non voluto.
Sapevo cogliere la tristezza in un’esile risata che voleva nascondere la verità e leggere la commozione della nostalgia.

Le sillabe plasmate dal respiro della tua anima escono e volteggiano a formare frasi che prendono luce e suono dai tratti del tuo viso che, come un’antica mappa, si lascia disegnare dalle emozioni.

C’è un piccolo solco a lato della tua bocca, da un lato soltanto: non ricordavo di averlo veduto quando ci siamo salutati.
Provo una dolce tenerezza per questo segno che, come un minuscolo, incancellabile tatuaggio, mi ricorda quanto il tempo è prezioso.

Guardarti parlare è ascoltare una visione
la parola è un tocco
la parola è un sospiro
la parola è uno sguardo
la parola è memoria di un contatto.
Le parole hanno bisogno di avvicinarsi, di vedersi, di dirsi attraverso il corpo.

Bisogna stringersi forte per tornare ad inventare la felicità.

Molte cose so di te, posso immaginarti come la visione più bella, ma i miei occhi hanno bisogno di inseguire la delicata curva del tuo naso che disegna le tue guance. Guardo i tuoi occhi che si appoggiano sotto l’arco d’ebano delle tue sopracciglia e illuminano d’ambra i tuoi zigomi, accarezzo la tua fronte e so intuire il desiderio che l’attraversa.

Se ti sono accanto, sento il tuo cuore e riconosco il velo sottile della malinconia che sta come sospesa, in attesa del pianto che lava il cuore. Mi tornano in mente i versi che amo e li sussurro al tuo orecchio che accoglie la mia voce.
Sento il tuo profumo: goccia di meraviglia, e ritrovo il soffio di cui si nutre ogni parola.

Mi sembra sia pari agli dei
quell’uomo che di fronte a te
siede, e da vicino ti ascolta
parlare dolcemente
e amabilmente ridere: è questo
che il mio cuore, nel petto, fa tremare.2

Ascolto il suono che ti attraversa, accolgo la voce del silenzio: è l’incanto, come una musica che modula il suono della vita, come un’antica preghiera che governa il viaggio dell’anima.

Per essere efficaci le parole devono essere cariche di vibrazioni d’amore e di sincerità, attinte dai suoni che permeano l’universo.

Parlarsi è condivisione ed empatia.
La parola vuole essere pronunciata da una voce senza impedimenti.
Il linguaggio è impensabile senza gesto, senza contatto.
È il gesto che, insieme alla voce, suscita in chi ascolta la risposta che è reciprocità, accoglienza, desiderio di combaciare con il sentire dell’altro.
La parola attraverso il gesto fa dono di sé, si manifesta e si esibisce per creare incontro.
Ognuno di noi è uno strumento con una propria risonanza che non può essere alterata ma che ha bisogno di altri suoni per creare armonia.
La voce agita dal corpo è una potente espressione di identità, e un richiamo ad intrecciare le sillabe del nostro dire.

La figura maestosa avvolta in un ampio mantello color amaranto si staglia al centro dello spazio scenico. Le braccia si atteggiano ieraticamente in un gesto di accoglienza: un abbraccio, un riconoscimento.
Non lontano un personaggio femminile porta le mani al volto in segno di attonito stupore. Il coro alza il suo lamento di catastrofe battendosi il petto.
Una brezza lieve arriva dal mare e ne porta l’odore.

Gli attori hanno il volto coperto dalla persona, la maschera che rende riconoscibile il personaggio, ne accresce la potenza acustica ed espande la forza empatica dell’evento.

È il ricordo di una intensa emozione, il rito del teatro, quello che ha radici antiche, il potente passaggio di energia che crea la misteriosa esperienza della catarsi che induce nell’uditorio le lacrime purificatrici.

Abbiamo bisogno di questa commozione che va oltre la parola e libera l’animo dal dolore.

L’azione scenica si fa corpo, entra nel profondo, si sporca con la vita, non esclude anzi cerca la contaminazione con lo spettatore che trasforma la visione in sentire soggettivo: un terreno ben diverso da quello delle ipotizzate piattaforme digitali.

Il teatro è fisicità, ha bisogno della presenza viva e concreta di attori e spettatori in uno spazio condiviso.
E il pensiero va alla maschera di separazione che ci è imposta: una non identità che nasconde anziché svelare e riconduce tutti al ruolo di vittime senza volto di un oscuro nemico.

Vedo i tuoi occhi spaventati da qualcosa che non sai, mi guardi e attendi da me quel bacio sulla fronte che non arriva, che non posso darti.
Non riesco a toccare le tue mani divenute sempre più esili eppure così piene di grazia.
Non posso vedere i solchi profondi delle tue rughe che amo profondamente: mi raccontano tutto di te, della tua bellezza e del tuo stare nella vita con coraggio e con dolcezza.
Cerco di ricordarle tutte, come tracce indelebili del tuo lungo viaggio, come doni che ho ricevuto da te quando ancora potevi mostrarmele davanti allo specchio che non sentivi più crudele ma soltanto sincero.
Mi manca il racconto del tuo viso, ma cerco di ricordarlo attraverso la tua voce che mi leggeva le parole del tuo libro preferito.

Ascolta mia cara,
non sottovalutare mai la resistenza di una vecchia saggia. La vita può dilaniarla o trattarla ingiustamente, ma lei possiede un’altra anima, un’anima primaria, fulgida e incorruttibile
sotto l’anima assediata, un’anima luminosa che rimane sempre intatta. Sotto il soprabito nasconde ali lunghe sei metri, e nella sua grande tasca un’intera foresta ripiegata. Sotto il letto potrebbe tenere pantofole delle sette leghe in lamé dorato. E attraverso le lenti dei suoi occhiali, vedrà quasi tutto ciò che può essere visto.3

Gli occhi sono la nostra temporanea, impermanente salvezza per dirci ciò che avevamo dimenticato e non possiamo attendere a rivelare.

Sono un alfabeto gestuale che ci aiuta a guardare con compassione:
occhi in ascolto, occhi di domanda, occhi attoniti, occhi della paura, occhi suadenti, occhi stranieri, occhi timorosi, occhi lontani, occhi segnati di pianto, occhi soffusi di incanto, occhi che guardano il cuore, occhi trasparenti d’amore. Occhi di lontananza, occhi di salvezza, occhi di benevolenza, occhi di tristezza, occhi di oscuri pensieri, occhi venati di desideri, occhi grandi, occhi fanciulli, occhi in attesa, occhi silenziosi, occhi contemplanti, occhi capaci di bellezza, occhi di rimpianto, occhi accorti, occhi di eternità.

Argenteo disco: lascia che ti consideri una dea
tu, con la tua faccia specchiata.
Stasera, ogni sera, la tua forma è perfetta,
la tua presenza sublime.
Lo sai anche tu. Appari prima ancora che il sole
sia tramontato,
avvolta nel glorioso mantello della notte,
e ci guardi splendida,
rendendo idilliaco il nostro polveroso mondo.4

Notte di plenilunio, notte tiepida.
Il mare è quasi immobile, si cammina sulla spiaggia umida di tramonto.
Ci teniamo per mano, già si sente la musica, acceleriamo il passo con i piedi nell’acqua.
Troviamo gli amici ad aspettarci. Ci abbracciamo e abbiamo come sempre tante parole da dirci.
Indosso un vestito di mussola azzurro con piccoli fiori variopinti.
Mi avvicino al vassoio colmo di datteri al quale tutti attingiamo assaporando il piacere del tatto.
Qualcuno mi invita a ballare con un baciamano inatteso.

Che cosa resta della sensazione?
Se non c’è sensazione non c’è comprensione e la comprensione, come ci ricorda l’intima etimologia di questa parola nel verbo latino comprehendere “contenere, racchiudere”, è abbraccio, l’abbraccio che non può esserci sottratto, una libertà di sentire che ancora resiste nell’universo uniformante della virtualità.

Mi guardo con altri occhi, mi ascolto con altre orecchie e questo nuovo orizzonte aiuta a placare il turbinio della mente che non vuole cambiare punto visuale, che cerca di tenere salda la propria centralità.

Lentamente ci si rieduca al suono della vita e della natura.

Riscopro sensazioni dimenticate nel profondo. Le lascio affiorare e mi immergo nel tepore dolce dei ricordi.

Che cosa resta del tempo?
La memoria, che è crinale di libertà.
Solo se cerchiamo di difendere ciò che ricordiamo nel nostro corpo, nel nostro cuore manterremo vivo il nostro anelito umano, il segno della nostra individualità.

La realtà ci contagia con il suo ritmo serrato che non consente di sfuggire alla molteplicità di stimoli che ci vengono rovesciati addosso. Si può stare al gioco oppure creare un’opportunità: mettere in moto l’immaginazione e la memoria, per lasciar fluire le sensazioni nella grande onda che può travolgerti ma anche riportarti alla riva facendoti provare quella vaga ed intensa sensazione di pienezza che si assapora dopo aver compiuto un lungo viaggio.

Non c’è da capire, né da interpretare quanto piuttosto da lasciar affiorare e per fare questo bisogna ricordare ovvero ritornare al cuore dove sta depositata la nostra capacità di intuire la nostra appartenenza al tessuto originario dal quale sempre più ci siamo allontanati.5

A cura di Save the Words®

1 In J. Sams e D. Carson, Le carte-Medicina, Edizioni Amrita, Torino, 2005.
2 Saffo, fr. 31 V., vv. 1-6, trad. E. Cavallini.
3 C. Pinkola Estés, La danza delle grandi madri, Frassinelli Edizioni, 2006.
4 Deng Ming-Dao, Il Tao per un anno, U. Guanda Editore, Milano, 1993.
5 A. Lumini, Memoria profonda e risveglio, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2008.