Questo scritto si ispira al libro di Charles Simic, Il cacciatore di immagini, nel quale il poeta rende omaggio all’arte di Joseph Cornell creatore delle scatole della memoria delle quali dice: “Sono reliquiari dei giorni in cui regnava l’immaginazione. Ci invitano a rivivere i sogni della fanciullezza”.

All’interno di ciascuno di noi ci sono stanze segrete. Sono ingombre di cose e con le luci spente. 1

Sono stipate di arredi, con sedie e sofà ricoperti di teli, contengono eredità di generazioni che hanno depositato tracce del loro passaggio.
Oggetti migrati in case e paesi diversi che, trasportati in valigie e fagotti, si sono talora ritrovati e altre volte sono stati separati per sempre nell’incessante migrazione della vita.
Sono luoghi nei quali si custodiscono segreti, dove le cose improbabili si incontrano: un san Sebastiano di gesso trafitto dalle frecce e una santa Lucia con gli occhi nel piatto, un gorilla di gomma e una bambola con il carillon, una cappelliera e un giocattolo di latta, una macchina da cucire.

Se decidiamo di entrarci e di accendere la luce iniziano a rendersi visibili oggetti apparentemente senza legame tra loro; sono cumuli di cose che solo con attenzione, pazienza e amore possono riprendere vita e raccontarci storie.
Una casetta segna-tempo che non funziona e si è fermata al bello, un orologio smontato, un pettine d’osso in una custodia di velluto, un paio di occhiali con la montatura in simil-oro, una scatola di pedine da gioco, una fotografia scolastica con un volto sullo sfondo evidenziato da un cerchietto, un calendario profumato, un sacchetto di lavanda, due scatole di fiammiferi ricoperte accuratamente con una stoffa a losanghe, un richiamo per uccelli, l’immagine sbiadita del cinema Eden dove si proiettavano film muti, un diario con alcune pagine strappate.
Una musicista suona con trasporto e flessuosità la viola da gamba e guarda rapita le note che escono da quello strumento animato.

Se accettiamo di viaggiare dentro le pieghe sinuose delle cose saranno loro a creare legami inattesi, visioni, significati, a mischiarsi in una meravigliosa alchimia per far ricomparire figure e situazioni in quella terra di mezzo che sta fra immaginazione e realtà.

Ci si muove senza sapere di che cosa si è in cerca o che cosa si troverà con la sola certezza che da qualche parte ci sono persone e storie che attendono di essere riscoperte, riconosciute, raccontate. Quelli che sembrano semplici oggetti assumono così qualcosa di miracoloso.

È “la tecnica del collage” ovvero l’arte di assemblare un collage di vite, frammenti di immagini preesistenti in modo tale da far nascere una nuova immagine.

Accetto di riaprire qualcuna di queste stanze della memoria per cercare di comporre il mio collage.
Le parole mi accompagnano e mi aiutano ad ascoltare e dare voce a tutto ciò che viene alla luce, trovano i modi per collegare frammenti ed emozioni. Sono ritratti che ricompaiono come in uno specchio che riflette un tempo senza durata, che evoca vite che vogliono farsi raccontare.

Diario

Erano inconfondibili i suoi piccoli piedi, di una grazia innata, sempre calzati in quelle scarpette con il cinturino, scarpette di velluto, di diversi colori intonati agli abiti di mussola che la zia Linda cuciva per lei che “li indossava bene” perché aveva i capelli biondi e sottili.
La mia piccola principessa”, diceva, “sembra sempre pronta per danzare, così delicata ed elegante”. Noi che avevamo i capelli neri come le piume di un corvo, guardavamo stando a giusta distanza quell’esile corpicino mentre sorseggiava dal bicchiere di cristallo la bibita alla frutta che le era stata versata con cura dalla premurosa tata.
I nostri abiti erano pesanti e scuri perché più a lungo potessero conservarsi e resistere al passaggio da sorella a sorella. Avevamo le scarpe troppo grandi, con le stringhe e le calze arrotolate.
Una volta, in quella calda estate in campagna, eravamo state invitate a partecipare alla festa per il compleanno di Gioietta.
Nonostante le nostre proteste ci avevano a lungo lisciato i capelli a colpi di spazzola tirandoli con forza per costringerli in treccia e piazzarci un vecchio nastro con una fastidiosa forcina.
Non ci siamo divertite ma la torta era quanto di più buono avessimo mai assaggiato: peccato ci fosse stato fatto divieto assoluto di accettarne una seconda fetta.

Mi sono sposata a diciotto anni, prima di mia sorella più grande e ho chiesto di poter indossare un abito di mussola, e in quel giorno ho potuto lasciare liberi i miei capelli neri e folti che stavano bene lo stesso.
Le scarpine di velluto non le ho avute: sono rimaste un sogno.

Lo specchio

Uno sguardo dolcissimo, perduto nel tempo, che si fa spazio sopra il velo prezioso che splende sul suo volto come un antico gioiello.
I nostri occhi si incontrano mentre danziamo come facevano le Antenate fin dalla notte dei secoli; assecondiamo il suono che, come fluido vitale, emana dal corpo affusolato del ney.
È l’incanto di una notte tempestata di stelle, nell’odore delle spezie che bruciano e inebriano l’aria umida di segreti.
Il silenzio risuona del fruscio dei nostri abiti che si muovono al ritmo della musica.

È lo specchio della giovinezza che riflette la visione del tempo spensierato, colmo di attese, abbracciato ad un cielo senza vento: gioia senza ombre, parvenza di eternità.

Natura morta

Era già quasi primavera e ancora vagava solitaria avvolta in un lungo cappotto fuori moda, con un manicotto di volpe che svelava tutti i suoi anni ed anche quelli della proprietaria che ne faceva mostra come di un capo appena giunto da un défilé.
Il cappello di feltro altrettanto agé e rinnovato da un fiore di organza conservava però un che di elegante.
Se ne stava seduta per ore in un piccolo caffè fuori dalle strade del centro e molti la salutavano ormai abituati alla sua presenza.
Capitava talora di vederla parlare con un inesistente compagno di tavolino ma nessuno ci faceva caso, anzi passavano davanti a lei con una certa deferenza.
La chiamavano “la pittrice” ma in realtà era stato suo fratello il pittore famoso ed era una delle sue marine dai malinconici colori autunnali che di tanto in tanto Ersilia portava sottobraccio avvolta in una pagina del giornale locale per cercare un acquirente che le permettesse di arrivare alla fine del mese.
Se l’affare andava a buon fine quella ossuta signorina dall’andatura incerta entrava nel negozio di sementi non lontano dalla piazza del Duomo sulla quale i piccioni, sorvegliati dai due leoni di pietra, sembravano aspettarla.

I gioielli di Ada

Mi accarezzava con la sua mano esile ricoperta di vecchia bigiotteria: i gioielli veri, quelli di cui le aveva un tempo fatto dono il marito, ricchissimo e follemente innamorato, li aveva venduti per concedersi quei suoi viaggi al Casinò di Venezia che le ricordavano il passato glorioso vissuto nel bel mondo in una promessa di eterna felicità.
La signora Ada indossava un delizioso cappellino di astrakan arricchito da uno spillone di vetro soffiato, una voce che pareva venire faticosamente di lontano e movenze da diva del muto.
La rivedo con immensa tenerezza e sento il suo racconto di un inverno trascorso in Egitto accanto a non so quale cascata: un’elegante giovane sposa nella pienezza della vita. Ho ritrovato un suo anello con l’acqua marina.

Ritratto

Si diceva che in gioventù avesse fatto la ballerina di fila e doveva esserci del vero in questo suo passato danzante poiché ancora, in tarda età, quando la si andava a trovare nella sua casa di bambola, colma di reperti di ogni genere, Elsa non mancava mai di indicare il ritratto appeso in bella vista al centro della parete nel quale una giovinetta in tutù rosa appariva in posa ispirata.
Pare che nel tempo la carriera nel ballo avesse lasciato il posto ad una meno nobile professione di “direttrice” di una piccola, quasi familiare, casa di piacere, come allora si diceva.
Le scarpette del mio primo saggio dimenticate per anni nel baule verde insieme ad un ombrello para-sole, un cappello di paglia di Firenze e un bastone da passeggio mi hanno riportato questo ricordo.

La visione

Bisogna giocare senza far rumore perché i genitori riposano dopo pranzo.
Guardo mia madre sdraiata su letto imponente, di legno scuro, con le teste di leone. Anche di pomeriggio indossa il suo scendiletto di raso color glicine: un giorno voglio essere bella come lei.

Emilia

Nella borsa della signora Emilia c’era di tutto, una sorta di Wunderkammer nella quale si mischiavano gli oggetti più disparati e curiosi: aprirla era un sogno, mettere le mani sul suo contenuto era l’estasi mai raggiunta.
Ora, con la luce accesa nella stanza della memoria posso immaginare di trovarvi una scatoletta portapillole di smalto blu cobalto e oro, un piccolo carillon che suona Lili Marlene, un ventaglio di pizzo bianco, un libricino di orazioni, un portacipria ancora profumato, un porta rossetto con lo specchio e una bottiglietta di colonia.

La Russa

Sempre vestita di nero. Una pesante collana di corallo fossile, labbra e unghie dipinte di rosso, mani scarne che ancora lasciavano intuire grazia e bellezza nonostante fossero segnate da piccole, quasi delicate macchioline che venivano in parte celate da raffinati guanti di sottile pizzo. Mani antiche, misteriose, che sfioravano le carte come fossero fatte di luce.
La chiamavano “la Russa”, perché pare fosse quella la provenienza della cartomante che “esplorava l’ignoto come un artista esplora la bellezza racchiusa nell’ispirazione, nel marmo, nei colori dell’arcobaleno”.2
La si consultava soprattutto in caso di amori infelici.

Cineserie

Dorina apriva di rado la vetrinetta nella quale facevano bella mostra di sé le tazzine cinesi rosso lacca decorate con draghi d’oro. Ogni volta, come riproponendo un copione, insistevo perché mi lasciasse vedere la piccola faccia che appariva sul fondo della tazza se la si guardava in controluce. “Puoi vederla solo nelle mie mani”, mi diceva.

La musica del cuore

Sta seduta sul divanetto con le zampe a forma di qualche animale, il velluto rosa ha ormai perduto la sua lucentezza ma sta bene accanto al camino che odora di cenere. La zia Lavinia è sempre lì quando la si va a trovare. Un grammofono sta appoggiato sul tavolino di foggia africana. Le piace ascoltare le canzoni. Ha avuto un fidanzato musicista, anzi compositore e capita spesso che, in occasione delle nostre visite di cortesia, lei estragga qualche spartito dicendo: “Questa musica l’ha scritta per me” e, con un gesto affettuoso e pieno di nostalgia, stringe sul cuore quel ricordo di tempi felici.

Aria di melodramma

Tutti in famiglia dicevano che la Rirì una bella voce l’aveva avuta fin da piccola. In realtà si chiamava Elvira, ma quel nome era subito apparso troppo impegnativo per una bambina e così il diminutivo si impose e le rimase per sempre.
L’avevano mandata a studiare a Milano, ma, nonostante il talento, non le avevano permesso di fare la carriera operistica: troppi pericoli nella vita di una cantante in giro per teatri in tutta Italia, forse all’estero. Così la bella Rirì si accontentò di rimanere una dignitosa interprete di arie famose eseguite in occasione di serate e feste in luoghi non troppo lontani da casa.
Gli abiti “da concerto” erano però degni di una diva: broccati, lustrini, sete e perfino piume di marabù si sprecavano. Non indossava mai due volte lo stesso vestito.
La guardavo rapita mentre la sarta veniva a provarle quei sontuosi modelli. Andavano fatti su misura perché, come sentivo dire, Rirì aveva la vita molto sottile ma era forte di petto.
È rimasto quello di broccato blu notte accompagnato da una stola che lasciava intuire l’abbondante scollatura.

Al ballo

Nel giardino dei tigli le signorine eleganti accompagnate da premurose mamme appartenenti alla buona società stanno sedute ai tavolini sorseggiando una fresca limonata e resistendo all’afosa sera d’estate a colpi di ventaglio.
E intanto le fanciulle in fiore si guardano attorno in attesa di essere invitate a ballare da qualche galante giovanotto.
Le signore con le mani guantate scambiano piacevolmente chiacchiere e punti di vista in un’atmosfera di morbida e tranquilla mondanità.
La musica riempie il giardino e le note di un allegro fox-trot salgono verso il cielo stellato sfiorando i grandi alberi che sembrano custodire i segreti delle giovani coppie che danzano sulla pista di legno rapite dalle ammalianti melodie.
Si percepisce lieve il profumo delle piante.
L’umidità comincia a farsi sentire: è ora di coprirsi le spalle con lo scialle.

Era l’estate del ’46, il ballo allontanava la guerra”: ascolto ancora una volta questo racconto indimenticabile. Sapeva usare le parole Emma, lei giovane e sensibile poetessa, figlia di un poeta che forse aveva pensato a Madame Bovary dandole questo nome.

Ora si è fatto silenzio, spengo la luce, richiudo la porta e sono grata di questo dono.

I nostri ricordi sono immagini divine perché la memoria non è soggetta alle leggi ordinarie del tempo e dello spazio. Quello che facciamo fantasticando, è creare divinità. Immagini circondate dall’ombra e dal silenzio2

A cura di Save the Words®

(1) 1 Charles Simic, Il cacciatore di immagini, Adelphi Edizioni, Milano, 2005.
(2) 2, 3 Id., Ibid.