La morte è la quiete dall’impressione
dei sensi,
dagli impulsi che ci muovono come
marionette.

(Marco Aurelio)

L’amico Olafur Gunnarsson mi indica con orgoglio il vecchio ponte sul fiume e mi dice: “Vedi quel ponte laggiù? È stata la prima grande opera ingegneristica d’Islanda, risale al 1891. Prima di quel tempo il fiume Olfusà divideva in due parti l’isola. Come puoi vedere la portata d’acqua del fiume è spaventosa. Quando il ponte non c’era, era possibile raggiungere la riva opposta solo con una chiatta ancorata a lunghe corde fisse e questo solo nei mesi primaverili.”

Guardo la massa d’acqua torbida che scorre inarrestabile disegnando una grande curva tra alti argini erbosi. Faccio notare a Olafur che il parco cittadino confina pericolosamente con il limite estremo della riva e in molti punti non ci sono protezioni. Mi chiedo se ciò non sia un po' rischioso per le molte persone che camminano là durante il giorno. Olafur mi guarda sorpreso e mi dice: “Questo è il punto dove la gente viene per suicidarsi, sarebbe inutile costruire una palizzata. Vedi la strada laggiù? Invece di andare dritto, curvano con la macchina, attraversano il prato e...”.

Scioccato, getto istintivamente uno sguardo giù, al fiume. Alla vista di quella corrente impetuosa vengo preso da un senso da una vertigine spaventosa mista a profonda inquietudine.

-Ma cosa stai dicendo? insorgo, spaventato.
-Ti sto dicendo che questo è il posto scelto dalle persone che vogliono farla finita. In questo punto il fiume è molto profondo e la corrente particolarmente forte. Nessuna delle persone che si è buttata da qui è stata mai ritrovata, sai? Anzi, a quanto mi risulta, non ci provano neanche a cercarle... semplicemente viene denunciata la loro scomparsa.

Guardo il fiume un’altra volta e contemporaneamente mi immergo in pensieri oscuri, lasciandomi rapire dalle emozioni, fino a farmi sommergere. Immagino la scena di una macchina che in piena notte curva bruscamente e lasciato l’ultimo solco sul prato, si stacca dall’argine, vola e scompare nel buio, anzi no, non scompare completamente, rimane ancora un attimo in superficie, l’abitacolo si riempie di acqua lentamente, l’auto non si inabissa subito... ma viene trascinata via. Rivedo la stessa scena ma di giorno, c’è luce, probabilmente è l’alba, in città tutti dormono, qualcuno tornando dal bar, invece di andare a casa, decide di sterzare a sinistra, percorrere il pezzo di prato che separa la strada dalla riva e prosegue dritto fino a scomparire nel vuoto. La macchina resta sospesa in aria per qualche secondo prima di toccare l’acqua, ma questa volta i finestrini sono aperti e ci vuole meno tempo prima che vada giù. Immagino la sensazione pungente dell’acqua gelida su tutto il corpo ma è questione di attimi, l’auto, dieci metri più in là è già scomparsa.

Olafur, da quando siamo giunti al fiume, non mi ha mai perso di vista, probabilmente ha percepito la mia inquietudine e per questo ora insiste nell’indicarmi un piccolo chiosco poco distante dove, mi dice, fanno ottimi hot-dog e anche la birra non è male... Vedo in lontananza dei bambini che si rincorrono gioiosamente indossando giacche a vento multicolori. Anche il cielo sembra voler partecipare a questo momento di gioia e dalle nubi cupe lascia filtrare una calda luce dorata. La vita è meravigliosa, penso tra me e me.

Mentre addento il mio hot-dog e mi pregusto la birra, ripenso a quelle persone – e mi dicono sono tante – che ogni anno decidono di togliersi la vita giù nel fiume. Non mi permetterei mai di moralizzare sulla loro scelta o giudicare l’atto di togliersi la vita, ma dentro di me i pensieri fluiscono ora simili a quell’acqua e li osservo, potenti e liberi. Non ne voglio trattenere alcuno. Piuttosto mi spaventa e insieme mi affascina quel morire e scomparire nella natura, un gesto che inquieta ma che sembra restituire alla morte una dignità altrimenti sconosciuta. Ormai raramente succede così. In Italia, per esempio, la morte viene vissuta in modo strano, distaccato, un po' nevrotico. Ma non è solo un problema dell’Italia, anche in altri Paesi occidentali la morte non si vede, viene tenuta nascosta, lontana dalla vita di tutti i giorni.

Sembra quasi che la morte abbia perso il suo posto originario e sacro e sia diventata un tabù.

Osservo la contagiosa vitalità dei bambini islandesi e penso alla gioia di vivere, alle persone care che mi aspettano a casa, ai progetti, ai sogni. Nella mia vita non sembra esserci spazio per la morte. E perché mai dovrei pensare a Lei? Domani il sole sorgerà come stamattina e come in tutti gli altri giorni. Domani visiterò altri posti di questa isola incredibile, sicuramente incontrerò nuove persone interessanti e la vita, come oggi, mi sorriderà. Eppure sento che dentro di me oggi qualcosa è cambiato, forse la vista di quel fiume o forse altri pensieri rimossi che nel frattempo hanno cominciato ad affiorare, l’immagine di un amico che ha scoperto da poco di avere un tumore, per esempio, o la fine di una relazione d’amore, un bambino mai nato, la morte di un animale amato. Di colpo sento di essere stato a lungo orfano di qualcosa che non riuscivo ad afferrare e forse ora, è possibile. Perché ora, Lei, la Morte, è qui. E mi chiede semplicemente di essere guardata. Anch’io, come tutti, istintivamente cerco di tenerla lontana. Ma questa volta è diverso, sento che così non va bene. Non possiamo andare avanti a far finta che la morte non esista, invece di accoglierla, cercare di comprenderla e integrarla. Non possiamo...

Il pensiero della morte mi accompagna ancora per il resto del giorno mentre i drammatici paesaggi dell’Islanda mi ricordano nel frattempo quanto fragile e transitorio è l’essere umano sulla Terra. Sento farsi spazio dentro di me una consapevolezza nuova della vita, l’attenzione riesce per la prima volta a focalizzarsi sulle cose essenziali, come a volte immagino sia per le persone che hanno fatto esperienze di alta montagna o che hanno conosciuto il mare aperto, in barca, in solitudine. “Vedi quel vulcano laggiù?” mi dice Astvar Iansson, l’anziano guardiano di un rifugio sperduto nel Sud-Ovest dell’isola. “L’ultima eruzione è avvenuta circa cento anni fa ma gli esperti dicono che la prossima è imminente. E sarà spaventosa. Quando succederà io non avrò scampo. Ogni notte mi addormento immaginando di non svegliarmi più.”

-Ma allora perché resti in un posto così pericoloso? Non hai paura? Gli chiedo senza nascondere tutta la mia inquietudine.
-Sono nato a pochi chilometri da qui e qui c’è la mia famiglia e le mie pecore. No, il vulcano non mi fa paura. Non ho paura di morire, io! E comunque meglio morire qui che in città, magari investiti da qualche stupido automobilista ubriaco, non pensi? Mi risponde convincente.

Il vecchio Astvar mi fa riflettere sulla pericolosità della vita e forse il vulcano, questa volta, non c’entra, anche in una città il rischio di morire c’è sempre. Mi chiedo quanto ne siamo consapevoli noi trascinati nella fiumana delle nostre vite agitate. Non so neppure se ha senso fare tutte queste congetture o contrapporre un Uomo/natura al suo simile urbanizzato, certo è che sull’altare del progresso tecnologico è stato sacrificato tutto. Anche il senso della morte. Dimenticandoci che esso coincide, da sempre, con il significato della vita. È per questo che ci sentiamo così smarriti?

Jung, profetizzando già all’inizio del secolo scorso la sottomissione dell’Uomo al potere della scienza e della tecnica, parlava di inganno pericoloso. Scomparse le ultime generazioni vissute in tempi di guerra – quelle che la morte l’hanno vista da vicino - oggi viviamo in un fragile limbo di pace, proiettati verso un futuro gravido di aspettative. La nostra è l’epoca in cui si è scelto di cancellare lo spazio storicamente occupato dalla ritualità e dal sacro, per inseguire le chimere di una visione del mondo agnostica, legata essenzialmente alla materia. Per arrivare a ciò bisognava eliminare la morte. E così è stato.

Ora non è un caso che la parola morte sia diventata un tabù anche nel web e compaia raramente, sostituita da “scomparsa” o “decesso” o in certi casi addirittura da “miglior vita”.

La morte quindi oggi c’è, come c’è sempre stata, ma non si vede. Riti sacri e pratiche di culto dei morti millenarie, sono state rifiutate, eliminate, soppiantate dal nulla. Non esiste oggi una cultura laica della morte, qualcosa in cui riconoscersi e da cui trarre, se non le risposte, almeno conforto. La morte è un accadimento pauroso della vita, per molti solo una tragica interruzione al proprio smanioso e inquieto stare al mondo. Il risultato è paradossale: mancando la ritualità e la compassione, divenuti alieni i naturali processi di preparazione al lutto, viviamo un po' tutti come sospesi, afflitti da uno profondo squilibrio interiore. Non è un caso che stati d’ansia cronica e depressione siano divenuti i mali del nostro tempo.

È questa la morte che viviamo?

Muoiono i nonni e c’è ancora chi prova pudore nel farli vedere ai propri bambini. Non permettiamo loro di toccarli, facciamo sparire i loro corpi. Non protestiamo neppure di fronte alla medicalizzazione della morte. Non ci opponiamo al cartello del business del caro estinto, inchinando la testa di fronte a una burocrazia vergognosa che fa cassa in un momento in cui, umanamente, sarebbe auspicabile il rispetto e la delicatezza. È questo, dunque, il modo con cui ci prendiamo cura del passaggio cruciale della nostra vita? Non mi piace ciò che vedo. Mi addolora non la prospettiva della morte, ma il modo in cui viene vissuta. Perché ai funerali non riusciamo mai a trovare parole che siano vere e non di circostanza? Perché ce ne stiamo lì compassati e rigidi di fronte al defunto invece di sentire il desiderio di sfiorarlo con una carezza o con un bacio? Che sia l’imbarazzo per la domanda che sorge? Sarò io il prossimo? Sembra veramente che la morte oggi più che mai ci spiazzi, ci colga impreparati. Pensare a quanto, segretamente, ci affascina! A quanto la temiamo e ne siamo contemporaneamente attratti! E come sentiamo che ci appartiene! Non ci fermeremmo altrimenti in coda, in auto, a cercare di intravvedere morbosamente i corpi delle vittime degli incidenti stradali, né leggeremmo compulsivamente i titoli luttuosi dei giornali, soprattutto di questi tempi. Soprattutto non ci interrogheremmo segretamente nel silenzio della notte ponendoci sempre le stesse domande: cosa succede quando si muore? Quando arriverà la mia ora? La Morte che riusciamo a sfiorare è una idea distorta della morte e anche quella, la teniamo a distanza. Sembra che solo così ormai, riusciamo a sopportarla.

Guardo mia madre che dorme nel suo letto. Ha 89 anni, ed è molto magra. Un male la sta lentamente consumando. Ogni tanto penso al giorno in cui entrerò nella stanza e la troverò nella stessa posizione. Invece di essere addormentata sarà morta.

Influenzato da luoghi comuni e dati statistici, mi convinco che la morte sia, in fondo, una questione anagrafica. Ci vuole poco però a capire che non è così. Auguro a mia madre di vivere molti anni ancora, ma io mi illudo quando penso che la morte sia cosa che non mi riguardi. O almeno, che non mi riguardi ancora. La possibilità di morire prima di lei c’è, oggettivamente. Potrei morire oggi stesso, all’improvviso per un infarto o a causa di uno stupido incidente automobilistico o altro. Non v’è certezza. Addormentarsi alla sera e svegliarsi nel proprio letto ogni mattina è un dono della vita che non consideriamo mai abbastanza.

Ho deciso di iniziare una nuova pratica di consapevolezza, voglio continuare a esprimere gratitudine per la vita ma da oggi voglio dedicare anche un pensiero quotidiano alla morte. Questo sarà l’inizio di una nuova esperienza sentimentale con la vita, lo sento. Perché tutto cambia quando si familiarizza con la morte. Alba e tramonto, giorno e notte, la natura rivela in ogni suo aspetto il tema della morte e della rinascita. Tutto è rivelazione.

Si è più tranquilli quando ci si sente in grado di affrontare la morte.

Ma qualcosa si oppone a questo stato di pace. Il nostro mondo impazzito, chiuso nelle sue false sicurezze, sembra essere allergico alla pace e cerca in tutti i modi di impedire il raggiungimento e la diffusione di questa consapevolezza. Perché fa questo? Semplicemente perché è nel suo interesse perpetuare e alimentare le nostre paure, l’ansia e i comportamenti compulsivi, poiché essi sono il combustibile che alimenta il motore del nostro sistema socio–economico.

Dai recenti dibattiti sulla morte assistita, dai segni di crisi del nostro modello di vita consumistico e forse anche dalla recente pandemia, giunge oggi una inaspettata occasione, l’ispirazione a ripensare il senso della nostra vita. Il processo si preannuncia lento e delicato e certo non ci si può aspettare cambiamenti repentini. Ma questo non deve essere una giustificazione per smettere di sognare e immaginare un mondo migliore. Avremo un giorno tutti una nuova consapevolezza della morte e forse solo allora sapremo veramente cogliere la bellezza della vita. E in vita, il suo significato ultimo.

Cosa possiamo fare nel frattempo?

Coltivare quotidianamente il pensiero della morte, consapevoli che è solo da quello sguardo nuovo che possono nascere scelte vere nella vita.

Cercare di essere genitori più preparati sul tema, più spregiudicati, meno paurosi o ipocriti. Un modo per incominciare la grande opera di ricostruzione potrebbe essere quello di familiarizzare con la parte fisico/materiale della morte. Guardare la natura con i propri figli, iniziare con una pianta, fino agli animali e da lì all’essere umano. Se non possediamo una nonnina che ancora tira il collo alle sue galline o uno zio orgoglioso del suo orto, dobbiamo cercare noi altre possibili occasioni per osservare cosa succede ad un essere vivente quando muore. Utile potrebbe essere anche solo seppellire un animale domestico morto o un uccellino trovato per terra al parco dopo un temporale. Poetico e non meno efficace contemplare la metamorfosi degli alberi e delle foglie tra l’autunno e l’inverno. Sarebbe bello che a scuola si parlasse più spesso della morte, con chiarezza, approfondendo. Le possibilità ci sono, in Italia abbiamo bravi maestri, grandi pensatori, medici illuminati. Esistono libri molto ben fatti sull’argomento, video. E sul web preziosi contributi di studiosi di tutto il mondo. Attenzione che tutti i nostri sforzi non si riducano a cosa intellettuale, mai dimenticare l’esperienza vissuta. A proposito di esperienze nuove: in Svizzera sono state sperimentate delle case-famiglia per i momenti del lutto. Sono luoghi molto confortevoli e super attrezzati dove i vari componenti della famiglia possono trascorrere due o tre giorni insieme al congiunto defunto e in questo modo elaborare la prima fase del processo di separazione. Andiamo a vederle queste case, forse possiamo ricrearle anche qui da noi. Ecco la pace di cui scrivevo sopra. Ecco l’esperienza vera della morte. La sentite?

Mi viene in mente anche una iniziativa dell’università russa che da anni organizza dei campi per giovani nei luoghi delle battaglie della Seconda guerra mondiale. Guidati dai docenti di storia, da medici e da archeologi si cercano e si riesumano i resti delle migliaia di soldati dimenticati. Di una piccola percentuale di salme si riesce a risalire ai nomi e alle famiglie, tutte le altre vengono ordinate in casse di legno e seppellite in una fossa comune, dopo una cerimonia solenne. Trovo che anche condividere una esperienza così possa aiutare a trovare il senso della morte. Potrebbe questo essere un modo per avvicinarsi al tema della morte partendo da qualcosa di tangibile quale il disfacimento del corpo fisico. Ma forse i giovani universitari sono già troppo adulti, bisognerebbe poter agire prima, iniziando dalle scuole superiori, dalle scuole medie, dalle elementari. Portiamo i nostri bambini in gita nelle necropoli etrusche sparse per il centro Italia, integriamo il percorso formativo delle nuove generazioni con campi di lavoro a Pompei o Ercolano, si otterrebbero due risultati in un colpo solo, conoscenza e salvaguardia del patrimonio archeologico nazionale, contatto reale con il passato. Anche così si impara a non avere paura della morte.

In Italia abbiamo un’esperta anatomopatologa che l’Europa ci invidia, la dott.ssa Cristina Cattaneo, diventata famosa per il suo lavoro di ricerca sul campo ma anche per alcune sue opere divulgative originali, dedicate alla dignità dei morti, in particolare ai numerosi morti in mare nel disperato tentativo di raggiungere l’Italia. I corpi dei migranti africani sono stati recuperati, ricomposti ed esaminati. Si tratta spesso di persone senza identità. Grazie al lavoro della dott.ssa Cattaneo oggi esiste una banca dati unica nel suo genere e sono molti quelli che chiamano da tutta l’Europa, per poter seppellire i propri cari partiti dal continente africano e mai giunti a destinazione. Sarebbe molto bello che il lavoro di questa persona fosse maggiormente conosciuto e i nostri ragazzi avessero la possibilità di parlare con lei e approfondire questo tema di scottante attualità.

Siete mai stati in un Hospice? Sono i luoghi dove la morte è presente e non viene nascosta. Gli operatori delle strutture per malati terminali sono persone straordinarie, sia per la compostezza della loro presenza, sia per l’inaspettata leggerezza che traspare dalle loro parole. Non c’è relatore o libro che possa restituire l’intensità dei momenti che preludono alla morte quanto la testimonianza diretta di chi ne fa esperienza quotidiana.

Cosa succede quando si muore? La nostra domanda, per anni silenziosa e solitaria, potrebbe trovare lì, per la prima volta, una risposta. E noi, oltre a fare pace con la morte cominceremmo a farci qualche domanda in più: cosa posso fare per cambiare le cose? Come posso vivere una vita più quieta, una vita senza paura della morte? È tempo insomma di cominciare a pensare alla morte in modo nuovo, in senso organico, come parte integrante e fondamentale della vita. E anche in senso ecologico: molto tempo è passato da quel 1972, quando fece tappa a Milano un artista austriaco di nome F. Hundertwasser, uno dei pionieri del movimento ecologista che da lì a poco sarebbe nato. Tra le sue idee c’era quella di eliminare gradualmente i cimiteri e trasformarli in grandi parchi piantando ad ogni nuova sepoltura un albero. Che idea poetica e semplice! Pensate, si potrebbero portare i bambini a salutare il nonno in forma di quercia e la nonna divenuta betulla e vederli crescere negli anni e fare esperienza tangibile dell’infinito processo nascita-morte-rinascita che da sempre presiede l’Universo.