Il corpo elastico, muscoloso e ben proporzionato che m’ero costruita con uno stomaco e una volontà di ferro, mi procacciava ormai gli apprezzamenti degli uomini ma, com’è ovvio che sia, si trattava soprattutto di attenzioni di natura sessuale. Nulla che mi interessasse di meno. Ero piuttosto attratta da gente ambigua, amavo frequentare dubbie compagnie. Per un certo periodo ho seguito un uomo. Era un uomo alto, magrissimo e un po’ dinoccolato, come un burattino con i fili che non arrivano all’altezza di chi li manovra, alla cui presa sfugge cascante. Credo che fosse un funzionario comunale, o che s’occupasse dell’amministrazione di qualche ufficio, perché spesso lo vedevo sbucare dalle stradine laterali che conducono al palazzo del Comune in piazza della Libertà, o sgusciare veloce rasente i muri fuori da un’uscita di sicurezza. Inoltre portava sempre con sé una vecchia cartella in pelle marrone, e indossava malinconici completi che a loro tempo dovevano essere stati molto eleganti. Ciò che mi attraeva in lui era la sua magrezza eccessiva, l’aria di gloria trascorsa che si portava appresso, come un peso di cui non riusciva a disfarsi ma che, nel frattempo, lo faceva risplendere d’una misteriosa luce riflessa, come polvere che diventa fosforescente sotto le lampade UV.

Aveva una testa un poco schiacciata in senso orizzontale, come se una pressa invisibile tentasse di ravvicinargli il mento alla fronte, il che gli dava un’espressione lievemente buffa, per il contrasto che creava col suo corpo tirato per il lungo. Gli occhi, quello sì, erano molto belli. Un uomo alto e magro, con occhi molto belli, può permettersi tutti gli altri difetti del mondo – pensavo. Erano occhi-chincaglierie, non occhi-occhi. Sembravano biglie blu con onde violacee, come meduse fosforescenti nel mare buio, ma morte. Non che non muovesse gli occhi – il mio uomo non era cieco, mi pareva anzi vederci benissimo, difatti già durante la prima passeggiata che condussi, diciamo, appresso a lui, mostrò di aver visto e compreso benissimo quali fossero le mie intenzioni e ciò che stesse accadendo; ne ebbi la prova un paio di giorni dopo, quando fu lui a mettermi a fuoco con un’occhiata rapida di riconoscimento, mentre io attraversavo disattenta piazza della Libertà verso via Mazzini. E’ sveglio, il ragazzo – pensai.

Comunque i suoi occhi avevano una fissità da soprammobile di lusso, che mi attrassero ma, allo stesso tempo, fin da subito, mi allontanarono sentimentalmente da lui. Per qualche remota ragione lo sentivo più debole di me, più bisognoso di cure e amorevolezze, tutto dedito alle moine con cui assicurarsi protezione dal prossimo. Solo avrei voluto poter osservare a modo mio il suo lungo corpo nudo, adagiarlo da qualche parte, non dico già d’averlo tra le mani con lo spirito anatomico e dissezionante che si ha verso un cadavere, ma poter a mio agio disporre di lui, sospendergli la volontà e la coscienza, e sottrargli una parentesi di vita, sulla quale stampare il mio marchio, come un timbro su un bel prosciutto.

Immaginavo d’averlo condotto con me presso uno scantinato – niente sesso, non ci si immagini nulla di sessuale, per l’amor di Dio – e di averlo poi disposto lungo un tavolaccio di legno scabro, giusto un asse buttato alla bell’e meglio su due cavalletti, per lasciarlo lì immobile, che attendesse. Io mi sarei messa in un angolo buio, seduta come uno gnomo su uno sgabello, a fumare una sigaretta. Non gliene avrei offerte, non perché gli negassi volontà e desideri, ma perché lui, durante quegli attimi che m’immaginavo sublimi, altro non sarebbe stato che un mio prolasso, un’efflorescenza carnale di me stessa. Forse avrebbe potuto parlare, forse stimolato dalle mie domande avrebbe risposto, ma sarebbero state le risposte e le parole che io avrei detto tramite un altro corpo – il suo – in quel momento. Certo non ci saremmo assomigliati, perché lo stesso spirito come può mantenersi uguale a sé stesso in due corpi e filtrato da occhi tanto diversi?

I nostri occhi erano dei colini: i suoi dalle maglie larghe e slabbrate, incapaci da trattenere in sé nulla di ciò che raccogliessero in giro, come un pescatore animalista libera le prede tramortite; i miei fitti ed irretenti, strumenti doganali d’alta intransigenza, che richiedono altissimi dazi d’uscita. Io ero un essere conservatore e ritentivo, lui un uomo dissipante, all’acqua di rose. Mi sarei rivolta a lui, gli avrei chiesto: “Che ne pensi di questo posto?”, lui mi avrebbe detto: “Non è troppo buio?”, e che lui mi rispondesse con un’altra domanda non avrebbe potuto far altro che rimarcare le mie credenze su di lui, sul fatto che lui dal mondo non esigesse nulla, e che solo coi suoi gesti di immobilità quotidiana traeva un’identità e una distinzione dignitose. “A me qui piace molto” gli avrei detto, “Qui sopra ci sono le persone che camminano, che parlano, ognuna distinta, ognuna credendo d’essere sé stessa dietro ai propri affari. Io invece sono qui, un piano sotto terra, a farmi gli affari miei, a capire le cose come meglio vadan capite. Mi intendi?”. “No” – mi avrebbe risposto l’uomo con gli occhi da biglia. Io avrei allora cominciato – per esempio - a lavargli le gambe, non con umile devozione, ma per sfondare un confine.

Chi l’ha detto che io debba toccare dei corpi solo per riprodurmi o per procacciarmi un piacere? Che dittature son mai queste? Lui ne sarebbe rimasto imbarazzato, avrei sentito i suoi tendini sfuggire furtivamente alle mie mani, e la sua pelle insieme ritrarsi come lenta marea lasciando scoperto un tratto, su cui non potevo più far presa. L’avrei lasciato andare, guardando con durezza i suoi occhi tanto morti ma ancora così paurosi di fare la cosa sbagliata. “Ma cosa credi che sia l’inferno?” – lo sgridai, con voce durissima. “Non ti capisco”, m’avrebbe quasi implorato. “Hai paura di te stesso? di me? Dello scantinato?”, lui si sarebbe allora alzato mestissimo, si sarebbe passato un lenzuolo o una camicia attorno alle spalle, e sarebbe scomparso nel fumo della mia ennesima sigaretta.

Spesso pensavo a scenate del genere, quanto le desideravo! Come mai – mi domandavo sinceramente – mai nessuno arriva da me con queste esigenze? Non dico già esigenze per filo e per segno identiche alle mie – ambirei all’impossibile – ma quantomeno esigenze dello stesso genere! Non riuscivo a capacitarmi del fatto che nessuno volesse vivere lo stesso tipo di “situazioni” che io con tanta dovizia di particolari m’immaginavo. Perché gli uomini mi portano a cena e poi in macchina o in un albergo? Perché mi portano a casa loro credendo di rendermi allora felice? Perché non si domandano una buona volta che cosa desiderano dai corpi degli altri? Come mai credono che gli unici turbamenti consistano nell’omosessualità o in qualche pedanteria sadomasochista?

L’uomo allampanato dovette pensare che gli facessi il filo, e ogni volta in cui ci incontravamo per caso io notavo che la sua camminata si faceva un poco più importante, ma quasi impercettibilmente. Non ricambiò mai in alcun modo le mie visibili attenzioni, solo la sua vanità ne uscì rinfrancata. Una volta lo seguii imperterrita dai giardini della stazione fino a piazza Garibaldi e poi piazza Marconi, dove si fermò a chiacchierare con un tizio dall’aspetto noioso, mentre io compravo frutta e verdura fresche alle bancarelle, voltandomi di tanto in tanto per controllarlo. Lui si voltò verso di me tutte le volte in cui mi girai per guardarlo. Ero io che lo sincronizzavo, pensai per sdrammatizzare la mia figura di merda. Tuttavia non mi scoraggiai, e quando il mio uomo congedò quel noioso continuai a stargli dietro lungo i portici di piazza Garibaldi e in corso Cento Cannoni, fino a quando non rallentò i suoi passi, ed io i miei, per estrarre un mazzo di chiavi dalla tasca dei pantaloni. Ero a pochi metri da lui, e potei notare grosse vene in rilievo sulla sua mano magrissima. Avrei voluto prenderla, tenerla. Non prenderlo per mano, avrei solo voluto la sua mano: non dico staccata dal corpo – ma la sua mano. La mano infilò le chiavi nella serratura di un portone, e lui vi sparì dentro.

Quella notte sognai di essere a casa sua – immaginai che abitasse all’ultimo piano della palazzina in cui l’avevo visto entrare, in un appartamento ampio e smussato come una grande radio anni '50. Ce ne stavamo muti sdraiati ognuno sulla propria chaise-longue, come su una spiaggia asfittica o in un’implicita seduta psicanalitica. La mia sdraio era di un colore viola caldo, come lavanda mescolata alle foglie scure e vellutate, la sua verde acido, brillante. Gli stessi colori che anni più tardi potei notare quando rinnovarono l’arredamento interno del Mc Donald’s di Alessandria. Guardavamo la città al crepuscolo da grandi vetrate che lasciavano libero lo sguardo sui due lati nord ed est dell’appartamento. C’era moquette, pulita. Non si fumava. Che cosa si faceva dunque? Non lo so, stavolta ero io nell’immaginario di lui.

Estratto da Zolfo, edizioni Pequod, 2013.