Non li aveva riconosciuti. Non sarebbe stata in grado di riconoscere nessuno, in effetti. Il faro puntato sull'enorme parcheggio sterrato costringeva chiunque arrivasse ad avanzare a testa bassa, facendosi schermo con la mano.

In un impeto di clemenza, agognato quanto inatteso, l'estate sembrava avere allentato la sua morsa feroce sulla pianura e generosa regalava serate pacifiche, come quella, in cui godersi una tregua dall'afa liquida che fino a qualche giorno prima aveva imperversato inesorabile, sciogliendo i pensieri, accorciando i respiri. Aveva il sapore di una liberazione rimanere fuori fino a tardi, e ritrovarsi, come in osservanza a un rituale, immancabile, rassicurante, in quel locale lungo il fiume, dove ogni tanto un refolo di vento si levava lieve a scompigliare i capelli e s'infilava impertinente sotto gli abiti leggeri, scuotendo i corpi in brividi improvvisi di frescura.

Li aveva quasi superati e stava per entrare, quando si sentì chiamare. Si voltò di scatto, dando le spalle alla luce inquisitoria del faro che ora illuminava i loro volti, confermandole di poterli sovrapporre ai nomi che quelle voci – ancora così familiari dopo tutto quel tempo – avevano immediatamente evocato; le aveva identificate subito, specie quella di M. con il suo inconfondibile difetto di pronuncia, nonostante i rumorosi chiacchiericci di chi aspettava qualche amico ritardatario prima di andare a prendere posto attorno a un tavolo o si dilungava nei saluti senza dare realmente segno di volersi congedare, nonostante la musica si sprigionasse invadente dalle casse e riempisse l'aria tutt'intorno delle sue note.

Piacevolmente sorpresa, si trovò davanti a tre paia di occhi sgranati che la fissavano, quasi più sorpresi di lei, e a tre bocche spalancate in un bellissimo sorriso...

Non le era più capitato di incontrarli, nemmeno quello che abitava ancora in città. Avevano condiviso gli anni turbolenti del liceo, ma molto poco delle loro esistenze in realtà. A quei tempi non l'avevano mai guardata in quel modo, guardata davvero – “perché” – aveva sempre pensato – “se uno ti guarda davvero, te ne accorgi anche da lontano che sta puntando deciso nella tua direzione”. Sì, forse l'avevano “intravista” di tanto in tanto, “oltrepassata” rendeva sicuramente meglio l'idea. E di fronte al loro sorvolarla distratti lei non si era potuta nemmeno consolare con l'illusione di essere trasparente come il vetro, perché almeno quello, il vetro, può rivendicare un suo ruolo, una sua legittimità. No, lei si era sentita più come un ostacolo che schermasse la visuale su ciò che stava dietro, qualcosa di assolutamente superfluo da rimuovere.

E dietro stavano le altre, così diverse da lei, già così donne nelle forme generose, nelle movenze disinvolte. Le spiava negli spogliatoi e invidiava l'armonia di quei corpi pieni di grazia, lei che si sentiva sempre in guerra aperta con il suo, prigioniera di quell'involucro acerbo con cui le toccava coabitare. Parlavano dei loro amori con naturalezza, senza inibizioni, e lei ascoltava, incapace di comprendere se il suo turbamento derivasse dal sentirsi profondamente rapita da quei racconti che parevano usciti da qualche romanzo un po' troppo audace, o piuttosto sopraffatta dall'imbarazzo e dal disappunto cui la rigidissima educazione ricevuta, tragicamente combinata con le sue paure, le impedivano di sottrarsi e che lei si sentiva irrimediabilmente cuciti addosso, come una seconda pelle, intorno al suo involucro acerbo. Ogni tanto provava a farsi coinvolgere dai loro giochi, a rispondere ai quesiti indecenti in cui – non capiva bene perché – spesso andavano a inciampare i loro abbozzi di discorsi, con l'unico risultato di ritrovarsi ancora più inadeguata e di piacersi ancora meno. E mentre loro, così emancipate e libere, mostravano di avere abbandonato da tempo l'antico guscio di crisalidi, lei si rintanava sempre più nel suo bozzolo, fatto di maglioni eccessivamente larghi e di lunghi silenzi.

E fantasticava...fantasticava scrutando da lontano i movimenti degli uni e delle altre, ne studiava gli approcci impacciati e quello sfiorarsi solo apparentemente casuale, le loro danze inconsapevoli, o magari volute, o forse l'uno e l'altro insieme.

Un giorno si era lasciata prendere da uno slancio di inconsueta spavalderia.
-Dai, oggi la cartella è un macigno...non è che mi dai uno strappo?
Li osservava i suoi compagni. Al suono della campanella, sfrecciavano sulle loro biciclette, i pugni ben saldi stretti sui manubri, le braccia un po' allargate ad avvolgere le ragazze che a turno si facevano scarrozzare in canna per un tratto di strada, l'espressione gongolante tenuta con fierezza sull'asfalto che correva sotto le ruote.
-Scusa...oggi vado di fretta...

Si era avviata sotto il peso dei suoi libri che amava visceralmente, ma tra le cui pagine era assolutamente consapevole di nascondersi anche troppo, ripetendosi che tutto considerato non era andata poi tanto male...che non era stato un NO secco...che la prossima volta...Le erano passati di fianco veloci, lui rideva cercando di scostarsi dal viso i capelli di lei che gli si agitavano scomposti davanti al naso...e d'un tratto quei libri sulle spalle si erano fatti ancora più pesanti...

Sorrise anche lei, visibilmente compiaciuta di quello stupore spontaneo che non erano riusciti a mascherare.

Per qualche minuto rimasero lì, in piedi, nel parcheggio sterrato, avvolti dalla notte e dalla musica, ad aggiornarsi sui grandi cambiamenti – studio, lavoro, famiglia – cui le loro vite nel frattempo erano andate incontro, a scambiarsi le inevitabili domande di rito, quelle che ci si aspetta debbano necessariamente scambiarsi quattro liceali che si sono persi di vista e s'incrociano per caso da grandi, quelle caute che corrono a pelo d'acqua e si limitano a sfiorare innocue la superficie, quasi senza incresparla.

Non confessò loro che in quegli anni difficili le bastava aspettare l'inizio delle vacanze per sentire a poco a poco allentarsi la pressione soffocante della competitività e delle mille aspettative, per spogliarsi della severità con cui tendeva a rivestire di sconvenienza e frivolezza quella parte di mondo cui non riusciva ad avere accesso e che s'illudeva di poter smettere di desiderare difendendosene dietro un muro invalicabile di austerità, per vedersi – seppur soltanto nelle poche settimane di quelle meravigliose pause estive – finalmente capace di prendere anche lei il suo volo. Per un attimo fu tentata di rassicurarli. Ormai sentiva di averli perdonati, perché sapeva bene che i loro sguardi mancati non le avevano fatto più male di quelli che lei stessa non era riuscita a regalarsi. Ma non lo fece. E non fu mancanza di coraggio, non solo almeno. Fu piuttosto un'urgenza sottile di rivalsa quella che la spinse a tacere, a lasciare che per un unico brevissimo istante si sentissero un po' smarriti al pensiero di quanto erano stati stupidi a non essersi accorti di lei, ora che – ne era certa – erano lì a chiedersi dove diamine fosse rimasta nascosta ai tempi della scuola.

Si salutarono. Lei si girò dolcemente e, mentre volteggiava leggera incontro a chi la stava aspettando, senza più bisogno di proteggersi dalla luce bianca del faro, avvertì distintamente i loro occhi puntare, quella volta sì, decisi sulle sue ali di farfalla.