Ho scritto il primo romanzo a dodici anni. Tra i dodici e i tredici anni ho portato a termine un altro paio di romanzi. Il primo scritto a penna su un paio di quadernetti a spirale (uno a quadretti con la copertina della maglia della Juventus e in un angolo in basso a destra l’adesivo in rilievo di un casco da giocatore di football americano, l’altro a righe: in quello a quadretti la grafia è ancora leggibile mentre in quello a righe è praticamente illeggibile, vergata in modo assatanato con un tratto-pen che lasciava un mucchio di sbavature), gli altri due, invece, scritti a macchina con una Olivetti. Il primo è un romanzo d’avventura quasi finito, gli altri sono un thriller e una spy-story entrambi terminati.

Stiamo parlando di romanzi lunghi, veri. Non una trentina di pagine e via. Duecento, duecentocinquanta pagine. Poi, mi sono buttato su un’altra spy-story, una settantina di pagine, ma non l’ho terminata. Nel frattempo, ho cominciato a interessarmi al genere dell’orrore non tanto per gli aspetti truculenti (si tenga conto che un pomeriggio di trentacinque anni fa circa, a otto anni, vedendo Profondo Rosso di Dario Argento sono rimasto traumatizzato come se fossi stato spettatore di quelle cose sullo schermo dal vivo, dal vero; per non parlare dello choc subito a nove anni dalle uova in suppurazione della madre aliena in Alien di Ridley Scott), ma per il fatto che una storia dell’orrore è molto spesso una vicenda domestica: non bisogna pertanto fare grossi sforzi per documentarsi (e negli anni ‘90 non esisteva Internet: documentarsi era molto più laborioso e poteva costituire per un ragazzino come me un ostacolo quasi insormontabile al conseguimento dei suoi obiettivi) e consente di dare libero sfogo all’immaginazione. In più, negli anni ‘90 molti ottimi autori che sarebbero stati bravi autori anche scrivendo altro si sono dedicati all’horror costituendo un esempio su come scrivere una buona storia. A quindici anni ho scritto un romanzo gigantesco (cinquecento pagine) il quale ruotava attorno a una riunione tra amici, una volta all’anno, e una donna su un tavolo della sala da pranzo cosparsa di cioccolato (il romanzo si intitola Sotto il cioccolato). La donna viene trovata morta, gli amici sono presenti alla riunione avendo ciascuno addotto scuse alle mogli… Non sono mai riuscito a terminarlo, però. Troppi personaggi, troppe storie, troppa roba. Per di più, credo sia uscito al cinema un film simile – una cosa che succede spessissimo agli aspiranti scrittori, si buttano su un progetto per scoprire in capo a sei mesi che lo stesso progetto è già stato realizzato da qualche casa di produzione cinematografica – Hollywood, Cinecittà, il cinema indipendente...

A sedici anni, dopo una serie di racconti (lunghi, sempre molto lunghi), ho scritto un romanzo dell’orrore su una casa infestata dalla polvere. Un libro pieno di sesso. Un ragazzo e una ragazza di diciotto anni partono per una vacanza una quindicina di giorni in una casa abbandonata… la quale risulta stregata. Di quel libro ricordo soprattutto il senso di soddisfazione una volta arrivato in fondo. Ero così felice… e volevo festeggiare. Fu la prima volta che provai una sensazione simile. Anche oggi mi capita quando finisco un libro: voglio festeggiare. Ma siccome sono un lupo solitario solo come un cane spesso il colpo mi rimane in canna. In effetti, a dirla tutta, non fa bene alla salute non avere qualcuno con cui farsi una pinta dopo aver concluso un romanzo. Questo è un messaggio ai miei amici...!

A diciotto anni ho cominciato a scrivere storie pulp sul diario di scuola: sangue, sesso, sesso, sangue, parolacce. Dopodiché ho cercato di smettere di scrivere. Tanto cosa mi dava? Suvvia, non sarei mai riuscito a pubblicare libri. Era un sogno. Una cosa difficile. Provenivo da un asfittico buco di città. Non riuscendo a frenare questa smania di scrivere, dopo un po’ ho ripreso cercando di uscire dai generi e succedeva che anziché migliorare peggiorassi. Sono gli scherzi della mente. Se sei all’interno di un recinto, sai cosa fare, sai come muoverti, ti senti sicuro e scrivi bene o decentemente bene. Ma se esci da quel recinto, non sei più in grado di fare le stesse cose. Metti dentro un mucchio di frasi fatte ed espressioni evanescenti. Perdi quell’aderenza elementare alla realtà che è l’ingrediente fondamentale di ogni buona narrazione – o quantomeno di ogni narrazione decentemente fatta.

Poi, a ventitré, ventiquattro anni… l’illuminazione. Capii. Capii come fare. In realtà, ero solo all’inizio dell’erta, ma grazie a quello che avevo già scritto e che in qualche modo già sapevo riuscii ad accelerare i tempi e a ventisei anni me ne uscii con un libro che non aveva per niente l’aspetto di un libro d’esordio.

A volte penso di aver effettivamente esordito con il mio ultimo libro, con il libro della maturità assoluta, con un libro conclusivo. Come spesso è successo in altri ambiti della mia vita, partito dal traguardo, ho cominciato un percorso a ritroso. I libri successivi hanno tutti qualcosa di più semplice e popolaresco al loro interno, sempre di più, sempre di più, anche perché per trovare lo stile che mi ha permesso di arrivare a pubblicare quel primo libro si è dovuto verificare in me un big bang cerebrale tale da rendermi una persona molto differente da quella che ero sempre stata fino a quel momento: un odiatore, quasi, quantomeno una persona schizzinosa al parossismo. A me non piace essere così. Già in passato avevo abbandonato molte attività per non diventare un decerebrato senza cuore. Adesso volevo diventare tutto fuorché… quello. Quella parte in me è rimasta, ma l’ho ammansita, l’ho ridotta a una maschera. Nella mia immaginazione questa maschera appare come il volto di quei demoni di pietra costruiti dalle civiltà Maya o dagli Aztechi: enormi bulbi oculari fuori dalle orbite, labbra stirate in sorrisi folli, lingua a penzoloni, capelli sparacchiati in ogni direzione. Un obbrobrio, insomma. La maschera di un essere spaventevole. La indosso, questa maschera, quando mi siedo davanti a un computer e voglio scrivere un romanzo, ma quando mi alzo, per l’amor di Dio, quella maschera la tolgo e la getto nel cestino – tutto figuratamente parlando, sia chiaro.

A volte, ho anche scritto qualche libro senza maschera, per vedere se fosse possibile farlo… ma la verità è che la società letteraria italiana ormai è da decenni in gran parte solo un immenso ballo in maschera e chi non indossa la maschera a quel ballo non può nemmeno metterci piede. Negli Stati Uniti le cose vanno diversamente, per fortuna, e per me constatare questo è stata forse la cosa più importante di tutte, nei miei anni americani.

Benché abbia acquisito questa dimestichezza con la scrittura in anni e anni (fare un buon corso di creative writing mi avrebbe certamente aiutato a risparmiare tempo, ma all’epoca ero troppo giovane per farne uno e poi non ce n’erano ancora tanti quanti ce ne sono oggi), ogni tanto mi viene lo stesso qualche dubbio sul perché, ed eccoci arrivati al punto, si scrivano storie.

Perché si scrivono storie?

Perché quelle storie?

Tralasciando la parte puramente mercantile della faccenda (e anche quella più prettamente intellettualistica: con storie intendo tutti i tipi di storie comprese le non-storie o qualunque altra accezione possa venire in mente), mi faccio questa domanda sempre più spesso negli ultimi anni. Perché storie? Perché tutti quei film? Perché tutti quei libri? Perché tutte quelle trasmissioni televisive? Canzonette. Barzellette… Perché siamo così interessati al raccontarci l’uno all’altro? Perché quando mi viene in mente un’idea per un romanzo, non sono più io ad agire, ma è l’idea in un certo senso a impadronirsi di me costringendomi a farla diventare una… storia? Perché per me è impossibile vivere una vita normale sapendo che nella mia testa c’è una certa idea, e questa idea deve, deve diventare una storia, un romanzo, un’opera? Come mai una così grande attribuzione di valore a queste cose?

Lo so. Lasciare una buona idea ad ammuffire in fondo a un cassetto sarebbe un peccato. Dopo un po’, creerebbe una sorta di rimordere della coscienza o di rimpianto. Cionondimeno, da qualche anno questa domanda s’intrufola con sempre maggiore insistenza tra i miei pensieri. Che cosa determina la bontà di un’idea? Perché mettersi a scrivere febbrilmente un romanzo al termine del quale saremo altre persone? Forse è questo che desidero festeggiare (magari in compagnia di qualche amico) quando appongo la parola “Fine” in fondo a un manoscritto? Di aver fatto la muta? Ho scritto una trentina di romanzi tra editi e inediti. Significa forse che ho cambiato pelle ogni volta? Sono trenta persone differenti da quella persona originaria che avrei potuto essere? Per questo scrivo? Per cambiare? Modificare me stesso? Sfuggirmi? Più in generale, per questo, tutti, tutti quanti, raccontiamo storie? Per svuotarci nella speranza di diventare persone diverse da quello che siamo? Evadere dall’unico vero carcere dal quale non potremo mai evadere ovverosia noi stessi?

Forse questioni come queste potranno apparire di poca rilevanza per chi si limita a leggere o ha scritto solo qualche libro, ma da qualche anno per me questioni come queste sono fondamentali. Da qualche anno fare attenzione a tutto ciò che lascia tracce dentro di me è diventato importante. Ci sono delle conseguenze. Conseguenze rilevanti. Dopo un po’ leggere e scrivere cambia… la mente. Ti fa credere di avere la capacità di abbracciare e comprendere chiunque. Eccoti pertanto a spasso con questa persona o con quell’altra. Eccoti a braccetto con una santa donna e il giorno appresso a spasso con un mostro. Eppure, non fa differenza: tu sei in grado di capire, di penetrare le ragioni profonde di questa e di quella persona (perché alla base dell’agire di una persona buona non potrebbe esserci un trauma esattamente come accade per una persona incline a comportamenti poco ortodossi quando non malvagi?) e tendi a giustificare e a sentirti a tuo agio. In più, le aiuti o credi di aiutarle. Invece, ed ecco le conseguenze, spesso ti ritrovi solo soggiogato. E la colpa è tua e solo tua. Per esserti sentito superiore. Per aver presunto di avere compreso. Per aver voluto, in realtà, conoscere da vicino: per aver voluto sfogliare quella persona così come sfogli un libro nella tua libreria di casa. Una cattiva filosofia che poco o nulla a che vedere con la Sindrome del Buon Samaritano Deluso. Figlia di questa pratica quotidiana di lettura e scrittura – che altro non significa se non ascolto, osservazione, analisi, comprensione.

Crediamo di acquisire una consapevolezza superiore, ma non è così. Non è così. E poi… quanti autori i quali vantano letture colte ed edificanti scrivono opere, o peggio ancora, si comportano in un modo che ripugnerebbe la coscienza di un pipistrello cinese? Ma davvero esistono, queste cosiddette letture edificanti? Sì, certo che esistono, ma non è detto che noi si sia in grado di capirle realmente. Non le comprendiamo fino in fondo prendendo quasi sempre la parte peggiore, o quella più di superficie, meno rilevante - ci rimane attaccata come fango alla rete di un cribro.

Quanti di noi, ad esempio, hanno compreso realmente la grandezza dell’opera di Leone Tolstoj, Anna Karenina? O non siamo piuttosto persuasi che quel libro parli, in fondo, di un amore adulterino e di quanto sia difficile amare a determinate condizioni – storiche, socio-economiche…? No, Tolstoj voleva comunicare altro: la potenza salvifica della parola di Cristo. Noi non capiamo; ed eppure parliamo, parliamo, parliamo di letteratura e scriviamo, scriviamo, scriviamo opere di letteratura, ma ci sono conseguenze: errori che si commettono per presunzione, arroganza, superficialità. Quando in un momento chiarificatore penso in questo modo, a volte mi sembra che la nostra società sia costruita solo sugli errori: e ciò che chiamiamo società sia solo un patto teso a giustificare tutti gli errori di valutazione che commettiamo. Perché si scrivono storie? Perché io le scrivo? Perché oggi sono così come sono? Perché mi sono capitate certe cose? Perché non ne sono capitate altre?

Un libro può imprimere un nuovo corso alla tua vita. Ma se è così, qual è stato questo libro tra i tanti libri allineati nella mia libreria di casa (ho rifatto il conto e non sono duecento libri come avevo erroneamente supposto, ma circa ottocentocinquanta) e tra quelli che io stesso ho scritto e che tengo in un vecchio armadio nel mio studio dalla presenza un po’ inquietante? Ecco che allora vado alla ricerca. Rileggo. A volte rintraccio in certi libri espressioni che uso correntemente anche oggi. Trovo situazioni in altri libri che abitano la mia immaginazione da anni. “Ecco da dove viene questa espressione che uso sempre! Viene da un libro che ho letto ventinove anni fa…”. “Ecco da dove viene questa immagine che ho installata nella mente da chissà quanto! Viene da un romanzo che ho letto… chissà quando l’ho letto! Ma è stato molto, oh, molto tempo fa…”.

Trovo qualcosa, sì. Qualcosa trovo. Ma non riesco a trovare quel libro che imponendosi sugli altri abbia formato la mia personalità così com’è oggi. Eppure, mi chiedo, posto che esista, un libro simile, cosa ne farei se lo trovassi? Costruirei un piccolo altare ponendo quel libro al centro e ringraziandolo? “Grazie, libro! Grazie! Mi hai fatto essere come sono. Tu. Tu. Non sono un decerebrato senza cuore. Ho un cuore nel petto che batte e provo delle emozioni violente. So amare. So capire”. Gli darei fuoco, invece? Lo brucerei in una specie di rituale sperando di far volare via con le pagine del libro anche tutto ciò che sono: “Tu mi hai fatto diventare come sono… Più consapevole! Più sofferente! Ho un cuore nel petto e provo delle emozioni violente. So amare. So capire. Malefico libro! Brucia!”.

No, non credo esista un libro del genere nella mia libreria – e se invece esistesse e lo avessi preso a prestito in qualche biblioteca…? Forse esiste per la civiltà occidentale nella quale sono nato e cresciuto. Questo libro è l’Odissea di Omero. L’Odissea, di Omero. L’Odissea di Omero ha fondato l’Occidente. Tutte le vite occidentali, tutte le gioie e i dolori, i corsi delle esistenze di ciascun individuo e collettivamente sono da ricondursi, in Occidente, a quelle parole, quel libro, quell’opera e lo saranno fino a quando l’Occidente ci sarà. A me vengono le vertigini quando sento dire cose come queste. Il respiro mi manca, il terreno sono i piedi si trasforma in sabbie mobili, il sudore si mette a colarmi improvvisamente a rivoli dalla fronte e tutto attorno a me prende a vorticare costringendomi ad aggrapparmi alla prima cosa salda che riesco a trovare per non cadere se sono in piedi e a serrarmi le ginocchia con le mani se sono seduto in attesa che passi. Perché penso quanto io sia minuscolo e inadeguato, un puntino sperso, se persino un’intera fetta dell’umanità costituita da milioni e milioni di uomini e donne come me sanno qual è il libro che li ha resi così come erano, sono e saranno: sanno chi sono, cosa fanno e dove vanno. Per me non è così. Per me e per la mia vita questo libro non c’è. Non riesco a ricordarlo, non riesco a trovarlo – e non riesco a riconoscerlo nell’Odissea, anche se probabilmente questo mio atteggiamento così tormentato sia riconducibile anch’esso a Omero e al suo splendido poema. Infatti, mi chiedo se non dovremmo adorarlo quel libro. Leggerlo in Chiesa così come leggiamo i passi della Bibbia e del Vangelo durante la Messa. L’Odissea di Omero ha fondato l’Occidente. Non ha fondato me, però.

Ma forse non sono state le letture a cambiarmi. La muta avviene al termine di un libro scritto di mio pugno. Dunque, se voglio ritrovare quel me stesso originario dal quale mi sono via via allontanato, se voglio ritrovare quella pelle originaria e indossarla di nuovo, devo andare alla ricerca del libro che mi ha cambiato. Ed eccomi a rovistare nel vecchio armadio dalla presenza inquietante nel mio studio dove ho riposto due faldoni stipati di cose che ho scritto dai dodici ai ventuno, ventidue anni più i romanzi pubblicati a mio nome. Mi metto lì a rileggere notando quanto fossi sbalorditivamente più bravo da giovane di quando lo fossi più avanti con l’età e notando come in altri scritti i periodi di ingarbuglino o la consecutio temporum vada a ramengo non potendo fare a meno, tuttavia, di notare i pregi di quella prosa così elementare, concreta, sensoriale.

Mentre mi perdo in questa massa di fogli così assurdamente fitti di parole, quasi senza margini e senza a capo, colate alfabetiche simili a catrame, mi esplodono in mente mille idee, saltando dalla mia fantasia come pop-corn dalla macchina dei pop-corn. Tutto si mescola e immagino situazioni le più strampalate…

Il conte Vronskj di Anna Karenina si ritrova a una festa con Rodolphe di Madame Bovary e allo stesso ballo ci sono i poveri Charles e Alioscia Aleksandrovic immaginando quale scatenamento di sentimenti potrebbe prodursi all’apparire di Anna Karenina ed Emma Bovary a braccetto impegnate in ameni conversari in una sorta di infame versione delle Affinità Elettive di Goethe. Sì, e immagino questa storia rappresentata in un teatrino di strada da attori cenciosi in un angolo di periferia quasi antesignano di un Drive-in Theatre statunitense. Magari, potrebbe esserla, la pellicola proiettata in un Drive-In, e in tal caso, nel corso del ballo, in attesa della prossima quadriglia, si aprirebbe un pertugio spaziotemporale e spunterebbero Egisto e Clitemnestra a unirsi al conte Vronskj e a Rodolphe, Charles e Alioscia Aleksandrovic, Emma e Anna e poi arriverebbero Egidio e Gertrude e infine dal pertugio sbucherebbe Bugs Bunny che rivolgendosi a Anna le direbbe: “Ti piacciono le mie orecchie, Anna? Ti piacciono, sì?”.

I personaggi dei romanzi che ho letto si mescolano insieme senza soluzione di continuità in modo simile a quanto accade nel film di Steven Spielberg Ready Player One. In questo film Spielberg compie un gesto non da poco: di che cosa è fatta, infatti, l’immaginazione dei ragazzi di Ready Player One? Non più di Achille, Ulisse, Ciclopi, Orlando Furioso, Don Chisciotte e tutto ciò che rappresenta l’immaginario della cultura classica, ma da King Kong, E.T., Lo Squalo, la Delorean di Ritorno al Futuro, Batman e Robin, l’Overlook Hotel di Shining, 007 e così via… Ecco a cosa pensa un ragazzino per edificarsi un mondo immaginario alternativo nel quale rifugiarsi a dispetto della realtà distopica dove è costretto suo malgrado a vivere. Ed ecco mentre leggo i miei scritti accadermi quasi la stessa cosa.

Così, mi figuro il Jack Torrance di Shining arruolarsi nel corpo del Marines iscrivendosi al corso speciale nel quale trova il Sergente Hartmann di Full Metal Jacket. Mi domando che scintille potrebbero scaturire dai due. Immagino cosa sarebbe accaduto se dopo Rocky IV non fossero piovute addosso a Stallone tutte quelle critiche sull’inverosimiglianza degli incontri tra pugili nei suoi film. Immagino i cartelloni dei film alternativi: dopo il match con il gigante sovietico per vendicare la morte dell’amico Apollo Creed, Rocky sfida un pugile thailandese dalle folte sopracciglia a conferirgli un’aria ferocissima con i guantoni verdi come evidenziatori.

Poi Rocky incrocia i guantoni con Robocop – guantoni argentei, dall’aspetto, per quanto possibile, metallico. Poi Rocky sfida all’ultimo sangue un gigante transgender con i guantoni arcobaleno (i guantoni: i guantoni sono fondamentali nella serie dei Rocky mai realizzati che mi circola per la mente, guantoni coloratissimi, guantoni i cui colori sono già essi stessi un pugno in un occhio) e infine Rocky nell’ultimo incontro della sua vita: Rocky contro Rambo. Chiamati entrambi con l’inganno in un’isola deserta da un miliardario sadico i due dovranno combattere fino all’ultimo respiro per salvare la vita a un gruppo di prigionieri.

Poi, immagino l’ultimo romanzo del compianto John Le Carré. George Smiley rievoca una missione ai tempi del muro di Berlino. Smiley viene chiamato a coordinare una rete di agenti e a Check Point Charlie è in attesa di uno degli agenti reclutati per la missione: un certo James… James Bond. Agente speciale 007.

La mia mente continua così indefinitamente fino a quando non scuoto la testa e mi dico che non è facendomi sopraffare da pensieri come questi che potrò ritrovare me stesso. Per farlo, invece, per ritrovare me stesso, devo andare alla ricerca del primo libro che ho scritto. Sì, questo devo fare! Rileggere con attenzione la spy-story, il thriller e il romanzo d’avventura e cercare di decidere quale dei tre sia effettivamente il primo libro che ho scritto.

Sono abbastanza sicuro che il primo libro sia il romanzo d’avventura (scritto di getto dopo aver letto Il richiamo della foresta, Zanna Bianca e Martin Eden di Jack London – e leggendo probabilmente nel frattempo Michael Cane da Circo), ma può darsi pure che mi sbagli. Può darsi che nello scrivere il romanzo d’avventura abbia scritto nel contempo uno degli altri due romanzi. Per me questa faccenda dell’ordine esatto in cui ho scritto i miei primi romanzi (o tentativi di romanzo, anche se non hanno per niente l’aspetto di tentativi, essendo lunghi, strutturati e finiti) è rilevantissima, anzi, è quasi un aspetto sacro della mia infanzia – e della mia vita.

Perciò, sono alquanto sicuro di non fare confusione, al netto di comprensibili incertezze essendo passati trenta e passa anni, indicando nel romanzo d’avventura dal sapore londoniano il mio primo, primissimo romanzo. Devo ripartire da lì. Senza perdere tempo con il romanzo gigantesco di 500 pagine scritto a quindici anni e senza perdere tempo con il primo romanzo dell’orrore su una casa infestata da una enorme quantità di polvere. Né posso cercare qualcosa nei romanzi pubblicati. Certo, i romanzi pubblicati sono assai migliori dei primi tentativi (non sono certo uno di quelli che crede che tutto ciò che scrive o abbia scritto sia perfetto, anche se a questo punto posso forse dare questa impressione), ma in termini di investimento emotivo, di tempo e di “lavoro” questi cosiddetti tentativi giovanili non sono da meno rispetto a ciò che è venuto in seguito.

È pur vero che nei romanzi pubblicati spesso ci sono io, nudo, senza inganni o infingimenti. Ciò è dimostrato dalle storie contenute in questi libri, nelle quali non è difficile rendersi conto che le sante donne o i mostri ritratti sono persone conosciute davvero, e che ho cercato di aiutare (non arriverò a dire “redimire”, ma di sicuro ho sempre offerto loro la possibilità di essere migliori di quel che erano), e che alla fine mi hanno soggiogato, approfittandosi di me, e che io ho ripagato descrivendole nei miei libri. Una volta una donna molto speciale per me e per la mia vita (forse quella che mi ha dato la gioia più grande e che mi ha fatto più male di tutte) mi ha detto: “Chi scrive pensa di avere la licenza di mettere le persone che conosce nelle sue opere…”.

Dopo averci riflettuto, sono arrivato a questa conclusione. Chi scrive sa dare una voce alle proprie emozioni e ai propri sentimenti. Sa dare una voce e una forma al proprio dolore. Ciò che non ci rendiamo conto piuttosto è tutto il male che infliggiamo al prossimo con i nostri comportamenti perché non tutti scrivono, non tutti sanno dare una voce e una forma al proprio dolore. Ciò che subiamo lo teniamo dentro e basta: ma questo non vuol dire non ci sia. Anche ammesso questo, nei libri pubblicati si trova pur sempre un io che temo abbia subito le mutazioni che ho detto. Se voglio ritrovarmi, devo riscrivere il romanzo d’avventura incominciato a mai finito a dodici anni. Devo ripartire da lì. Solo che non basterebbe scrivere una storia per ragazzi o con protagonisti mocciosi dodicenni. In effetti, a dodici anni scrivevo storie che avevano per protagonisti adulti di ventisei, trenta, quaranta anni… Non basterebbe neppure sedersi alla scrivania, decifrare pazientemente la mia grafia di allora sui due quadernetti a spirale, farmi un’idea della storia e di dove voglia andare grosso modo a parare e poi completarla.

No, per recuperare la pelle originaria, la prima pelle, prima della prima muta, devo tornare a essere quel ragazzino che sono stato e scrivere con quella mente, quella maturità, quello sguardo… Solo così potrò ritrovarmi. Rinascere. Ricominciare. Accelerando, una volta reincarnatomi in me stesso, ogni processo di conoscenza, ma sempre indossando quella pelle, sempre con quella mente fresca, stando attento questa volta a non mutare più, a non allontanarmi più dal vero me stesso, da me stesso. Poi… il sacrificio.