Frammenti che vagano come variabili impazzite alla ricerca di nuovi significati, di nuove tracce impresse là dove si sono cancellate le altre certezze, le convinzioni, le sicurezze presunte.

È così che ci si sente quando la parola sembra abbandonarci ad un destino afasico nel quale il solo pensare, ancor prima del dire, pare infrangersi sulla barriera dello straniamento mentre si cerca di sfuggire alla paura di un vuoto che non è vastità pronta ad accogliere bensì solitudine, abbandono, oblio, percezione d’amore interrotto.

La parola diviene demone e angelica speranza, alla ricerca di un messaggio che ci porti il suono della voce, non importa se quello di antiche, ammalianti Sirene.

Si gioca ogni carta per ritrovare quella parola che ci invade nel cuore e nel corpo, quella parola che è nostra, che ci appartiene, alla quale vogliamo disperatamente dare la luce, farla nascere.

Si attende la parola prima, la parola seme, con lo sguardo che anela come a manna odorosa capace di nutrire desideri smarriti, di colmare attese inascoltate. È tormento o forse estasi se l’anima continua ostinatamente a sperare.

Perché la parola, mia Divina Maestra, continua a fuggire da me, perché mi pare
d’aver perduto la sua voce, il suono sacro delle sue sillabe arcane?
Concedimi la parola che io possa fecondarla di pensieri potenti, che io possa nutrirla di visioni
mirabili, che io possa continuare a sentirmi una cosa sola con il Verbo.

Le parole si staccano dal corpo che sente le ferite della lontananza e non trovano rifugio, non trovano pace, sostano al limitare della selva, si affacciano su porti abbandonati dalle esistenze, attraversano città deserte di sapere, sfilano come ombre invasate alla ricerca di luce, di prodigi che ridestino attese e visioni.

Le parole doloranti schiacciano, sotto il peso della disperazione, la tristezza lieve della melanconia.

Cerco parole che danzino ricordando musiche perdute, gesti mancati.

Voglio parole che facciano intuire purezza e libertà.

Chiedo parole soffiate fuori dal corpo attraverso il fiotto caldo della poesia. Inseguo la parola che vibra all’unisono con la nostra anima che la sente parte inscindibile di quel tutto da cui non può astrarsi né prendere distanza, nel quale deve immedesimarsi.

Mi sfiora la parola che, come linfa vitale, inonda la mente prima di farsi flatus vocis, flusso di voce, percezione di coscienza, la parola che dice l’indicibile indossando la veste evanescente dell’immaginazione.

Attendo parole che intessano l’inno alla Luna, madre di ogni cambiamento, Signora di bianca luce d’avorio.

Mi manca la parola che riempie il cuore, che sfiora l’orecchio e disegna in filigrana le sillabe che si intonano con i suoni dell’universo, la parola che ha in sé la sacralità che alimenta il canto del mito, l’armonia dei suoni perenni.

Ritrovo il grido potente della profetessa che è attraversata dall’entusiasmo divino e attinge alla fonte dalla quale la voce sgorga ancor prima di farsi parola.

Colgo la parola che accoglie la paura per farne nettare di guarigione, la parola che insegue la voce per farsi ascoltare da chi vaga nell’oscurità dei pensieri, incapace di attraversare la palude limacciosa dell’ignoranza.

Ascolto con diletto la parola che incanta, la parola di miele che induce la persuasione, antica dea, la ascolto fino a che il cuore si placa come ad un racconto di fiaba.

C’è una parola femminile dolce e lenta e la colgo come fiore sbocciato d’inverno, una parola feconda e benevola, la parola dell’Imperatrice sul suo trono di tarocchi. La parola della principessa che incede ieratica e solenne, la parola della sacerdotessa che conduce nella grotta della profezia, che illumina il cammino verso l’incontro iniziatico.

Sfioro la parola che non appartiene al tempo, la parola che fluisce come il respiro, che scorre come acqua che non si ferma e bagna la terra come un seme ininterrotto che genera fiducia.

Attendo la parola che perdona, la parola indulgente che sempre fa tornare con il ricordo alla carezza amorevole della voce materna.

Inseguo la parola che ristabilisce l’equilibrio tra il privilegio e la mancanza, l’armonia tra l’essere nelle cose e il cercare di dominarle.

Indago la parola che travalica il pendio delle cause smarrite nel tentativo di placare l’intelletto. Risento la parola che attraversa il senso delle piccole cose, con leggerezza, senza confronto, senza giudizio.

Voglio la parola che scava negli angoli bui dell’indifferenza e fa emergere sentimenti abbandonati.

Attendo la parola che ritrova la propria eco nel riverbero di una identità che si fa premessa preziosa lungo il cammino della vita, nell’ascolto.

Scorgo la parola che penetra nelle fessure della nostra meraviglia e la illumina di attese.

C’è una parola che compita le “geometrie esistenziali” per incontrare le forme scontornate di una quotidianità che ha bisogno di infinito.

Non rifiuto la parola che si ferisce strappandosi dal silenzio che non vuole perderla nel vortice del dire senza sapienza.

Amo la parola che si insinua nei giardini della benevolenza sfiorando gli smalti color turchese che rendono splendenti le miniature nella flebile penombra attraversata da delicati bagliori di sole al tramonto.
Sento il tepore di quella parola senza segni che le impongano definizione.

Inseguo la parola che spalanca lo sguardo sulla distesa generosa dell’impossibile, che nuota nel grande oceano dell’ignoto, la parola che squarcia l’orizzonte limitato delle consuetudini, la parola che si fa largo nello spazio angusto che circonda la ragione.

Voglio liberare la parola dal suo vincolo di materia per elevarla e farne frammento di appartenenza alla coscienza cosmica.

Cerco la parola che emerge dall’inquietudine della conoscenza per incontrare il mistero, per inoltrarsi nell’oscurità che prelude alla scoperta, coraggiosa, della necessità di accogliere il dubbio.

Cerco la parola che attribuisce i nomi alle cose e si prende cura della loro verità, la parola che si fa capace di pienezza, che si dona in un attimo fulmineo e infinito.

Volgo lo sguardo alla parola che può dare riposo, la parola che dispiega le sue ali a proteggere la nostra mente appesantita dalle speranze.

Chiedo la parola che fa ritorno a se stessa per imparare a riconoscersi in un nuovo gesto d’amore. Chiedo la parola che colma la mancanza, che riporta equilibrio là dove è venuta meno la pienezza del sentire, del contemplare la propria rettitudine, la propria dignità, la parola che fa esperienza e, sperimentando, conosce.

Intreccio le parole che donano l’addio a coloro che hanno per sempre dimora nel nostro cuore.

Ammiro la parola che accetta di non tenere a distanza la vita ma la racconta, la lascia scorrere (nelle cause e negli effetti) come un torrente nel quale immergersi anche se con paura.

Scopro la parola che disegna orizzonti sfumati nella lieve nebbia di ciò che è stato e fatica ad inabissarsi nell’oscurità per far riposare l’animo provato dall’illusione del reale.

Inseguo la parola che intreccia l’intuizione e svela un altro modo di conoscere, la parola in grado di vedere, la parola che trova spazio per dare luce alla semplicità dell’essere, la parola che scioglie l’inganno e fa brillare il vero fin dal profondo, la parola che apre all’ascolto.

Respiro nella parola sorridente che restituisce calore al peregrinare freddo nei territori dell’ignoranza.

Amo la parola che non dimentica di condividere, la parola che si specchia nello sguardo compassionevole, che è contatto, che è intenzione benevola.

Amo la parola riconoscente che fa risuonare l’altro attraverso un dire che è consapevolezza, quel “sapere insieme” che non esclude ma rafforza e rassicura.

Custodisco la parola che non formula domande ma spalanca visioni che chiedono coraggio per essere accolte.

Mi prendo cura della parola che risveglia il legame con il nostro restare vivi, con il respiro che scorre in noi anche quando siamo invasi da una irrequietezza che spegne la capacità di dire.

È potente la parola che narra il percorso, ne respira la multiforme completezza senza lasciarsi possedere dal peso del risultato, dalla presunta certezza di ciò che non è definitivo.

Chiamo la parola che si staglia nel deserto delle abitudini e cerca conforto alla propria diversità. Tengo salda la parola che evoca solitarie armonie, la parola che consola attraverso gli inattesi colori assegnati alle sillabe.

Con il ricordo di antica saggezza rendo omaggio alla parola che fa udibile la voce del nostro saperci fragili e infinitamente parte del divenire del Tutto:

Spasmi di roccia infuocata
formarono un cono alto tre miglia.
Pioggia e vento lo spaccarono
in cento dita turrite.
Nel tempo, gli alberi fecero leva
nelle fessure.
Dopo un milione di anni, condor
e serpenti
vi presero dimora.

Roccia imponente, pareti istoriate
di pallidi e vermigli licheni
l’uomo ancor più fragile su quelle
pietre.

(Deng Ming- Dao, Il Tao per un anno, U. Guanda Ed., Milano, 1993)

A cura di Save the Words®