Girando per il giardino d'estate li vedevo lì nei punti in cui la sabbia era più soffice, tanti piccoli imbuti gli uni vicino agli altri a formare uno strano paesaggio in miniatura.

Rimanevo a guardarli per molti minuti con un misto di fascinazione e di terrore.

Quei perfetti imbuti di sabbia a volte allineati, più spesso raggruppati a decine in uno spazio sabbioso non più grande di un palmo di mano, sembravano trappole abbandonate, perfetti marchingegni dimenticati da chissà quale essere ormai estinto, dei fossili, delle reliquie.

Eppure qualcuno c'era lì sul fondo dell'imbuto in paziente attesa, forse con una fame primitiva, atavica, che lo teneva in vita.

La perfezione di quelle trappole era tale che pareva impossibile potessero essere state costruite. Quando venissero modellate poi era un mistero, di giorno c'erano, di notte c'erano, se le distruggevi dopo poco erano di nuovo lì, misteriose ed enigmatiche come le piramidi.

Quegli imbuti esistevano e basta, non c'era da chiedersi altro e molte volte invano ho atteso per vedere qualcuno o qualcosa nell'atto di dar forma a quell'avvallamento per scoprire la magia di quella geometria essenziale.

Le lotte che ho fatto! per scoprire che fosse quell'architetto burlone e riservato, quel cacciatore crudele e paziente. Solitamente era con un ago di pino che mettevo alla prova il nemico: con la punta toccavo leggermente il fondo dell'imbuto e se il tocco era stato veramente leggero, un tocco di formica, allora qualcosa, una zampa, una proboscide, un artiglio, muovendosi fulmineo per arpionare la preda sollevava un leggerissimo sbuffo di sabbia, giusto qualche granello, non di più ma questo già bastava ad un occhio attento per capire che il predatore aveva colpito.

E poi? Io ritiravo il mio ago di pino, nudo e crudo così come l'avevo introdotto nella trappola e nulla di più sapevo del misterioso cacciatore.

La cosa diveniva più interessante, e crudele, quando nell'imbuto cadeva un piccolo insetto, una formica: l'artiglio la colpiva fulmineo facendola scomparire in un batter d'occhio sotto la sabbia e avevi un bel cercare scavando e distruggendo l'imbuto, preda e predatore erano già scomparsi.

Dove? E chi lo sa!

E dire che di quegli imbuti ne avrò visti centinaia nelle estati calde della mia infanzia. Spesso ero io che cacciavo le formiche e non appena ne avevo catturata una la lasciavo scivolare malignamente lungo le pareti oblique della trappola.

Le poverette muovevano le loro zampette a velocità folle ma ogni passo faceva rotolare verso il fondo qualche granello di sabbia e la formica tristemente li seguiva sempre più giù finché l'unghiata la immobilizzava e la trascinava chissà dove, nella tana del predatore.

Formicaleone, così si chiamava quello strano animale insieme di abilità, fantasia, crudeltà, sveltezza e fame, una fame da lupo, da leone.

Io me lo immaginavo lì, immobile, in attesa da giorni, forse anni. Non doveva essere un animale grosso, qualche millimetro non di più ed una formica doveva saziare la sua fame per molto tempo ma quante formiche riusciva a catturare? Pochissime secondo me, non perché non fosse bravo, anzi! tutt’altro, una volta entrata nell'imbuto la formica non aveva scampo ma era difficile che vi giungesse, c'era talmente tanto spazio su cui passare per le formiche che sembrava assolutamente improbabile che andassero a finire proprio lì nella trappola.

A volte poi scoprivo degli imbuti piccolissimi, tanto piccoli da parer tracce lasciate sulla sabbia da qualche goccia di pioggia, la loro dimensione era talmente ridotta che se la formica non era anch'essa piccolissima spesso riusciva con uno slancio disperato a risalire la bassa china e ad uscire sfuggendo la morte.

Oppure zampettando disperatamente creava un tale caos da distruggere l'imbuto stesso, lo faceva crollare, franare, riuscendo a non farsi trascinare verso il fondo.

Altre volte gli imbuti erano in posti così difficilmente raggiungibili che dovevano essere stati costruiti da qualche formicaleone sprovveduto o pazzo, deviante.

Era allora che mi veniva voglia di raccoglierli con una paletta e depositarli da qualche altra parte, in un posto molto trafficato dalle formiche, ma era una cosa irrealizzabile, bastava toccare appena la sabbia attorno alla trappola per squassare in un attimo il piccolo imbuto.

Ricordo un pomeriggio d'estate in cui un amico dei miei genitori mi si avvicinò mentre in giardino, come al solito, cercavo qualche formica da gettare nell'imbuto.

"Cosa stai facendo?" mi chiese.
"Cerco formiche per i formicaleone, ce n'è uno piccolo là sotto una foglia di vite, deve avere una fame enorme."

Si allontanò ridendo forte. Non credeva che esistessero i formicaleone! Eppure io sapevo che c'erano lì rintanati sotto la sabbia, da qualche parte. Un giorno finalmente ne ebbi la conferma.

Avevo catturato una formica piuttosto grossa e prima di lasciarla cadere nella trappola mi armai di un ago di pino secco, sottilissimo ma piuttosto rigido.

Mentre la formica annaspava lungo la parete dell'imbuto più grande che avevo potuto trovare, io immobile e pronto allo scatto come un felino fissavo il fondo dell'imbuto.

Improvvisamente il solito artiglio colpì la formica e cominciò a trascinarla sotto la sabbia facendola scomparire, la formica però era piuttosto grossa e ci volle qualche attimo di troppo per farla sparire così ebbi il tempo di colpirla io stesso con l'ago di pino e di trattenerla.

A poco a poco la tirai su, la feci riemergere completamente dalla sabbia trascinandola lungo la parete dell'imbuto e lì, avvinghiato a lei come un forsennato, stava il formicaleone.

Mentre con l'ago di pino facevo rotolare i due insetti che parevano abbracciarsi a vicenda, scoprivo a poco a poco quanto sembrasse inerme il formicaleone a dispetto del suo nome minaccioso.

Stava aggrappato alla formica, molto più grande di lui, pareva aggrapparsi per disperazione, per solitudine.

Ebbi pena di lui e quando la formica, forte del fatto che era più imponente e che ormai si trovava sul proprio territorio, così poco congeniale al formicaleone, riuscì a sfuggirgli, osservai con tristezza quel cacciatore stanco, sconfitto, nudo, che si trascinava goffamente verso la sua tana distrutta dal mio ago di pino.

Lo vidi scomparire lentamente in ciò che rimaneva del suo imbuto, il più bello e grande che avevo trovato, e lo immaginai là, sotto la sabbia, sfinito ed affamato, affamato di una fame atavica che forse avrebbe dovuto patire ancora per anni.

Ritengo opportuno chiarire poche cose riguardo questo racconto che scrissi quando ancora era forte in me la sorpresa per avere scoperto un animale così singolare come il formicaleone.

Furono mio padre e mio zio ad indicarmi per la prima volta le trappole a imbuto nella sabbia, disseminate a decine nella piccola vigna accanto alla casa che fu la nostra abitazione estiva per molti anni felici.

Dopo molte sedute di osservazione mi rimaneva il cruccio di non avere capito una sola volta cosa accadesse nel fondo di quei piccoli imbuti quando una formica improvvisamente si immobilizzava e scompariva lentamente sotto la sabbia per non riemergere mai più.

Fu per questo che cominciai ad indagare sperimentando empiricamente con degli aghi di pino secchi il recupero della formica, in modo da scoprire cosa l’avesse catturata.

Ora so che in fondo a quegli imbuti si celano in realtà diversi predatori, quelli che scoprii io erano un tipo di Vermileone (Vermileo Vermileo, descritto da Linneo nel 1758), che io credevo essere i formicaleone, (Myrmeleontidae Latreille, 1802), che sono in realtà insetti diversi, simili a una zecca con forti tenaglie mandibolari, che mi ispirarono, senza che io li avessi mai visti, il racconto in questione.