Avevo venticinque, ventisei anni; mi ero appena laureata e, com’è naturale che fosse, non avevo un lavoro. I miei genitori esistevano e non esistevano, nel senso che i loro corpi potevo trovarli di volta in volta distesi sul divano o intenti a mangiare un piatto di riso, ma delle loro reali volontà io non avrei proprio saputo dire nulla. Si muovevano come fossero sempre in procinto di scomparire dietro a un angolo, per risolvere infine quella sensazione di vuoto a metà che mi suscitavano. C’è da dire che da loro mai potei apprendere qualcosa su una vita sana e tranquilla, per poter allineare le mie giornate lungo una falsariga qualsiasi, come le figurine incollate nel loro album, l’una dopo l’altra, nei riquadri numerati. Con quei genitori alle spalle – modelli di incognite esistenziali, di silenzi che uno pur tuttavia è libero di interpretare come vuole, di mutismi che prima o poi si ha il cedimento di colmare con la propria voce, diventando il ventriloquo del proprio padre – mi trovavo costretta a reinterpretare da me, dal niente, le scansioni del tempo umano, cercando di dare un senso all’estenuante rotatoria delle ore.

Del resto quella era per me un’epoca di un certo valore, e non si può dunque pretendere che fosse pure felice. Trascorrevo i pomeriggi in cucina, a guardare i video musicali su Mtv o le televendite di arte contemporanea, bevendo un caffè dopo l’altro. C’erano certi quadri, i Cavallini d’un pittore ebreo, che mi facevano venire voglia di prendere il televisore, e scuoterlo tutto come fosse un bel ragazzo che si mette in mostra, ma poi fa il difficile. Dell’estetica me ne infischiavo: certo erano bei quadri, ma quello era il meno. Erano tele semplici e sofisticate allo stesso tempo, dignitose e in qualche modo stupide. Quel Music, davvero aveva fatto un bel colpo! – pensavo. Oppure c’erano interi tavoli da biliardo farciti di strumenti musicali – violini e violoncelli, soprattutto – sigillati da una grande lastra di vetro trasparente. Sembravano insetti mostruosi che facevano capolino da una gigantesca goccia d’ambra. Li vendevano a cinquantamila euro l’uno, c’era davvero da riderne. Mia mamma ogni tanto veniva a vedere che espressione avessi, e si sporgeva nel mio ambito mantenendo un po’ le distanze. “Ma cosa credi di fare comportandoti in questo modo?”, mi chiedeva poi con astioso risentimento, passandosi le mani sul grembiule. Io ne rimanevo ogni volta sinceramente disorientata e, portando la tazzina di caffè alla bocca per darmi un contegno, le domandavo a mia volta: “Ma perché, mi sto comportando in qualche modo?”. Non era ironia, il mio era autentico stupore.

Giravo i canali così velocemente da non lasciare alle immagini neppure il tempo di formarsi sullo schermo. Speravo che dal gesto inutile, ma ripetuto, potesse scaturire una qualche valida condotta di vita. Quando si facevano le cinque del pomeriggio mi ringalluzzivo del tutto e mi preparavo per uscire. Sembravo un’altra. Fino a mezz’ora prima mi si poteva vedere immusonita, con la faccia grigia, girare per casa seminuda. Forse solo con un corpetto di lana addosso, se era inverno. Mi inoltravo per il corridoio e guardavo la cassapanca in legno intarsiato. Così pregiata, così ferma! Che bella condizione: la toccavo con un dito, le facevo il filo. Poi mi chiudevo in bagno e ne uscivo trasformata. Infilavo un paio di jeans attillati e un paio di tacchi della madonna, anche se non era serata. Prima di uscire davo una golata dal cartone di latte freddo e mettevo su l’ennesimo caffè, che attendevo con tutto un altro spirito. La vista mi si acuiva, mettevo a fuoco le cose neanche fossero prede. Vedevo la piccola Moka darsi da fare, tutta bella sinuosa in vita come una clessidra; ne ammiravo la compattezza e la pressione. Una volta in cui mia madre mi vide scendere le scale tutta infervorata, ma con una tazzina di caffè in mano, mi gridò giù dalla rampa: “Ma tu sei pazza! Ma quanti ne bevi al giorno di quegli affari lì?”. Mi voltai mentre le mie gambe saettavano giù di corsa: “Mah, dieci, dodici...” – le risposi con la pacatezza di un contabile.

Non potevo fare a meno di andare a passeggio dalle parti di via del Vescovado e di via dei Guasco. C’era una specie di inclinazione in quel quartiere che mi attraeva come una biglia lungo il solco. Già scendendo le scale pensavo: “Adesso vado in via Guasco”. E non che là ci fosse qualcosa di particolare, soltanto desideravo ancora una volta andarci, per vedere che cosa mai potesse accadermi. Erano vie dell’antico centro alessandrino, coi muri sgualciti e pozze di muffa su per gli intonaci, che si srotolavano in croste croccanti. Le mura della Diocesi e vecchi palazzi storici abbandonati confinavano con bilocali messi a punto da geometri previdenti, con millimetrico senso del recupero territoriale. A me piaceva più di tutto andare a vedere i vecchi battenti di una chiesetta sconsacrata, conficcata ad angolo tra via Guasco e via Canetti. Non aveva per nulla l’aria di essere stata una chiesa cattolica, perché possedeva troppo senso del territorio, troppa strategia urbana: assomigliava piuttosto a una bottega di spezie, o a un dismesso portale di estinti culti pagani. Di fronte alla chiesetta c’era una grande proprietà signorile, costituita da una villetta settecentesca a base ottagonale, immersa in un piccolo giardino, nel cuore del centro storico della città. Davvero un’isola di eccezionale lusso che faceva imbestialire gli speculatori: in quelle viuzze così oppresse da minilocali, era peggio che un cesto di frutta sacrificato a mo’ di centrotavola in un periodo di carestia. A volte mi appendevo al cancello della villa per sbirciare dentro al giardino; mi sarebbe piaciuto vivere là dentro, ma non in questa vita.

Oltre la villa, giù verso Palazzo Guasco, dove la via va a sconfinare nei quartieri fatiscenti di Borgo Rovereto, solo in parte recuperato con la schizzinosa sensibilità di una rivista alla moda, c’era un piccolo locale pieno di macchinette per il caffè. Una volta al posto delle macchinette c’era una pizzeria da asporto, gestita da un uomo minuto e oppresso da una stanchezza perenne, che talvolta trovavo accasciato sotto al bancone, mentre schiacciava un pisolino. “Cristian” gli dicevo “se vuoi mi servo da sola”. Allora lui balzava su con una Coca-Cola in mano – ce l’aveva già in mano da coricato, evidentemente – e mi sorrideva col suo sorriso sdentato, mentre fasciava un trancio, con gesti macchinali e approssimativi. Nonostante il buon cuore di Cristian l’attività dovette fallire da lì a un paio d’anni.

In tutta via Guasco ero attratta dalle macchinette del caffè più che da ogni altra cosa. Quando mi ci avvicinavo sentivo il cuore battere con una cadenza più formale, come se stessi per entrare nello studio di un notaio, o di un confessore. Tutto il mio corpo si contraeva, l’attenzione si acuiva: provavo lo stesso agonismo di una gara d’atletica. Era un’eccitazione generale, diffusa, che chiamava in causa tutti i miei nervi come in una radunata alle armi. Mai saputa comprenderne del tutto l’origine. Guardavo i pavimenti gialli del piccolo locale, sempre cosparsi di segatura sporca mista a fanghiglia. Una luce al neon vibrava dall’alto anche in pieno giorno, inutile come il pensiero di un dio meccanico, preimpostato sull’erogazione continua. Mi fermavo al centro del locale, e da lì le macchinette mi si irradiavano attorno come l’interno di un’astronave anni ’70, piena di calcolatori enormi e quasi umani. Tutto molto accattivante. Gli avventori erano di solito marocchini, rumeni o albanesi che arrivavano vestiti da muratore per prendere il caffè a cinquanta centesimi. Il caffè – inutile dirlo – faceva schifo; ma non era peggio di quello dei bar. Anch’io lo prendevo. Tiravo fuori le monetine e le infilavo nella fessura. Mi piaceva l’atto di ordinarlo a un meccanismo muto. Tutta la componente di giovialità e di fasto mondano veniva meno in quei tre metri quadri di asettica sporcizia. Il caffè là dentro non era affatto una bevanda ricercata per il suo gusto: era un rito spoglio, severo, che scandiva il tempo.

Non si sentivano le tazzine cozzare contro il bancone, e la sinuosità dei cucchiaini veri era abolita: solo bacchette di plastica dentro bicchieri di plastica. Se eravamo in due o in tre stipati là dentro, sorbivamo i caffè dandoci tutti le spalle, con gli stessi vettori repulsivi di un legame chimico. Se per sbaglio i nostri sguardi si incrociavano, vedevamo impressa negli occhi dell’altro la medesima convinzione: che la nostra epoca stesse agonizzando senza chiederci alcun aiuto.