Non ricordo se a diciannove anni avessi paura di volare, di certo avevo già una gran smania di vedere il mondo, per cui, dopo un noioso agosto passato con i miei sulla odiata riviera romagnola, accolsi con entusiasmo la proposta di un mio amico ed ex compagno di liceo, di raggiungerlo a Pantelleria, strana e fascinosa isola mediterranea, dove era ancora in vacanza.

Mi imbarcai su un volo di linea Bologna-Palermo per poi salire su un piccolo turboelica Fokker F27 che dalla città siciliana doveva portarmi a Pantelleria.

Eravamo a settembre, il tempo splendido e luminoso, luminoso come solo in quel mese sa essere il Mediterraneo.

Il volo fu regolare, rumoroso per via delle turboeliche ma tranquillo. Al momento di atterrare sulla breve, piccola pista dell’isola, ricavata da una cava dismessa di lapillo rosso che in pantesco, il dialetto locale, si chiama appunto “cuddie rosse”, colline rosse, l’aereo, già quasi atterrato, diede nuovamente spinta alle eliche e riprese quota.

Tra lo sconcerto generale il comandante annunciò che per “avverse condizioni climatiche” eravamo costretti a tornare a Palermo-Punta Raisi. Il mare era liscio come olio e il sole splendeva radioso! Inquietudine mista a preoccupazione, se non addirittura paura, serpeggiava tra noi passeggeri e anche le facce degli steward, che guardavamo per tranquillizzarci, erano anzi piuttosto pallide e tirate, confermando i nostri timori sulla gravità della situazione.

Dopo aver abortito l’atterraggio il Fokker diresse dunque verso Nord-Est ma dopo qualche minuto lo orizzonte, dal finestrino, si impennò bruscamente ponendosi in verticale perché, con un sibilo sinistro, l’aereo si era gettato in una vertiginosa picchiata. Dopo alcuni interminabili minuti effettuò una brusca cabrata ripuntando il cielo per rimettersi nuovamente in assetto normale.

Potete immaginare la nostra reazione ad una situazione simile, anche perché ora gli stessi steward, che avrebbero dovuto assisterci e tranquillizzarci, avevano un’aria veramente preoccupata.

Dopo qualche minuto, la assurda manovra venne ripetuta tra il silenzio tombale di noi poveri passeggeri che ovviamente pensavamo che di lì a qualche secondo ci saremmo sfracellati al suolo o inabissati tra le onde.

Questa volta però, una volta che l’aereo fu risalito e riprese stabilità in un volo apparentemente normale, ci “ammutinammo” e slacciate le cinture di sicurezza assalimmo i poveri assistenti di volo.

Siccome dal ridicolo annuncio di meteo avverso non vi era più stata alcuna comunicazione dalla cabina di pilotaggio, esigemmo almeno da loro qualche spiegazione, perché la fola delle condizioni climatiche non se la sarebbe più bevuta nemmeno un bambino.

Venimmo così a sapere che quando stavamo per atterrare a Pantelleria il carrello anteriore non risultava uscito completamente, infatti, il dispositivo di blocco non risultava scattato, per cui c’era il rischio, assai concreto, che una volta atterrato, in fase di frenata, sarebbe rientrato portando il muso del Fokker ad arare la pista con le conseguenze che si possono ben immaginare.

Quelle assurde manovre erano in realtà un tentativo dei piloti di far scattare il meccanismo di blocco del carrello anteriore facendo picchiare l’aereo per poi cabrare all’ultimo momento come un bombardiere Stukas al tempo della battaglia di Inghilterra, solo che stavolta le bombe eravamo noi.

Dopo urla e imprecazioni varie, del resto comprensibili, si decise di presentare una sorta di mozione per chiedere al comandante di tentare un ammaraggio, perchè comunque l’acqua è sempre più morbida dell’asfalto, a questo erano ridotti i nostri discorsi.

Intanto ormai, dopo altre manovre disperate per cercare di bloccare il carrello che, si badi bene, ai controllori di volo a Pantelleria era risultato visivamente uscito in modo regolare, eravamo giunti su Palermo e vedemmo con terrore fiotti di un liquido rosa uscire dalle ali.

Ci venne detto che l’aereo espelleva in mare il Kerosene perché non prendesse fuoco al momento dell’atterraggio di emergenza, le cui orribili procedure vedevamo già allestire a terra: liquido schiumoso bianco sparso sulla pista, sciame di ambulanze, mezzi dei vigili del fuoco che sfrecciavano a terra, eccetera, eccetera: quindi, la nostra miseranda petizione era stata respinta, non ci aspettava lo schiaffo del mare ma il pugno duro dell’asfalto, quello sì.

Ci fecero mettere a sedere, cinture allacciate, senza scarpe e senza catenine o collane addosso, accucciati contro lo schienale del sedile avanti al nostro, mentre l’aereo scendeva, scendeva e il terrore cieco saliva, saliva.

Lovecraft, forse il più grande scrittore del gotico e del fantastico, diceva in un suo celebre aforisma che “il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura,” e su questo non gli ho mai dato così ragione come allora, ma quando poi continua sostenendo che “la paura più grande è quella dell’ignoto” devo smentirlo.

Probabilmente il Solitario di Providence non è mai stato su un aereo in procinto di schiantarsi, altrimenti avrebbe capito ciò che qualsiasi aguzzino sa benissimo, e cioè che è proprio la conoscenza di ciò che ti aspetta, di ciò che le spietate leggi della fisica infliggeranno alla tua povera carne di lì a qualche minuto, è proprio quello a sconvolgerti dal terrore.

Nessun pensiero aulico o nessuna tutta la vita che ti passa davanti in un secondo, solo rabbia e orribile incredulità.

Forse questi nobili sentimenti sorgono a chi sceglie di rimetterci la pelle per qualche nobile causa o per qualche atto di magnanimità, non so, non mi è mai capitato di volare così in alto, mentre nel mio caso, quando ti tocca essere, per una trista ironia della sorte, quella sfortunata eccezione che conferma la regola di una routine considerata sicura quasi al 100%, quando ti capita di essere quell’uno su un milione a cui tocca schiattare, ti senti solo un miserabile, ti senti povera carne da macello.

Ricordo che pensavo: “Perché proprio a me?” Chissà perché, nel tumulto del mio cervello e dei visceri che si ribellavano, mi venne in mente l’idea che questa volta ero io il cattivo di un film di James Bond che faceva una fine orribile solo che questa era realtà, questo mi stava succedendo davvero.

Intanto, tra queste amene considerazioni, il Fokker si avvicinava a terra ed io, tutti noi passeggeri e l’equipaggio, vedevamo forte la morte, questo, almeno, era quello che abbiamo creduto fino all’ultimo momento.

Perché alla fine toccammo terra, il Fokker dopo interminabili minuti frenò e facemmo il miglior atterraggio che si possa immaginare. Cosa era successo? Mentre un ambulanza portava via un passeggero che sapemmo aver avuto un attacco cardiaco, il comandante ci radunò e davanti ad un rinfresco gentilmente offerto dall’amministrazione dell’aeroporto di Punta Raisi, felice di non dover tornare agli onori della cronaca dopo il disastro aereo del dicembre dell’anno prima, quando un DC9 si inabissò tre chilometri prima della pista per un errore dei piloti, ci spiegò che il carrello anteriore aveva funzionato perfettamente, semplicemente era saltato il fusibile della spia che doveva segnalarne il bloccaggio in uscita e che quindi lui, non potendo fidarsi ed avendo constatato l’inutilità delle picchiate e cabrate, aveva deciso per un atterraggio di emergenza in un aeroporto attrezzato che non poteva essere certo quello di Pantelleria.

Dopo la sostituzione del fusibile ripartimmo senza problemi con lo stesso aereo e la vacanza si concluse felicemente.

Da quel trauma io non mi sono mai ripreso completamente.

Per qualche anno, infatti, continuai a volare apparentemente senza timore ma lentamente l’incubo vissuto durante quel volo si ripresentò sempre più prepotentemente che, dopo qualche anno, era lievitato a tal punto che la sola idea di salire su un aereo e di rischiare di rivivere quei momenti mi fu insopportabile.

Per quasi dieci anni non volai, girai il Mediterraneo ed il vicino oriente con tutti i mezzi terrestri e marini a patto che non si staccassero dal suolo. Ricordo che una volta, preso coraggio, salii sul ghiacciaio della Marmolada con un accidente di funivia vertiginosa ma stetti così male che mi rifiutai di ridiscendere per tale via, preferendo una lunghissima e pericolosa scarpinata su ripidi ghiaioni per arrivare, dopo ore, alla partenza della funivia.

Però non poteva continuare così, la smania di viaggiare, di rivedere prima che scomparissero (come in effetti è poi successo) le barriere coralline, le foreste e le montagne dei continenti lontani era troppo forte.

Consultai psicologi e perfino un buffone di ipnotizzatore che mi ipnotizzava rispondendo continuamente al cellulare. Tutto inutile.

Alla fine, mi spiace contraddire una volta di più l’amato Lovecraft, capii che la mia paura, in realtà, non era quella di schiantarmi in aereo e quindi di morire, l’ignoto non mi spaventava, era ciò che conoscevo, quelle orribili sensazioni che precedono il disastro e che invece conoscevo benissimo avendole vissute, che mi spaventavano terribilmente, quelle non volevo assolutamente riviverle.

Come fare? Semplice: dovevo anestetizzarmi. Essendo medico mi procurai un potente sedativo che si chiamava Roipnol e lo assumevo in quantità ed in tempi adeguati per essere già “partito” al decollo che, insieme all’atterraggio, era il momento che temevo di più, insomma io non dovevo esserci in quei momenti, ciò che accadeva non mi riguardava, anche perché in realtà, il mio cervello “ razionale” sapeva benissimo che era molto più probabile che un fulmine mi colpisse durante una ferrata o che uno squalo mi aggredisse durante le mie amate immersioni che capitasse qualcosa al mio aereo.

Non era impossibile però, quindi dovevo sedare il mio sistema psico-neurovegetativo semplicemente dormendo ... con qualche aiutino farmacologico. Così ricominciai a volare.

Erano anni precedenti l’11 settembre 2001 per cui un passeggero “un po’ fatto” non allarmava più di tanto e i miei compagni di viaggio spiegavano alle hostess il motivo del mio stato e loro chiudevano un occhio, preferendo un passeggero sedato piuttosto che in preda al panico.

Si accumulò così un aneddotica di miei comportamenti bizzarri, che ovviamente io non ricordo poiché il farmaco dà amnesia anterograda, ma che i miei amici mi hanno riferito, roba da far morire dalle risate, come quella volta che, arrivato a Nuova Delhi ancora fatto di Roipnol, pare che io mi sia intrufolato nel tapis roulant dove si scaricano i bagagli e venni ritrovato beatamente seduto con aria ebete, tra le valige nell’ilarità generale, mentre scorrevo senza che nessuno si decidesse a ritirare un così singolare bagaglio.

Scherzi a parte la paura di volare, che sta comoda ad un viaggiatore come la claustrofobia ad uno speleologo, non mi ha mai più abbandonato del tutto ed anche se ora volo regolarmente senza “drogarmi” più, basta nulla per farmi artigliare i braccioli e contorcermi imprecando (silenziosamente) sulla poltrona fino al momento dell’arrivo.