Dicono che ognuno di noi abbia un sosia. Qualcuno dice addirittura più di uno. Mi hanno sempre fatto sorridere queste storie. Che a Lecce o a Bogotà – questi i luoghi degli avvistamenti – vivessero persone con la mia faccia, non mi ha mai disturbato. Fino al giorno in cui il mio sosia l’ho incontrato davvero.

Successe in Islanda, una destinazione curiosamente non prevista in quell’indimenticabile estate del 2019. Con John, il mio amico navigatore, avevo deciso di spingermi fino a una remota isola della Groenlandia, chiamata Janmayen. Con lui vantavo diverse esperienze di vela nel mare di Norvegia. Entrambi eravamo perdutamente innamorati dei fiordi e delle magiche luci del Nord. Come ogni anno avevamo noleggiato la barca, un ketch di 8 metri – in Scozia, dall’amico Peter O’Neil, una garanzia in quel campo. L’equipaggio era costituito oltre che da John e da me anche da Janine, l’amica bretone di John, una donna nata in una barca e da Hans, amico comune e carpentiere di Bremenhaven.

Il viaggio si preannunciava emozionante e avventuroso. Io come unico italiano ero stato incaricato di occuparmi della cucina, ruolo di indiscutibile responsabilità a bordo.

Partiti all’alba da Thurso, nel Nord della Scozia e sfruttando un vento sostenuto proveniente da Est eravamo riusciti a navigare per due giorni con una andatura perfetta, tanto da rinunciare al tradizionale ridosso a fianco delle isole Faro-Oer, con l’intenzione di proseguire più in fretta possibile verso Nord.

Al largo delle coste islandesi però qualcosa andò storto.

Successe tutto all’improvviso durante la notte. Un colpo sordo seguito da una sbandata sorprese e allarmò l’intero equipaggio. John fu il primo a ipotizzare una collisione con una balena in emersione e Hans non poté che constatarne i danni: il timone era fuori uso. Lanciammo la prima richiesta d’aiuto alle 2.35. Poiché ci trovavamo a parecchie miglia dalla costa islandese ci rispose per prima la guardia costiera danese chiedendo ragguagli sulla nostra posizione.

Eravamo alla deriva in mezzo all’Atlantico!

Le condizioni metereologiche favorevoli ci permisero di attendere i soccorsi senza timore di peggiorare la nostra situazione. I soccorsi, con nostra grande sorpresa, alla fine, giunsero dall’Islanda. Alle 3.45 ricevemmo il primo contatto con un peschereccio d’altura. Alle 5.18, saldamente agganciati, venivamo trainati verso la costa. Solo più tardi, in un inglese quasi incomprensibile, ci venne comunicata via radio la nostra destinazione di emergenza: Holmavik, una località così piccola da non risultare neppure sulla mappa.

Toccammo terra all’alba, stremati ma felici.

Come spesso succede nelle zone costiere del Nord, anche a Holmavik l’arrivo di una barca straniera diventò un evento importante. Sul molo di Holmavik, ad attenderci, c’erano tutti. C’era il capo della locale stazione di polizia (due agenti in totale), c’era la pretessa della piccola chiesa protestante, visibilmente emozionata e c’erano alcuni pescatori con i loro tipici maglioni di lana. E una quantità impressionante di bambini biondi. Solo più tardi scoprimmo che Holmavik contava solo 32 abitanti. Fummo accolti e confortati con coperte, caffè caldo e ottimi sandwich al salmone.

Agust Ianson, il meccanico locale, dopo aver esaminato attentamente il danno della nostra barca, non ebbe esitazioni:
-Potete scegliere, o rimanete a Holmavik un paio di settimane in attesa del pezzo di ricambio oppure vi fidate di me e lasciate che vi risolva io il problema. Ho delle pilotine in disuso giù in officina e potrei tentare di adattare un vecchio timone al vostro scafo.
-Ma non è possibile! - esclamò Hans udendo quella bizzarra proposta.
-Eh, sì invece! Quando si vive in un posto come questo si impara a riciclare tutto e a ottimizzare le risorse.
-Devo dire la seconda soluzione mi sembra un po' azzardata – aggiunse John – io preferirei attendere il pezzo originale. Certo che due settimane a Holmavik ci fregano tutto il tempo che avevamo a disposizione per la crociera...
-Andiamo a berci una birra, nel frattempo potete pensarci – rispose Agust ridacchiando dietro i suoi folti baffi biondi.
-Una birra? Ma sono le 9 del mattino! - risposi io completamente frastornato dagli ultimi avvenimenti - sto crollando dal sonno.
-Perchè voi in Scozia come iniziate la giornata? E poi bisogna brindare a voi, navigatori temerari. Ci vuole un bel fegato per veleggiare da queste parti. Il mare quando si arrabbia non perdona. Il fondale qui di fronte alla baia è costellato di relitti. Su, venite con me, il primo giro lo offro io! - aggiunse Agust, imponendosi con tutta la sua simpatia.

Si chiamava Jan Olmarson. Appena misi piede in quello che scoprii essere l’unico locale di Holmavik e lo vidi in piedi, al banco, non credetti ai miei occhi. Lui sentendosi osservato istintivamente si voltò. Cominciammo a ridere.

Il quartetto di noi forestieri, nel frattempo, non era passato inosservato. Pareva che tutti sapessero già di noi. Qualcuno esclamò qualcosa ad alta voce e in un attimo fummo circondati e accolti con risate e calore, come a casa.

Jan approfittò di quell’attimo per congedarsi temporaneamente dal suo gruppo di amici e venirmi vicino. La somiglianza tra noi era impressionante. Sorpresi e imbarazzati ci scattammo reciprocamente delle foto. Capii subito di essere al cospetto del mio sosia e non volli perdere l’occasione di conoscerlo. Alterato dall’emozione esordii con alcune battute stupide su mia madre. O forse avrei dovuto dire nostra madre? Jan sembrò accorgersi del mio stato alterato e ordinò due birre, cominciando a raccontare di sé.

Fu l’inizio di tutto.

Faceva il medico. Per essere precisi era l’unico dottore di Holmavik. Aveva accettato l’incarico da medico condotto in quell’angolo sperduto dell’isola e ormai erano dieci anni che si trovava lì. Conosciuto e benvoluto da tutti, era al corrente dello stato di salute di ogni abitante di Holmavik. Il suo ambulatorio, situato in una piccola casetta di legno dipinta di azzurro, era aperto due giorni a settimana. Jan mi disse di amare il proprio lavoro e di essere felice della sua vita. Holmavik era certo un posto un po' fuori mano ma mai e poi mai avrebbe cambiato la sua posizione con quella di qualche collega costretto tra la quattro mura di un ospedale di città.

C’era però un rimpianto nascosto dietro quella sua realizzazione personale.

Forse proprio a causa di quel nostro incontro curioso ed emozionante, Jan mi rivelò che fin da bambino avrebbe voluto dipingere, diventare un artista. I suoi libri di medicina, ai tempi dell’università erano pieni zeppi di piccoli schizzi a matita e caricature di professori e compagni. Il destino - e un padre inflessibile - alla fine avevano deciso per medicina e il sogno di pennelli e colori era scomparso come certe sorgenti che sorgono dalle rocce, si liberano per un breve tratto in superficie per sprofondare improvvisamente nell’oscurità.

Inutile dire che la storia di Jan mi colpì moltissimo, creando in me risonanze interiori profonde e inaspettate.

Ordinai altre due birre cogliendo con la coda dell’occhio il cenno di approvazione di Jan. Dopo l’ennesimo brindisi la voce dei miei compagni di viaggio cominciò a farsi lontana.

Cercai Jan e come rivolgendomi a un’immagine specchiata di me stesso cominciai a parlare di cose mai pronunciate prima. Ricordai di un tempo in cui mio padre, vedendomi accudente e curioso dell’umano, sognò per me una carriera da medico. E quanta angoscia e disorientamento gli procurò invece la mia vocazione artistica tanto da costringerlo ad opporre ad essa uno strenuo e ottuso rifiuto.

Delle mie scelte non dubitai mai, la curiosità per l’umano nel corso della vita non venne meno e si tradusse in incontri e in relazioni con persone di ogni parte del mondo. In quanto all’amore per la scienza esso si declinò in una più generica devozione verso la natura e le sue innumerevoli espressioni. Ma la cosa curiosa fu che mi capitò sovente di incontrare persone incredule nel sapermi artista pensandomi invece professore o medico. E a nulla erano servite le mie spiegazioni o l’esibizione di manufatti firmati da me.

Jan, dopo avermi ascoltato con attenzione ruppe in una fragorosa risata. I calici di birra erano di nuovo vuoti. Fu allora che intravvidi negli occhi di Eldur la genesi di quell’idea che in un attimo divenne il nostro piano. Un piano insieme dolcissimo e diabolico e mai seppi dire in chi dei due veramente prese forma prima perché la nostra energia - non solo l’immagine - specchiata, da quel momento cominciò a confondersi pericolosamente.

Con il cenno di approvazione del giovane barista, ordinammo altre birre e ci spostammo a un tavolo per progettare meglio il nostro scambio di ruoli.

Fu Jan per primo e senza pudore a propormi di vestire il camice per un giorno. Alternando momenti di riso a espressioni più solenni, mi invitò a non lasciare sfuggire quella bella occasione e ad essere dottore per un giorno, rassicurandomi: i radi pazienti di Holmavik e la routine delle terapie mi avrebbe messo al sicuro da qualsiasi rischio.

-Agli islandesi - mi disse - basta ripetere di bere più acqua e mangiare meno dolci seduti davanti alla tv.
Lui, comunque, mi avrebbe fornito alcune consuetudini e dettagli delle conversazioni con i pazienti. La nostra somiglianza avrebbe fatto il resto.

Euforico di fronte a quella prospettiva che inizialmente mi parve niente di più di un gioco, non volli essere da meno e proposi a Jan di vivere un giorno d’artista.
-Tu mi leggi nel pensiero! - esclamò gongolante.

Mettemmo a punto il nostro piano anche nei dettagli: individuammo tra le vecchie rimesse per barche di Holmavik uno spazio protetto da trasformare per un giorno in un atelier. Io mi sarei preoccupato anche di fornire a Jan un po' di materiale per poter dipingere: con me in barca avevo portato acquarelli, pennelli e alcuni blocchi di carta. Mi resi disponibile a offrire a Jan anche alcune indicazioni utili per poter vincere i blocchi iniziali. Brindammo nuovamente e quella volta così rumorosamente che anche i miei amici e le altre persone presenti nel locale se ne accorsero.

Non rivelammo mai il nostro progetto. Convenimmo di fare tutto il giorno successivo e io ebbi da allora un solo pensiero: che i lavori di riparazione della barca si prolungassero permettendomi di vivere con agio tutto ciò che mi si prospettava.

Dell’esperienza di Jan non seppi molto, so che fu intensa quello sì, ma non conobbi mai veramente tutti i dettagli. Jan, tutte le volte che ne parlò, dovette interrompere il racconto per la commozione. Incominciò a dipingere già al mattino, grandi campiture di colore, macchie sparse e timide pennellate. Poi, misteriosamente, gli venne un colpo di sonno, impulso che immediatamente accolse distendendosi sopra ad una branda ricoperta di pelliccia di pecora. Quando si risvegliò, ispirato da sogni e da immagini interiori affiorate prepotentemente, bevette due grandi tazze di caffè nero e si mise di nuovo al lavoro. Dipinse di getto una grande roccia dalla forma curiosa. Non faticò a riconoscere il luogo dove era nato e vissuto fino all’età di 16 anni. Data un’ultima pennellata vigorosa afferrò alcuni fogli nuovi dal suo blocco e dipinse altri paesaggi e mentre li dipingeva si ricordò con commozione di esperienze legate a ognuno di essi. Ecco apparire in una macchia la fattoria di Ordubreid, il luogo dove fece la sua prima visita da giovane medico condotto e poi la cascata di Mirdamfjordur dove salvò da morte certa una turista svizzera caduta in acqua. E poi ancora la casa di Frida, la ragazza più bella di tutta Holmavik. Con grande naturalezza ma non senza fatica Jan lavorò tutto il giorno. La sua creatività trattenuta e compressa per anni era esplosa come un geyser inesauribile.

In quanto a me, smaltita la sbornia e scemata l’euforia del primo momento non fu facile immaginarmi medico per un giorno, con tre pazienti veri in attesa nella stanza accanto. Riconobbi che il camice candido di Jan mi calzava a pennello. Quando poi vidi la mia immagine riflessa nella vetrinetta stipata di medicinali non ebbi più dubbi e dopo aver riguardato il biglietto scritto a mano da Jan esclamai a gran voce:
-Naesti, gerthu svo vel! (Avanti il primo!).

Mi si presentò davanti un uomo alto e magro dell’età apparente di 60 anni. Si chiamava Ulrik Omarsson. Jan me lo aveva ben descritto: fisico asciutto, carnagione cianotica e malaticcia, 45 anni portati male a causa di un prolungato abuso di sostanze alcoliche, o forse per il duro lavoro in mare sui pescherecci. Ma Jan mi aveva voluto raccontare anche un’altra storia: Ulrik non era veramente Ulrik ma suo fratello gemello Agnar. Erano sullo stesso peschereccio quella maledetta notte del 14 dicembre di tre anni prima quando Ulrik fu colpito da un’ondata gigantesca che strappò la sagola di sicurezza e lo scaraventò nel mare in tempesta.

Agnar, forse per qualche inspiegabile motivo legato a rivalità infantili, tornò a terra asserendo di essere Ulrik e nessuno ebbe motivo di dubitare delle sue parole. Ma Agnar non si limitò a quello. Abbracciò la moglie del fratello - la bella Hilldur - come se fosse sua e da quel giorno vissero insieme. Nel villaggio di Holmavik per qualche tempo girarono voci malevole sul suo conto ma l’unico, veramente l’unico che sapeva la verità, a parte l’interessato ovviamente, era Jan, il dottore. Lui i due fratelli li aveva avuti come pazienti per anni ed era a conoscenza di alcune piccole differenze presenti nel loro fisico sufficienti per renderli distinguibili.

Fu per me quindi un’esperienza singolare avere come primo paziente un gemello impostore. E nel rispondere alla sua consueta domanda settimanale: “ Get èg fengith einn pakka af C-Vitamini?" (Posso avere una nuova confezione di vitamina C?). Io dissi: “Jà!" (Sì!), abbozzando un sorriso ma cercando in realtà di sfruttare quei brevi secondi per scandagliare lo sguardo sfuggente di quell’uomo e cogliere la genesi del suo piano diabolico. Mi dimenticai di chiedere a Jan se avesse rivelato al gemello impostore di essere a conoscenza della sua reale identità. Prima di congedarsi Ulrik- Agnar si fermò davanti alla porta e alzato il maglione mi mostrò ridacchiando un grosso neo sul fondo schiena. A questo proposito alla mia richiesta di chiarimenti, il giorno seguente, Jan non mi diede alcuna risposta.

La seconda paziente presente nella lista che avevo sulla scrivania fu Berta, una donna giunonica dai capelli corti ossigenati. La sua condizione obesa l’aveva messa più volte in crisi nel corso degli ultimi anni - così mi aveva anticipato Jan - e il fatto che vivesse da sola in una fattoria isolata nell’entroterra non aveva mai permesso veramente di monitorare l’esito delle terapie. Jan mi raccontò anche dell’unica volta in cui si era spinto fino alla casa di Berta per portarle dei farmaci urgenti e di come fosse rimasto impressionato dallo stato di abbandono del luogo, soprattutto dalla sporcizia. Berta dal canto suo, al di là dei problemi fisici determinati dall’eccesso di peso, si era sempre dimostrata una persona pacifica, amava i suoi due cavalli e le innumerevoli pecore che il padre le aveva lasciato insieme alla casa. E passava le sue giornate guardando la televisione e mangiando alghe secche, forse uno dei pochi alimenti sani della sua dieta abituale.

Quando entrò nello studio mi scrutò quasi con sospetto. Poi inaspettatamente mi chiese: “Viltu ath èg klaethi mig ùr?” (Vuoi che mi spogli?). Domanda che ovviamente non riuscii a tradurre e alla quale incautamente risposi con un automatico: “Jà takk” (Sì, grazie).

A quel punto lei procedette nell’operazione ed io non fui in grado di fermarla anche solo dirle che non era necessario. Colto di sorpresa da quel gesto, rilessi più volte, come un mantra salvifico, la lista dei farmaci che con Jan avevo preparato per Berta e afferrai lo stetoscopio preparandomi al peggio. Ma lei fu più svelta di me e con indosso solo un paio di mutandine rosa tese all’inverosimile, mi prese a sé e mi abbracciò schiacciando la mia faccia contro il suo seno immenso e sudato ripetendo le parole “Kaeri laeknir... kaeri laeknir...” (Caro il mio dottore... caro il mio dottore).

Furono i secondi più lunghi della mia vita e ricordo ebbi sensazioni dolcissime e spaventose insieme. Poi improvvisamente Berta mollò la presa e mi lasciò libero. E come se non fosse successo nulla si rivestì con calma - non senza difficoltà - canticchiando una canzone e guardandomi con sorriso malizioso... Quando ebbe finito l’operazione - io, nel frattempo, avevo trovato riparo dietro la scrivania - prese le scatole con i farmaci e mi salutò con un affettuoso “Sjàumst seinna minn kaeri, vith munum hittast ì naestu viku!” (Arrivederci caro mio, ci vediamo settimana prossima!).

Appena fu uscita caddi stremato sulla poltrona maledicendo il momento in cui avevo accettato di vivere quell’esperienza. A confortarmi giunse inaspettatamente il terzo e ultimo paziente del giorno, un uomo di nome Ismar. Quando entrò nello studio mi ricordai di aver già visto il suo viso tra quelli delle prime persone giunte al molo al nostro arrivo a Holmavik. Chissà cosa stavano facendo i miei compagni di crociera in quell’istante? Mi venne da ridere immaginando le discussioni tra Hans e Agust su come fissare un timone incompatibile con la nostra barca.

Ismar era un uomo anziano rimasto vedovo da poco ma con uno stuolo di figli e nipoti sparsi per tutta l’isola. Avrebbe potuto contare su un fisico robusto, da contadino, se non fosse stato minato dal morbo di Alzheimer che lo rendeva ora preda di una cronica fragilità psichica tenuta fortunatamente a bada con farmaci specifici che Jan faceva arrivare apposta dall’America.

Jan, parlandomi di lui, mi aveva avvertito che avrei assistito a una rituale complesso e apparentemente caotico costituito dalla presentazione delle immagini dei figli e dei nipoti con nomi diversi, tutti mescolati. Un puzzle di vita toccante ma anche impressionante, a testimonianza della profonda complessità della mente umana. Ismar si sedette davanti a me senza togliersi il cappello di lana infeltrita e dopo avermi sorriso tirò fuori dalla tasca il portafoglio e lo svuotò sul tavolo davanti a me. Poi, con le sue dita nodose sfiorò la piccola montagna di fotografie formato tessera quasi le volesse carezzare e cominciò a selezionarle e a mostrarmele una a una.

-Thetta er elsti sonur minn Ottar (Questo è il mio primo figlio Ottar) - disse guardandomi orgoglioso.
-Thetta er Osk, yngri dottir min (E questa e Osk, la mia figlia più giovane).
-Jà, Thetta er elsta dottir Ulfar,en seinna barnith mitt! (Questa è la prima figlia di Jack, il mio secondo figlio) - aggiunse con gli occhi sempre più inteneriti.
-Svo er thath Oli. Hann var sonur Margret,og thithja dottir min. Hann fòrst ùt à sjò,thvi mithur (Poi c’è Oli. Lui era figlio di Margret, la mia terza figlia. Lui è morto in mare, purtroppo).
-Thetta er min àstkaera eiginkona (Questa è la mia amata moglie) - mi disse mostrandomi la foto di una bambina con i riccioli d’oro, presumibilmente una delle nipoti.
-Sjathu hvath hùn er falleg! (Guarda come è bella!).
E per qualche istante chinò la testa e si chiuse come in raccoglimento mentre lo udii singhiozzare.

Proseguì così per una decina di minuti con questo rituale delle foto, ed io seguii con attenzione ogni suo gesto fingendo di comprendere le sue parole. Fu lui stesso, ad un certo punto, che riordinò tutte le foto e le rimise nel portafoglio. Tutte tranne una. La foto di un cane. L’unica di un animale. Fece il gesto di darmela e io non potei fare altro che accettarla. Sul retro della foto era scritto Lara. Prima che si alzasse dalla sedia gli consegnai la scatola con i preziosi farmaci e non so perché mi alzai per stringergli la mano e accompagnarlo alla porta.
-Vertu blessathur Jan! (Arrivederci Jan!) - mi disse prima di uscire.

Concluso il mio giorno da medico tirai il fiato ma volli rimanere ancora per qualche minuto nello studio a pensare. Sentivo che erano bastati tre incontri in quell’ambiente e in quella veste così inconsueti a determinare in me un cambio di rotta. Qualcosa di profondo era cambiato in me. Cominciai a farmi con insistenza la domanda: perché continuare a dipingere paesaggi e cieli di fantasia quando le storie reali degli esseri umani erano così toccanti ed evocative?

Lasciammo Holmavik due giorni dopo con un timone posticcio e la barca piena di provviste alimentari. Quel giorno tutto il villaggio a gran completo ci salutò al molo. Con John e gli altri decidemmo per sicurezza di rimanere vicini alla costa e proseguire con la circumnavigazione dell’isola rinunciando per quell’anno all’isola della Groenlandia.

Ah, dimenticavo, il nostro equipaggio al momento della partenza contò su di un nuovo membro: un cane di nome Lara, sbucato all’improvviso in mezzo alla folla in festa e salito a bordo con un balzo, facendo intendere abbaiando e scodinzolando di voler partire con noi.

Qualche tempo dopo…

-Bello quel dipinto! - disse Jona Stefansdottir, una delle pazienti abituali del dottor Jan.
-Non l’avevo mai notato.
-Infatti, l’ho fatto da poco - rispose Jan senza nascondere il suo orgoglio.
-Ma lei dottore dipinge? Questa è una novità per me - aggiunse Jona.
-Complimenti, lo trovo molto bello.
-Grazie! Sì, io dipingo - rispose Jan.
Nell’udire la sua voce fare quella affermazione percepì una emozione così forte che quasi si commosse. Nel corso della sua vita in qualità di medico i complimenti e i segni di riconoscenza non erano mancati ma questa del dipingere, beh, questa era ben altra cosa!

In quello stesso istante, a 3000 miglia di distanza…

-Bella questa serie di acquarelli blu!
-Ti piacciono? Li ho realizzati da poco. Sono stato ispirato dal viaggio che feci in barca tempo fa, ricordi?
-Come potrei dimenticarlo. Mi ricordo anche che ci incontrammo al tuo ritorno e tu... tu mi dicesti qualcosa a proposito delle mie occhiaie bluastre sotto gli occhi... ecco sì, mi consigliasti di fare degli esami. Io non ti ho mai ringraziato perché poi non ci siamo più visti. Quegli esami io li feci subito e il medico mi disse che avevo scongiurato una grave patologia del pancreas… eh sì, ti sono molto riconoscente. Ma tu con queste doti da diagnosta perché non hai fatto il medico?