Robert Pittorino
Born: Sidney – Australia
2-2-63 at 7,30 a.m.

“He was a good boy.” Someone said.
“He was a pest.” Said another.

Catholic school.
Hortoculture - Permaculture.
“The target is Sustainability”. Documentary TV production.

Sculpture…

Una volta conobbi un ragazzo. Non ricordo come si fosse stabilito a Ravenna ma so per certo che i suoi avi venivano da Salina ed erano emigrati in Australia molti molti anni addietro, dove lui poi era nato. Durante un viaggio alle sue origini qualcosa lo portò da noi.

Si chiamava Robert ma molti lo chiamavano Robby. Strano a dirsi era, per me, e nella mia mente è sempre rimasto, un aborigeno.

Sarà perché ho sempre avuto il cuore dalla parte degli aborigeni ma mi è sempre apparso come il mio amico portatore della sabbia scura dell’isola di Salina nel suo sangue mescolata alla sabbia rossa dell’Australia, alla linfa focosa, incendiaria, dei suoi eucalipti e alle fantastiche stravaganze biologiche degli animali antipodici.

Gli australiani parlano un inglese calcando molto su certe vocali aperte, strascicate, e lui questo faceva anche con la lingua italiana, aggiungendo una specie di incertezza sincopata ad alcuni passaggi dei suoi discorsi che assumevano così una connotazione improvvisata, trovata al momento, inventata, tipica della musica jazz, però si faceva capire bene con le parole, e lo stesso faceva con le sue sculture, che parevano emergere da bozzoli misteriosi nascosti nella pietra e nel legno in attesa che un artista sensitivo e visionario ne cogliesse la presenza celata in secoli di letargo.

Robby era un animo gentile. Robby era un marziano. Robby era Astrotrogen… quando parlavamo tra noi, del significato del pensiero umano, del come si generano le idee e del come noi le mettevamo a confronto, non potevo fare a meno di pensare che la mente è un frullatore di immagini e di idee… o forse, più precisamente mangia immagini e caga idee… e Astrotrogen, suo personaggio immaginario, duale, connubio ibrido avveniristico-arcaico è nato proprio da lì, da un punto vago del cervello in cui si sono mescolati Astroboy, il futuro, e una testa greca, il prezioso passato.

Robby era mio amico e nel periodo discretamente lungo in cui visse nella nostra città e frequentò la nostra cerchia famigliare e di amici fece molti lavori e creò molte cose perché era un uomo faber, creatore e artefice del proprio destino.

Si badi bene, non parlo al passato perché lui non esista più, anzi sono convinto che se quel ragazzo di allora non è frutto della mia fantasia o della mia memoria fallace, perché tutto può accadere… lui debba essere proprio in questo momento, a migliaia di miglia da me, affaccendato con qualcosa che un dio gli ha sussurrato all’orecchio, perché questo è quello che fa un artista, ascolta un suo personalissimo dio, o una dea, e lui una dea l’aveva senz’altro trovata, perché me la presentò, una volta, non v’è dubbio che la ascolti quindi, e ne concretizzi il simulacro.

Quando hai una dea, una musa ispiratrice, devi avere buone orecchie, perché a volte ciò che ti sussurra è così delicato da ingannare un orecchio disattento, e può essere colto solo da chi ha infinite attenzioni e grandi capacità.

E Robby è così, Robby ha denti di lupo, sguardo profondo, capelli neri come il carbone e pelle aborigena, Robbi ha sulla pelle di atavico pescatore e nella mente oceanica la storia di due isole antipodiche, una piccolissima, Salina, vulcanica, e l’altra immensa come un continente. Il piccolo e il grande si fondono in lui in una cosa nuova, diversa, e così piccole idee nascoste diventano grandi sculture levigate e grandi idee si trasformano in piccoli bellissimi misteri, come i nomi delle sue sculture… deep blue eyesshe came from the darksentinelil legno che parla

Nella sua permanenza qui fece varie esposizioni a cui per affinità emotiva diedi a volte voce ad alcuni suoi pezzi con poesie inventate lì per lì, parole molto istintive che le sculture, i titoli, e le nostre conversazioni avevano risvegliato.

Robby aveva studiato in Australia in una scuola cattolica, aveva approfondito argomenti come l’orticoltura e la permacultura finalizzate al raggiungimento della sostenibilità tramite la produzione di alimenti ed energia negli ambienti antropizzati e aveva chiuso il cerchio documentando attività umane nel settore della tradizione alimentare, tornando alla storia del cibo e della sua preparazione in Italia, il Paese dei suoi avi.

L’elaborazione di idee attorno alla sostenibilità della nostra vita nell’unico pianeta che abitiamo andava di pari passo alla modellazione di oggetti ideali arcaici, fatti nascere da tronchi abbandonati, legni trasportati dalle correnti o da pietre, in cui scopriva tracce antropomorfe e richiami ancestrali ad una natura sempre benigna e complice, come se fosse scritto che uomo e natura dovessero per destino andare a braccetto.

Un bel viatico per affrontare il futuro, salvaguardando il passato. Purtroppo, non si salva il pianeta da soli. Il futuro di allora, che è il nostro presente, ha tinte fosche, e in quella cultura verde avremmo dovuto immergerci tutti anziché scatenare per incuria il lato maligno della natura.

L’ultima cosa che ho saputo di Robert, anni fa, è che viveva alla periferia verde di una grande città australiana e si recava in centro con l’autobus, e a volte, quando camminava verso la fermata del bus, sulla strada che sovrastava la scogliera, gli capitava di osservare alcune balene che passavano lente lungo la costa.

Parole per le esposizioni di Robert

Quel canto un po’ strano che ricorda la storia di un uomo ancestrale ti entra nel cuore, si perde nei legni seccati dal sole e aspetta la mente che sprema quel tronco per farne figura, per dargli una forma.

Mi piace pensare che un po’ di parole escano fioche dai nodi legnosi rendendo più vive le forme, le cose è il legno che parla.

Quella lancia di legno che vola nel cielo
ricorda l’inizio di un mondo ancestrale
di pietra rovente bagnata dal mare
di fumi sbuffanti che salgono in cielo
recando nel blu un candido velo.

Australia, oh Australia
terra rossa dal sole che brucia
braciere di un mondo di radici contorte
di fusti che corrono dritti alle stelle
portando il profumo di mille eucalipti.

La sera i Kookaburra lanciano i loro richiami dai rami più alti degli alberi.
Quei becchi forti e ossuti paiono trasformarsi in labbra dolci nella luce morente del giorno
e raccontano di una vita selvaggia e libera nei cieli blu d’oltremare.

Legno vecchio legno antico
portami lontano, dove non ti dico.
Legno giovane, legno fresco
cullami all’infinito.

Nascosto nel mio studio attendo che l’idea dischiuda la porta
e quando entra è sempre preceduta da un fremito,
come se l’aria venisse invasa da una vibrazione,
è un alito fresco che mi porta ad osservare intorno a me,
come fossi alla ricerca di una cosa viva.

Nebbia di polvere di legno ovunque
si posa silenziosa col suo odore di giungle lontane
e il mio volto
dentro il casco
riflette un’invenzione australe.

Testa di falco che guardi lontano
vieni e posati sulla mia mano
lascia che il vento dal soffio possente
ti libri leggiadra nella mia mente.

C’è una cosa dell’Australia che pochi conoscono.

Nelle enormi distese notturne, dove le strade attraversano il continente tanto diritte da sembrare infinite, i fari accesi dei Big Trucks abbagliano gli animali che vivono nel deserto.

Pare che quelle luci li attirino verso una morte improvvisa spiaccicati da ruote ruggenti che corrono a 100 miglia sotto un carico di tonnellate.

Così la mattina li trovi lì, distesi sull’asfalto, gli occhi opachi, privi ormai di respiro, trasformati da un mostro rombante nel ricordo di un canguro.

La forma nascosta dalle tue venature
riposa del sonno delle creature
portarla alla luce è strano risveglio
per me non esiste nulla di meglio
osservo quel legno e lo vedo già domo
formato a dovere dalla mia fantasia
non resta che togliere ciò che di troppo
ricopre l’idea di una testa di gatto.

Ho questo blocco di legno nelle mani è un legno scuro e compatto, lo chiamo legno ferro tanto è pesante e duro, aspetto solo il momento in cui le mani si muoveranno seguendo l’istinto bizzarro di un’invenzione che il gatto “Matita” mi pare scoprire prima di me, toccando leggero con la zampa sinistra la mano che regge il mio blocco di legno.

Testa di falco che guardi lontano
vieni e posati sulla mia mano
lascia che il vento dal soffio possente
ti libri leggiadra nella mia mente.