Di Soli e di Mondi non so che me ne dire, e sol veggio che gli uomini stentino e tormentino sé medesimi.
J.W.G.

Quello che ho in mente è poca roba a dire il vero, è una strada, che poi sono molte strade, e nemmeno molte se stiamo a vedere - sono solo delle strade di città che si intersecano andando a finire l’una nell’altra, a volte in maniera così piana da dire: “Ma è la stessa strada!”. Non che questo crei un vantaggio, o una confidenza migliore col mondo, no… non crea questo. Della confidenza col mondo si dirà, ma saranno altri a dire - non io, non qui. Quello che ho in mente è una specie di sensazione che fa: “Ti prendo”. A volte lo fa in maniera pacata, senza tono, così: “Ti prendo”. Altre volte la sensazione è più movimentata, come se accelerasse giù da una discesa: “Ti prendo, eh! Guarda che ti prendo!”. Mi capita di sentire questa sensazione verso le sette di sera, quando il cielo è lilla, o blu chiaro.

Succede così: che io cammino per via Tortona con le scarpe da ginnastica, diretta verso il centro di cura presso cui è ricoverato mio padre e, a un certo punto, in prossimità della chiesa delle Immacolatine, arriva la sensazione del “ti prendo”. Mi sembra che nell’aria qualcuno abbia rilasciato un gas esilarante. La presenza del gas esilarante nell’aria crea una condensa, che mi fa accelerare il passo. Se mi fermo muoio dal ridere, penso. Se mi fermo, muoio schiacciata dall’aria carica di risate. E’ una specie di coprifuoco. Non so che cosa ci sia da ridere, perché in fondo non c’è nulla da ridere. Eppure, tutta quell’aria, a quell’ora…

No, poi penso che non ho comprato niente per mio padre, che non gli sto portando niente. Ma non importa, penso, là c’è tutto. Tutto quello di cui può avere bisogno: il lettino, le lenzuola pulite, le donne che gli lavano il culo. Due mesi fa mi aveva chiesto di portargli tre bignè con la glassa rosa. Io gli avevo domandato: “Ma a che gusto?”. E lui: “Con la glassa rosa”. “Sì, ho capito… ma dentro, a che gusto li vuoi?”, avevo insistito. Lui di nuovo: “Con la glassa rosa”. Non glieli ho mai portati. Era troppa fatica? Dovevo attraversare corso Lamarmora, passare sotto i portici di piazza Genova, tirare dritto cento metri fino alla pasticceria Zoccola. Entrare e dire: “Voglio tre bignè”.

Oh, c’è qualcosa di ottuso che mi costringe a non farlo. Un freno. Dentro di me, dentro alla mia testa, c’è un freno. Il freno mi impedisce di fare cose semplici, come questa di comprare tre miseri bignè per il papà. Il freno mi complica la vita, perché poi mi tocca vivere col peso di non avere potuto, e di non avere voluto fare una cosa buona, semplicissima. Però, allo stesso tempo, il freno mi rinfranca.

Il freno deve essere imparentato in qualche modo con il gas esilarante nell’aria della sera. È l’attrito del freno che crea la condensa serale, sicuro. Per andare da mio padre mi vesto in maniera sciatta oppure in maniera ricercata e pretenziosa. La stanza di mio padre è situata al terzo piano della clinica Basile. Per arrivarci, prendo sempre l’ascensore. Dentro l’ascensore c’è uno specchio: io mi ci guardo dentro. Mi aggiusto i capelli con gesti inutili. Per lo più non sento nulla, non provo nessuna emozione. Non è vero che la vita è piena di emozioni. Guardo la sbarra metallica vicina allo specchio. La sbarra arriva all’altezza del bacino. L’hanno messa come appiglio per i disabili, penso. Qui sono tutti disabili. Spesso durante il viaggio in ascensore appoggio un calcagno dopo l’altro sulla sbarra, e mi allungo i muscoli delle gambe. Penso alle ballerine di Degas.

Al pianterreno c’è un idiota che si chiama Francesco. Un giorno, mentre aspettavo l’ascensore, è venuto da me a presentarsi: “Ciao, mi chiamo Francesco”. Gli ho allungato una mano: “Mi chiamo Lorenza”. Poi gli ho guardato la bocca: prima l’angolo a destra, poi quello a sinistra. Francesco ha sorriso: io ho allora potuto vedergli una poltiglia biancastra tra i denti. Ho subito pensato: “E’ idiota”. “Sei giovane”, gli ho detto. “Sì, ho quarantadue anni”. “E che ci fai qui?”. “Qui ho mio padre”. “A che piano?”. “Al primo”. “Anch’io ho mio padre”. “A che piano è il tuo?”. “Al terzo”.

La nostra conversazione fu banale, ma lo scambio delle battute avvenne con una certa luce negli occhi: sembrava che ci stessimo scambiando informazioni preziose, di cui andare orgogliosi. Sono assimilabile all’idiota, ho pensato. Il cielo fuori dalle finestre è azzurro, i tetti rossi; è una giornata di fine agosto, luminosa e accomodante. Mi infilo un paio di jeans troppo stretti che non riesco ad abbottonare. Me li levo con dei colpi secchi delle gambe, sembro una forsennata. Li lancio in un angolo, maledicendo i cinesi e le loro taglie di merda che non coincidono mai con le mie. Apro un cassettone e pesco un altro paio di jeans, sbiaditi e consumati, che a occhio possono andarmi bene. Incominciano a prudermi le mani: penso a tutta la strada che devo fare a piedi, per andare da mio padre. Mi sento la testa ottusa come un tavolino d’antiquariato.

“Oh, ecco!”. I jeans sbiaditi mi vanno bene, su per la vita, precisi nei loro bottoni: uno, due, tre, ecco una vera taglia quarantadue. Trascorro l’estate a guardare dalla finestra. Mi metto lì, fumo le sigarette, maneggio i Bic. Avevo un Bic rosso, piccolo, me lo ricordo ancora. Mai più visto, chissà che fine ha fatto: mai riuscita a finire un accendino prima di perderlo. Sto anche per un’ora di fila dalla finestra del mio studio. Guardo il campanile del Duomo e il cielo azzurro, poi lilla, poi blu. Tocco il vetro della finestra, sporco, penso alla pioggia: “Quando piove…”, mi dico, ma non mi riesce di concludere la frase. Di base non penso a niente; non c’è nulla che mi emoziona, tranne tre o quattro idee fisse di cui renderò conto. Non si può nemmeno dire che aspetto qualcosa.

Guardo giù in strada, vedo le insegne del centro massaggi dei cinesi. Sono insegne brutte, decorate con fiori di loto bianchi e delicati, ma di quella delicatezza che indispone. Sono fiori volgari, perché tentano di convincere che basta dare una mano di bianco su tutto per rendere desiderabile la vita. La scritta “Massaggi” è circondata da neon verdi e rossi, che si accendono e spengono a intermittenza. Non che mi mettano tristezza… voglio dire, io, dalla mia postazione, quassù in cima al quarto piano, me ne sto bene così. Oh, sì, quei neon possono far leva su chi si sente solo e brutto, di questo me ne rendo conto; ma non su di me.