I Dayak del Borneo sono probabilmente il popolo con il più alto senso dell’ospitalità del pianeta. Dal primo momento in cui sono entrato nella loro comunità ho preso coscienza che essere ospiti nelle loro abitazioni (longhouse o lamin) è una fortuna che capita a pochi e che, pertanto, non va sprecata. Si entra a stretto contatto con una cultura affascinante, un mondo profondamente complesso e vasto, ricco di simbologie e rituali, generati da un contesto ambientale e umano pieno di suggestioni primordiali e perciò completamente diverso dal nostro; un differente modo di sentire, di vivere e di comunicare le emozioni. Come in tutte le comunità, anche nelle longhouse esistono un’infinità di principi e di regole, grazie ai quali i Dayak esprimono la loro proverbiale ospitalità che va osservata, compresa e mai abusata poiché l‘insolenza e gli eccessi sono vissuti come una grave offesa. Per esempio, quando sul tetto della casa comunitaria è issata una bandiera bianca, significa che la gente che la abita sta vivendo un periodo d’isolamento per problemi interni (epidemie o altro), durante il quale la presenza di forestieri è inopportuna.

Quando si giunge alla longhouse è il capo villaggio a prendere in consegna il forestiero in transito, provvedendo alla sistemazione nel proprio appartamento, o in uno attiguo, ed al vitto. Se il gruppo di visitatori è numeroso, solitamente viene sistemato in veranda, in uno spazio longitudinale denominato pantar. Nella longhouse si cammina scalzi. Le scarpe vanno tolte prima dell’accesso; il tronco a tacche che funge da scala dev’essere considerato parte integrante della casa. La longhouse è al pari di un condominio privato, non è una ‘guesthouse’ (albergo). Le popolazioni del Borneo usano togliersi le scarpe prima di entrare in una qualsiasi casa. In alcune longhouse le scarpe vengono lasciate in cima alla scala, in uno spazio apposito davanti alla porta d’accesso alla veranda, oppure trasportate nel retro della cucina dell’appartamento che verrà assegnato agli ospiti. Per non sbagliare, consiglio di seguire l’esempio delle guide o di chiedere loro consigli a riguardo. Per fare le cose in regola occorre togliersi anche le calze ed asciugarsi i piedi qualora fossero bagnati. Si dorme al suolo su di una stuoia e si mangia con le mani. Le abitazioni non sono grandi, ma è bene evitare di invaderle con bagagli o vestiti sparsi ovunque; per cui è opportuno radunare le proprie cose in uno spazio appropriato tale da permettere e favorire il transito. Chi ospita usa portare il cibo nella stanza per lasciare i forestieri più liberi, cibo che non va rifiutato evitando di lasciare dei resti. Questi si possono gettare ai maiali che stazionano sotto casa, attraverso l’apposito foro nel pavimento della cucina.

È bene accettare l’ospitalità Dayak in toto, cibo compreso anche se siete in possesso di pacchi di provviste: il rifiuto potrebbe risultare offensivo. Nel caso in cui invitino gli ospiti a consumare un pasto assieme, vanno usate le mani e non le posate da viaggio. Per mangiare si usa la mano destra, la sinistra è impura. Tutte le abitazioni sono occupate dai vari nuclei familiari, legati da vincoli di parentela; le porte sono spesso decorate coi motivi tipici della tribù e si affacciano sulla veranda comune: un osservatorio privilegiato per conoscere da vicino il loro stile di vita, mentre a loro volta i Dayak osservano con attenzione i comportamenti dei forestieri. Ogni volta che capita di entrare in un appartamentino è meglio chiedere prima il permesso, com’è d’uso in qualsiasi altra parte del mondo, e se si intende scattare qualche fotografia va richiesto comunque il permesso. Al visitatore straniero si perdonano molti errori formali, l’importante è che non sia maleducato o fortemente lesivo della loro suscettibilità.

Una persona attenta alle buone maniere è improbabile che compia sconvenienze gravi, ma purtroppo, come già ripetuto in altre occasioni, si allunga la fila di longhouse dove i viaggiatori bianchi non sono più ben accetti ed è un vero, enorme peccato. “Dopo tre giorni di fiume e trekking sono giunto in una longhouse dell’interno con un compagno di viaggio di Norimberga particolarmente taccagno. I Dayak ci hanno accolto a cuore aperto, senza riserve, ospitandoci nell’appartamento occupato dal gentilissimo capo e dalla sua graziosissima moglie. Nei giorni che seguirono nessuno chiese niente in cambio, però la prassi d’uso è quella di fare qualche regalino, piccole cose, o quantomeno effettuare alcuni scambi merce per sdebitarsi del vitto e di tutto il resto. Al figlio del capo, che abitava con la sua famiglia nell’appartamentino accanto, piaceva molto un paio di calze di proprietà del mio compagno ed offriva in cambio un piccolo coltello. Il tedesco per le calze chiedeva invece il cappellino del capo con piuma di bucero, appeso alla parete. Il giovane Dayak replicava che il cappellino era una cosa troppo importante e poi non gli apparteneva. Ogni mattina il figlio del capo veniva a trovarci per proporre lo stesso scambio ed ogni volta subiva un rifiuto, finché se ne andò furente, ferito a morte. Mi arrabbiai anch’io, ma non servì a nulla. Il mio compagno di viaggio partì senza dare niente a nessuno e la stessa cosa si ripeté in tutte le longhouse incontrate lungo il percorso. Cambiava solo se c’era l’affare e questo episodio, assieme a mille altri simili, ha probabilmente contribuito a cambiare l’atteggiamento dei Dayak nei confronti degli occidentali…” tratto dalla mia guida Borneo.

L’onestà e la cordialità dei Dayak sono dunque fuori discussione; non esistono serrature nelle longhouse, gli episodi di furto sono rarissimi per cui il visitatore può stare tranquillo poiché nessuno oserà toccare ciò che gli appartiene senza esserne autorizzato. La collaborazione e la solidarietà in generale, soprattutto verso gli anziani e gli infermi, amorevolmente tutelati e seguiti, sono alla radice della loro pacifica convivenza. Si entra in un mondo fantastico, dove però tutto è ben organizzato grazie alla suddivisione di compiti e doveri, secondo il rispetto e le indicazioni dell’Adat, l’antica legge non scritta dei Dayak. I Dayak Ulu, che vivono nell’entroterra, sono più riservati ma la gentilezza e la cortesia sono tratti evidenti del loro modo di accogliere e di ospitare. Amano i ritmi cadenzati dalla natura, hanno un atteggiamento distaccato e non concedono facili confidenze ma sanno essere anche aperti e disponibili. Gli ospiti possono muoversi liberamente in veranda e nei dintorni nella apparente indifferenza degli abitanti a meno che non ci si faccia notare per forza. Non è escluso che il modo di muoversi all’”occidentale”, a volte aggressivo o arrogante, li lasci quantomeno perplessi. Tra un popolo fiero come quello Dayak ed uno potenzialmente supponente come quello europeo può sorgere, a livello istintivo, curiosità ma anche qualche insofferenza.

La mancanza di rispetto e la sottovalutazione di una cultura arcaica, accompagnate dall’istinto di sfruttare o di disattendere le loro regole, può scatenare reazioni impreviste. È successo infatti che un gruppetto di maleducati oltre che parlare ad alta voce, si sono messi a fotografare, a filmare, a tirare sassi alle cornacchie come se fossero a casa loro creando agitazione nella comunità locale. In un caso come questo si rischia la bandiera bianca e quindi il divieto di ospitalità agli occidentali in permanenza. Fra l’altro, infastidire gli animali domestici, secondo le credenze Dayak, potrebbe causare alluvioni ed un’infinità di altre catastrofi. Fortunatamente questo tipo di viaggiatore è raro in queste zone della giungla. È comunque importante riuscire a tranquillizzare presto coloro che ospitano. Presentarsi con un regalino utile ed apprezzato (penne, matite colorate, temperini, elastici, chiodi e viti, piccoli arnesi, figurine varie, caramelle, t-shirt, tabacco, sigarette, gin cinese, etc.), oltre ad essere un atto dovuto, facilita la conoscenza reciproca. Durante il viaggio di solito si apprende qualche parola della lingua malese/indonesiana ma è utile imparare alcune espressioni del loro dialetto per agevolare la costruzione di piacevoli relazioni. I Dayak ascoltano con curiosità ed attenzione i racconti di vita dei forestieri: la famiglia, il lavoro, i luoghi e a loro volta amano raccontarsi. La comprensione reciproca è fatta di parole e gestualità. La vita nelle longhouse è decisamente apprezzabile a patto che vengano recepiti i tratti salienti del modo di vivere degli abitanti.

In alcune di questi villaggi vivono comunità cristiane praticanti, dai modi misurati e severi ed altre dove si pratica l’animismo, ma l’uso dell’alcool scalda ancora le notti e le feste di gran parte dei Dayak dell’entroterra al di là delle differenze religiose. Quando lavorano la terra, pescano o cucinano non sembrano così diversi da noi, ma le differenze diventano incolmabili durante i canti ancestrali che si effettuano in veranda dopo la cena. E’ il tuak, una bevanda ad alta gradazione alcolica ricavata dal riso fermentato, che surriscalda il cervello e l’anima. Per berlo usano tazze in ceramica o un mezzo cocco svuotato e, dopo un paio di queste scodelle, gli indigeni ‘prendono il volo’ entrando in sintonia con una dimensione ancestrale. Dalla gola delle donne escono toni finissimi da brividi, che sembrano provenire dalla notte dei tempi. Si ha così l’opportunità e la fortuna di ascoltare i canti dei secoli passati eseguiti da protagonisti originali. C’è tutta la loro storia inserita in quegli incredibili suoni, come nelle voci dei cori, inimitabili e penetranti.

Mai rifiutare la bevanda, basta solo un sorso o bagnare le labbra. Il tuak è un liquido acetato e, più che scaldare dentro, infiamma lo stomaco. Nel restituire la ciotola è bene ringraziare e ricordarsi di allungarla con entrambe le mani. L’uso di una sola mano è vissuta come una provocazione. Loro capiscono che non volete provocare nessuno, ma rimane comunque un gesto da evitare. Lo stesso vale per i cibi offerti. La loro ‘stonata’ conduce in luoghi lontanissimi e per noi misteriosi. L’atmosfera che si crea sulla veranda è di rara bellezza, molto suggestiva e si ha la netta sensazione di essere in presenza di persone spiritualmente dotate. Il loro benessere spirituale, cosciente e maturo, è invidiabile ed auguro ad ognuno di avere la fortuna di partecipare ad una delle loro fantastiche feste, di cui i canti serali sono solo un saggio. E’ necessario comprendere il senso della festa, evitando di entrare da protagonisti in una dimensione di alterazione fuori luogo e malvista anche dai Dayak. Un ultimo suggerimento: ricordarsi di eseguire le pratiche igieniche a monte e di fare i vostri bisogni a valle. L’acqua da bere si raccoglie nelle alture , con l’aggiunta di qualche goccia di disinfettante apposito, per ovvie ragioni di sicurezza.

Come arrivarci

Samarinda è collegata a Long Ampung, uno dei “maggiori” centri dell’Apo Kayan, tramite la Asahi o la Pelita Airlines, andata e ritorno due volte la settimana quando il tempo lo permette. Anche i Twin-Otter della Susi Air ed i più piccoli Cessna mod. 185 a sei posti della MAF (Mission Aviation Fellowship) collegano Long Ampung e svariate altre località dell’interno. Sono gli unici mezzi di trasporto che consentono di raggiungere i territori dell’Apo Kayan comodamente, in un’ora e mezzo di volo dalla costa. L’alternativa a questa soluzione sono gli estenuanti percorsi, che attraverso la giungla, portano alla stessa meta in un periodo che può variare dai 15 giorni a 3 e più mesi, in base al tragitto scelto e alle condizioni dei fiumi. Ovviamente, è molto più faticoso risalire i fiumi che non discenderli, di conseguenza per chi desidera intraprendere l’esperienza del viaggio nella giungla è consigliabile fare l’andata in aereo ed il ritorno a piedi. La differenza tra queste due vie, in termine di fatica, viene paragonata a quella tra il paradiso e l’inferno. Ricordatevi di questo paragone quando, come spesso capita, vi diranno scherzosamente che il vostro aereo partirà con uno o due giorni di ritardo; meglio aspettare, senza preoccuparsi: è tutto normale. Nei voli all’interno i simpatici piloti sono i ‘signori dei cieli’ e con loro bisogna sempre accordarsi, anche sulla data del ritorno. Con un accordo preventivo può essere possibile atterrare in un punto diverso da quello stabilito o, con un extra, allungare il tragitto o fotografare a bassa quota: il pilota può fare di tutto (o quasi), basta convincerlo.

Via aerea

L’Apo Kayan è raggiungibile con un volo MAF dai tre principali centri missionari protestanti: Samarinda, Tarakan e Long Bia, cittadina sul fiume Kayan a 8-10 ore di battello da Tanjung Selor. Nella zona centrale dell’Apo Kayan vi sono quattro piste: a Long Nawang, Data Dian, Long Ampung e Long Sungai Barang. Per evitare inutili attese è sufficiente salire sul primo posto disponibile per uno qualsiasi di questi villaggi e proseguire a piedi o in canoa (1-2 gg.) verso la meta preferita. Altre tre piste si trovano nella periferia SE (Long Sule, Mahak Baru e Long Lebusan), vicino al confine col Kutai. Le tariffe MAF per il ritorno sono ridotte del 50% in quanto, una volta scaricata la merce, rimangono spesso parecchi sedili vuoti. Il viaggio è molto piacevole, nel tragitto gli aerei volano ad un’altitudine di crociera di soli 200-400mt. (250-280 kmh.) ed il panorama sottostante (insediamenti isolati, fiumi a serpentina e monti avvolti dal verde) è un vero spettacolo della natura. Nel periodo della bruciatura dei campi, ladang, particolarmente da luglio ad ottobre, il fumo intenso, nei pressi degli aeroporti, può creare problemi e causare ritardi e disguidi.

La Merpati ha ceduto i diritti operativi dei voli interni da Samarinda a Long Ampung alla DAS (Dergantara Air Services), che ogni lunedì e venerdì effettua l’andata (US$ 35) e il ritorno in mattinata. Questo è l’unico volo di linea, sovvenzionato dal governo, per l’Apo Kayan e porta a destinazione comodamente in Twin-Otter (21 passeggeri) grazie alla pista ampliata di Long Ampung, con un costo notevolmente inferiore a quello praticato dalla MAF. Chi ha fretta in 3-7 giorni può visitare i villaggi dell’area centrale e fare ritorno col volo successivo. Si raccomanda però di non fidarsi troppo delle date scritte sui biglietti ed evitare le coincidenze con voli importanti o internazionali poiché basta un cielo carico di nubi per sospendere le partenze. Inoltre, a causa del basso costo, il volo è molto richiesto e dev’essere prenotato con largo anticipo, anche se poi si verificano numerose cancellazioni. Per coloro che amano l’avventura e l’imprevisto, nel prossimo servizio, Apo Kayan quarta parte, spiego in modo dettagliato come arrivarci via terra.

Continua il 17 settembre.

Leggi anche la Prima parte e la Seconda parte