Ubicata nella piazza polverosa del paesino di S. Juan Chamula in Messico, la chiesa di San Juan Batipsta è diventata sempre più meta battuta dal turismo di massa pur mantenendo intatto il suo fascino, amplificato anche dalle oggettive difficoltà riscontrabili nel documentarlo. Con una facciata che risplende di intonaco bianco adornata da maioliche colorate, l'edificio racchiude l’essenza degli ultimi discendenti dei maya di etnia tzotzil che, vivendo ancora in armonia con l'ambiente circostante e preservando tradizioni millenarie, popolano questo altipiano della regione del Chiapas, abitato da donne avvolte in sgargianti abiti colorati e uomini coperti con mantelli in lana bianca o scura.

La parrocchia di San Juan Batipsta di fatto non esiste, dipendendo come diocesi dal vicino popoloso centro di San Cristobal De Las Casas ma risultando di fatto autogestita dalla comunità locale, con un sacerdote cattolico che si presenta qui solo sporadicamente, perlopiù per i battesimi. L'unica navata dell'interno è tagliata non solo da festoni in stoffa, ma pure dalle ben più appariscenti lame di luce che si stagliano dalle finestre laterali, disegnandosi con la complicità dei fumi di incensi e candele. La struttura non contiene panche o altari, ma vive raccogliendo una simbologia del passato maya preispanico sapientemente e deliberatamente mimetizzato con la tradizione cattolica.

Il pavimento è coperto da un tappeto di aghi di pino, quasi a creare una continuità con la natura esterna circostante il paese che vada a coinvolgere tutti i sensi dalla vista al tatto all'olfatto invitando i fedeli a sedersi direttamente a terra, creandosi il proprio spazio scostando gli aghi stessi prima di cominciare la lenta recitazione delle loro litanie. Le pareti sono costellate di teche con varie raffigurazioni di santi, cattolici o meno, adornati di offerte votive e vestiti in abiti che appaiono sgargianti pur nascosti da una patina polverosa. Tra tavoli, ripiani e pavimento ci si deve divincolare con uno slalom continuo tra le centinaia di candele e in questa atmosfera in bilico tra mistico e inquietante si consumano i rituali ad opera dei curanderos. Sono questi sacerdoti, unici custodi di ancestrali segreti, che si occupano di guarire i problemi del corpo e dello spirito dei locali, andando a intercettare nel malato le fonti del dolore con l'ausilio di pollame destinato a macabri sacrifici, espellendo poi le negatività dal malato assieme al gas generato dalle bibite alcoliche e gassate che questo ha ingurgitato in grade quantità per tale scopo.

Documentare questi rituali o anche solo l’ambiente non risulta semplice: all'interno della chiesa è severamente vietato catturare immagini ed è necessario fotografare, sempre che ci si riesca, con discrezione e rispetto. L’ordine è garantito da un servizio di vigilanza preposto al controllo: uomini tzotzil abbigliati con gilet di lana e armati di minacciosi bastoni vigilano attenti sul comportamento dei turisti, pronti a sequestrare e distruggere i dispositivi fotografici senza troppe remore, strattonando anche in modo abbastanza brusco coloro che, magari ingenuamente ignari, provano a opporsi. Questa severità risulta necessaria poiché la popolazione continua a credere che la fotografia possa rubare l'anima dell'interessato, e sicuramente un continuo trafficare di aspiranti documentaristi, con anche qualche maldestro colpo di flash di troppo, rovinerebbe l'atmosfera del luogo, distraendo anche gli stessi spettatori che non si gusterebbero in pieno la sacralità dei rituali. Talvolta per vivere certe esperienze particolarmente forti bisogna avere il coraggio di rinunciare anche al desiderio di immortalarle nella fredda pellicola o sensore, stampandole però a fuoco solo nella mente e nel cuore.