Se oggi Ravenna, grazie anche lo sviluppo degli ultimi decenni, buono o cattivo che sia stato, alla dimensione internazionale del Ravenna Festival e alla buona qualità della vita, si pone sempre ai vertici delle classifiche delle città italiane, il suo stereotipo (e in parte la realtà), nella seconda metà dell’‘800, era di fascinosa e spettrale decadenza. In effetti, dopo che, nel ‘700, il Grand Tour dei viaggiatori stranieri aveva privilegiato l’antichità classica, marginalizzando, dunque, Ravenna, il nuovo gusto tardo romantico, assetato di esotico e di stravagante, vedeva nella Bisanzio occidentale, un’imperdibile occasione per toccar con mano i sogni e i deliri coltivati nella fantasia.

Possiamo citare una lunga serie di testimonianze di turisti, illustri o meno, che rappresentavano la città come il relitto seducente, anche se scomodo, di un vaporoso passato, confuso nella distesa delle paludi e delle brume. Il grande storico Gregorovius, ad esempio, scriveva: “Ravenna è la Pompei dell’epoca gotica e bizantina… ove grava una specie di abbandono trasognato, una decadenza malinconica”. L’autore di Ritratto di Signora, H. James, nel 1873, percorrendo le solinghe strade ravennati, immaginava di trovarsi in mezzo a una città abbandonata, come nella pestilenza descritta da Boccaccio, e annota: "L’aspetto del luogo, la sua quiete sepolcrale, il suo penetrante profumo di caducità… mescola i tratti distinti e rende confusi i dettagli".

Altri visitatori avevano posto l’accento sul suo materiale degrado e sui disagi del soggiorno nella città, a cominciare da Freud, che la definisce un “buco miserando, con cadenti capanne” (anche se, poi, la riscatta definendola “ricca di piaceri” artistici, ma anche di palato, come fichi, pesche e vino…), e non pochi lamentavano la penuria di alberghi accoglienti e l’abbondanza di zanzare… Ma, restando nell’ambito di grandi psicoanalisti, dobbiamo ricordare l’esperienza allucinatoria dell’illustre avversario di Freud, C.G. Jung, che immaginò di vedere, al posto dei finestroni del Battistero Neoniano, degli splendidi mosaici, rimanendo basito, quando, recatosi subito presso la bottega fotografica Alinari, per averne una riproduzione, scoprì che quei mosaici non esistevano, giungendo alla profonda riflessione che: “Dopo la mia toccante esperienza nel battistero… so con certezza che un fatto interno può apparire esterno e viceversa”.

Dall’allucinazione ai fantasmi il passo è breve, e qui s’innesta la testimonianza di una viaggiatrice, che seppe cogliere, con profondo intuito e penetrante sensibilità, il segreto di Ravenna. Si tratta dell’anglofrancese Violet Paget, in arte Vernon Lee, e del suo racconto-saggio Ravenna e i suoi fantasmi. La prima immagine che colpisce la scrittrice, che qui soggiornò a più riprese sullo scorcio dell’800, è la maestosa desolazione di S. Apollinare in Classe, sprofondata tra malsani acquitrini e risaie, infestata da “serpenti” e pipistrelli, cosparsa di “molli muffe”, ma in cui splendeva, illuminata dal sole del tramonto, il mosaico con la teoria degli agnelli tra alberelli e gigli dell’erba del paradiso.

Ed ecco scattare l’immagine fantasmatica di una basilica che si trasforma nel relitto grandioso di una nave arenatasi nei fondali di un mare che, ormai, aveva abbandonato la città, e Vernon Lee vede ripetersi questa fantasia per tutte le altre chiese ravennati, da cui, poi, sempre al tramonto, sembrano uscire, dai sarcofagi, generazioni di fantasmi che paiono parlare tra di loro e: “…si sente il loro respiro… sono bianchi, luminosi, con ricami dorati sulle vesti…”.

Dunque, non sono spettri che incutono orrore, ma rappresentano anche un legame tra passato e presente; sì, perché la scrittrice sa cogliere anche l’aspetto nuovo di Ravenna, che considera socialmente più evoluta delle città lombarde e toscane e rimane impressionata dalla grandiosa opera di bonifica che “portava il pane e curava la febbre”, mentre sorgevano “campo dopo campo e fattoria dopo fattoria”. Questo era il segreto di Ravenna, dove i fantasmi benefici “non erano parte della malinconia, del ricordo, della città nascosta; erano parte stessa della città viva, quella di tutti i giorni… quella dei ravennati”.

Ravenna era la “città del silenzio”, ora ha pagato e paga il suo gravoso debito alla modernità e all’industrializzazione, speriamo che sia ancora in grado di mantenere quelle oasi di bellezza e di meditazione che le possano far conservare il suo affascinante segreto.