Nei primi anni Ottanta del secolo scorso io ero solo un ragazzo e avevo la vita intera davanti a me eppure qualcosa non mi dava pace, come se il mondo fosse troppo grande e troppo carico di meraviglie per il poco tempo che mi era concesso.

Forse era anche il vago presentimento dell’inesorabile precarietà di quelle meraviglie che non mi dava tregua, fatto sta che un'ansia bruciante, nata dall’amore per la natura selvaggia e alimentata dai documentari televisivi di grandi esploratori naturalisti come Jacques Cousteau, Walter Bonatti o Folco Quilici, divorava in me ogni altro interesse. Penso che il mio entusiasmo fosse veramente contagioso perché mi portava a reclutare facilmente altri sognatori come me e a progettare con loro viaggi che in quegli anni, per un gruppo di ragazzi squattrinati, erano vere pazze avventure.

Il cancro dell’integralismo islamico e del terrorismo internazionale non si erano ancora manifestati e la prima di queste spedizioni la organizzai in Egitto perché era un paese meraviglioso, relativamente facile da raggiungere e, come raccontavano quei documentari, doveva avere un mare fantastico; inoltre allora esisteva un servizio di traghetti che da Venezia arrivava ad Alessandria dopo “solo” tre giorni di navigazione. Uno dei compagni di viaggio aveva un'automobile, una vecchia Mini clubman, una piccola familiare vintage con modanature in legno e portellone posteriore a due ante, la imbarcammo sull’Espresso Egitto, così si chiamava il traghetto, e attraverso l’istmo di Corinto, dopo un pomeriggio di sosta ad Atene sulle gradinate dell’Acropoli e un'alba grandiosa nell’Egeo attraversando la caldera di Santorini, giungemmo al porto di Alessandria d’Egitto.

Dopo una mattinata impiegata a “ungere” i funzionari portuali perché ci timbrassero il “carnet de passage” dell’auto e ci lasciassero sbarcare, dopo aver impiegato il pomeriggio a scapolare il traffico demenziale del Cairo, giungemmo finalmente a Giza proprio al calare del sole. Passata la prima notte in tenda tra le grandi Piramidi e lo sguardo perduto della Sfinge, all’alba smontammo il campo e ci lanciammo giù a sud, lungo il Grande Fiume, fino alle rovine di Luxor e infine ci gettammo a est nel Deserto Orientale, abbandonando la trafficatissima arteria principale che corre lungo il Nilo per seguire un enigmatico cartello stradale, quasi completamente corroso dalla ruggine, scritto in arabo con minuscola traduzione in inglese che indicava: Red Sea. La notte ci colse lungo quella sottile striscia di asfalto screpolato lunga più o meno 150 miglia su cui, se ben ricordo, non incrociammo nemmeno una macchina, e ci accampammo nel deserto sotto una sontuosa trapunta di stelle.

Al mattino, dopo una colazione frugale ci rimettemmo in viaggio e guidammo assonnati finché la strada non finì letteralmente la sua corsa sulla riva del mare immettendosi ad angolo retto, in località Marsa Alam, sulla strada costiera del Mar Rosso. Ricordo che era una mattina scialba, una grigia foschia velava il sole che sorgeva esattamente di fronte a noi. Il paesaggio non era certo spettacolare, semplicemente il deserto finiva nel mare tuttavia la curiosità era troppo grande e si decise di effettuare subito una prima esplorazione subacquea di cui mi incaricai io stesso con entusiasmo. Se non fossi stato in preda a una frenetica impazienza e avessi osservato meglio, mi sarei accorto che in realtà, mentre correvo sulla spiaggia con maschera e pinne, non stavo calpestando la solita pietraia di ardesia e arenaria sbriciolata dal sole che mi ero lasciato alle spalle, ma un paleosuolo costituito interamente da una vera e propria barriera corallina fossile. La laguna era in bassa marea e l’acqua, opalescente e caldissima dato che eravamo in agosto, mi arrivava alla cintola. Ancora qualche passo e un cambiamento di colore, dal grigio chiaro al blu scuro, mi avvertiva che ero giunto al termine della piattaforma corallina, al ciglio del gradino che si tuffa nelle acque libere del mare profondo.

Intanto il sole aveva già dissolto la foschia e aveva cominciato a percuotere il deserto col suo maglio rovente, io, un po’ riluttante per timore di rimanere deluso dopo tanta strada e tante aspettative, indossai la maschera e il boccaglio e mi chinai immergendo semplicemente la testa sotto la superficie del mare per guardare nel blu. Non dimenticherò mai quell’istante: fu come gettare lo sguardo oltre la realtà per affacciarsi in un mondo fiabesco: per la prima volta vedevo svolgersi davanti a me il meraviglioso, incredibile spettacolo della vita di una barriera corallina incontaminata. Ho ancora nelle orecchie il grido di gioia con cui chiamavo i compagni di viaggio che mi avevano mandato in avanscoperta.

Probabilmente, sentendo quei mugolii dal boccaglio, dovettero credere che fossi impazzito o che mi avesse punto un pesce scorpione, fatto sta che accorsero e dopo essersi affacciati al drop-off sul ciglio della scogliera corallina si misero anche loro a mugolare di gioia per lo spettacolo che avevano davanti agli occhi: sotto il sole che splendeva ora in tutto il suo fulgore, acropore di un azzurro fosforescente o di un viola ultraterreno si alternavano a enormi cervelli di Nettuno, giganteschi coralli le cui trame somigliano incredibilmente alle circonvoluzioni di un cervello umano, madrepore cervicorni lottavano per la luce con trine di corallo di fuoco color ocra mentre nel blu, in dissolvenza, grandi ombrelli di acropora pulchra si susseguivano fino dove penetrava la luce.

E pesci di ogni forma e colore in quantità incredibile, dagli Anthias rossi in gruppi così fitti che si stentava a vedere attraverso, a branchi di acanthurus, i pesci chirurgo con le loro lame caudali affilate come bisturi, ai pesci pappagallo che azzannavano i coralli nutrendosi dei polipi ed eliminando lo scheletro calcareo contribuendo così alla formazione delle splendide immacolate spiagge tropicali. E ancora anemoni rosa cremisi con deliziosi piccoli e bellicosi pesci pagliaccio che si rifugiavano tra i loro tentacoli al cui veleno sono immuni, branchi di carangidi, di fucilieri e, lontano nel blu, i grandi predatori: squali e tonni che incrociavano al largo pattugliando i loro pascoli viventi, mentre sotto lo sguardo curioso di enormi cernie panciute, qualche tartaruga marina, apparentemente indifferente a tutto, brucava tra i coralli.

Questa era una barriera corallina viva, in tutto il suo splendore ed era una cosa straordinaria perché nulla di paragonabile esisteva al mondo che potesse reggere il confronto poiché nessun altro ecosistema, anche se integro, permetteva di abbracciare in un solo sguardo una tale ricchezza di specie in un rutilante caleidoscopio di luce e di colore. Le foreste pluviali, gli ambienti terrestri che forse più assomigliano alle scogliere coralline, almeno per numero di specie vegetali e animali che ospitano, tengono celata la loro ricchezza e puoi aggirarti per ore tra tronchi colossali senza vedere altro che verde. La biodiversità c’è, la percepisci, la senti, la annusi nell’aria satura di umidità ma a parte il volo di qualche splendida farfalla che intercetta un raggio di sole sotto la volta della foresta, non vedi nulla e la vita fremente puoi solo immaginarla attorno a te, mentre in una barriera corallina in piena salute ti avvolge con la sua bellezza e ti circonda fino a stordirti.

Ma tutto ciò non è il prodotto casuale del sogno di un geniale Demiurgo. Tanta bellezza è il frutto di milioni di anni di evoluzione selettiva che hanno portato minuscoli polipi, che traggono dall’acqua carbonato di calcio fissandolo al substrato per edificarsi un supporto adeguato, a riunirsi in immense colonie e a ospitare, inglobandole nei propri tessuti, microscopiche alghe chiamate zooxanthellae, che forniscono loro nutrimento mediante la fotosintesi e alle colonie i fantastici colori che caratterizzavano le varie specie di coralli. Purtroppo parlo al passato perché ora tutto ciò sta scomparendo. Chi volesse oggi vedere uno spettacolo del genere dovrebbe faticare parecchio e rischierebbe di incorrere in cocenti delusioni. Infatti da alcuni decenni si susseguono eventi climatici particolari che portano le acque dei mari tropicali, dove sorgono le barriere coralline, a innalzamenti prolungati della temperatura anche solo di pochi gradi. Sembra una cosa da nulla ma questo evento porta i polipi del corallo a uno stato di sofferenza a causa del quale prima espellono le alghe simbionti, quelle zooxanthellae che conferiscono loro il colore poi, se il surriscaldamento dura più di qualche giorno, muoiono, innescando quel triste fenomeno conosciuto in tutto il mondo come lo sbiancamento dei coralli.

Non è chiaro quale sia la causa di un evento così catastrofico da compromettere, pare, la stessa sopravvivenza della grande barriera corallina Australiana già colpita per più dei due terzi della sua estensione. Alcuni ritengono che l’innalzamento della temperatura degli oceani sia dovuto alla eccessiva immissione di anidride carbonica in atmosfera da parte delle attività umane che determinerebbe il famigerato “effetto serra”, altri li considerano invece fenomeni naturali affermando che le barriere coralline sono sempre scomparse spostandosi e riformandosi altrove, come avrei dovuto notare io stesso camminando su una scogliera corallina fossile con tanto di coralli e conchiglie pietrificate o come dimostrerebbero le stesse Dolomiti che sono antiche barriere coralline elevate a montagne dalle titaniche forze che muovono i continenti.

Io non so quale sia la verità, so soltanto che mi è toccato in sorte di contemplare una tale meraviglia frutto del fragile equilibrio di forze colossali e poi di assistere impotente alla sua scomparsa. Il mio ultimo recente viaggio mi ha portato ancora una volta a immergermi tra gli atolli delle isole Maldive nell’Oceano Indiano. Miriadi di pesci multicolori nuotano ora sulle macerie grigiastre di quella che era stata una barriera corallina come farfalle che volano sulle ceneri fumanti di una foresta bruciata, qualche rara tartaruga si aggira solitaria su un deserto sottomarino che forse non riconosce più, solo i grandi branchi di squali, come fanno da milioni di anni, continuano imperterriti a incrociare al largo, guardando indifferenti una tale rovina con i loro lenti passaggi, per sparire nuovamente nell’abisso blu cobalto del tempo da cui provengono e in cui tutto sembra infine tornare.